Corpi nel/del postmoderno

Holy Motors [id., 2012] non è semplicemente un film postmoderno: piuttosto, è un film sul postmoderno. E non, esclusivamente, sulla postmodernità intesa nella sua accezione puramente cinematografica, ma piuttosto sul suo senso epistemologico tout court: dunque, filosofico, sociale, culturale, letterario, ecc. Film pynchoniano se mai ce n’è stato uno, Holy Motors frantuma l’identità del protagonista attraverso un prisma di specchi, di maschere, di camuffamenti. Un io liquido e mutante che, come l’identità di V. nell’omonimo romanzo, non possiamo sperare di comprendere: perché il mondo è (diventato) caos, perché la logica viene meno: a dominare è il pensiero debole. Un film essenzialmente decostruttivo, quindi, o per essere più precisi, decostruito, che mostra e si mostra nel suo continuo farsi e disfarsi.
Denis Lavant, l’attore-feticcio per eccellenza di Leos Carax, nei panni di Oscar viene condotto a bordo di una lussuosa limousine per le vie di Parigi da Céline, interpretata da Edith Scob, protagonista di Occhi senza volto [Les yeux sans visage, George Franju, 1960], film che, puntualmente, verrà omaggiato nel finale.

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Nel corso di Holy Motors, Oscar assume identità e connotazioni, cinematografiche e non, sempre diverse – di volta in volta protagonista di un musical, di un thriller, di un videogame, di un dramma grottesco, ecc. -, “accarezzando” continuamente la superficie delle cose: lui, che è la frantumazione jamesoniana del soggetto. Carax ridefinisce così, in una prospettiva essenzialmente contemporanea, l’intuizione hitchcockiana de La finestra sul cortile [Rear Window, 1954],  riversando (ed espandendo) orizzontalmente quella “casa dei generi cinematografici” che un paralizzato James Stewart osservava dalla propria abitazione. E abbattendo, a differenza di Hitchcock, quella linea di demarcazione che ci separava dallo schermo, permettendoci ora di interagire con esso, come in un videogame, grazie al ruolo vicario di Oscar.

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Holy Motors è un film a sé stante, sia per quanto concerne l’opera del cineasta francese, sia nei confronti della storia del cinema. È un film dopo il cinema, come poteva esserlo, con tutte le riserve del caso, INLAND EMPIRE – L’impero della mente [INLAND EMPIRE, 2006]: metatestuale e metadiscorsivo. Come David Lynch, infatti, anche Carax inserisce all’interno della sua opera un elemento estraneo, proveniente da un esperimento – i rabbits dell’omonima serie, presenti all’inizio di INLAND EMPIRE; monsieur Merde, dell’episodio contenuto in Tokyo! [id., 2008], riproposto nel film come una delle numerose maschere che Oscar deve indossare. Oscar vaga, dunque, non solo attraverso i generi cinematografici, ma attraverso testi e intertesti.

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Il regista Leos Carax si inserisce nel corpo del film e si dichiara in quanto autore del testo. O, per meglio dire, dei testi: perché Holy Motors è un film, come il suo protagonista, essenzialmente plurale. Bene, infatti, gli si applicano quelle terminologie di stampo baumaniano che segnano il passaggio dal moderno al postmoderno. In Holy Motors, come nel postmoderno, si passa dall’universalità al pluralismo istituzionalizzato; dall’omogeneità alla varietà; dalla monotonia alla contingenza; dalla chiarezza all’ambivalenza; dall’ordine al caso.1

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Holy Motors è, dunque, un film-corpo. Mutevole, come quello di Oscar/Lavant, ma pure di Carax stesso, come ci mostra l’incipit appena citato.

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Che si tratti di spettacolari coreografie in motion capture o di lunghe sessioni di trucco, come quelle a cui si sottopone il protagonista tra un appuntamento e l’altro, i corpi sono protagonisti di vere e proprie body performance. Holy Motors riprende quindi anche quel discorso essenzialmente fisico, di superfici, che il cinema sperimentale e postmoderno di Matthew Barney aveva affrontato con la celebre serie Cremaster. Silicone, vaselina, cera: tutti elementi essenzialmente materici che Carax accosta, in maniera tutt’altro che omogenea quando piuttosto per contrasto, ad elementi di computer grafica.

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Ma Holy Motors è anche un film che si confronta con lo spettatore in maniera unica, diretta, urgente. In uno dei dialoghi-chiave del film, ovvero quello tra Oscar e un personaggio non meglio identificato con una macchia sul volto, interpretato da Michel Piccoli, avviene infatti uno scambio di battute assolutamente illuminante, e che si rivela essere una delle possibili chiavi interpretative dell’opera:

«Ti piace ancora il tuo lavoro? Te lo chiedo perché alcuni di noi pensano che hai l’aria stanca ultimamente.»
«Alcuni non credono più in ciò che vedono.»

E ancora:

«Che cosa ti fa andare avanti, Oscar?»
«La stessa cosa che mi ha fatto iniziare: la bellezza dell’azione.»
«La bellezza? Si dice che è nell’occhio, nell’occhio di chi guarda.»
«E se non c’è più nessuno a guardare?»

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Come dichiara Carax stesso in un’intervista, Oscar è «una sorta di attore che nessuno guarda: un uomo come tutti noi».2 Non è forse, questa, una precisa presa di coscienza nei confronti di un’avvenuta mutazione nello sguardo dello spettatore? Una disillusione, una rottura definitiva della classicità del racconto, un’impossibilità comprovata di raccontare una storia, di effettuare un’azione, di identificarsi in un (solo) individuo? Holy Motors si presenta allora, probabilmente, come il più lucido trattato audiovisivo sulla filosofia del postmoderno. Ovviamente, evitando qualunque presa di posizione morale, etica, politica. Perché in Holy Motors l’unica “politica” affrontata è quella del racconto, e del suo inesorabile fallimento.

Ripetizioni, simulacri, tombe

Holy Motors è un film sul cinema, sul suo rapporto con gli altri mezzi di comunicazione, sulla sua concezione nell’era contemporanea. Carax accumula, come abbiamo visto, elementi eterogenei restituendo allo spettatore un universo straniato, schizofrenico, scisso inesorabilmente tra un passato mai morto e un futuro già stanco. Un universo – e questo è bene ribadirlo fin da subito – profondamente mortuario. Caso eclatante e significativo è rappresentato, probabilmente, da monsieur Merde e dall’episodio di cui è protagonista. Questo vorace clochard mangia, sì, ma i suoi pasti sono composti essenzialmente da elementi non-nutritivi: capelli, fiori, soldi – se si esclude il dito strappato a morsi da un’invasiva giornalista. Entra ed esce dalle fogne con fare escrementizio – e sappiamo che, in psicanalisi, la merda è un elemento che si riferisce principalmente alla morte. Nel suo rifugio sotterraneo, dopo l’assalto al cimitero (!), ha un’evidente erezione, eppure non si accoppia con la bella modella (interpretata da Eva Mendes) appena rapita. Non v’è dunque riproduzione, in Holy Motors. Un “istinto di morte” – per riutilizzare, in maniera un po’ apocrifa, la celebre formula freudiana – pervade l’intera pellicola. A dominare, come vedremo, è piuttosto la fredda ripetizione.3

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Poco più avanti, Oscar interpreta un uomo anziano, Vogan, sul letto di morte in una camera d’hotel.4 La nipote assiste l’uomo al trapasso. A sequenza quasi conclusa scopriamo che anch’essa è un’attrice intenta ad interpretare un ruolo. L’episodio ricorda da vicino un film precedente di un anno Holy Motors, ovvero Alps [Alpeis, 2011] di Yorgos Lanthimos, l’autore di punta del nuovo cinema greco. In Alps, un gruppo di attori deve interpretare i ruoli di donne e uomini deceduti che i famigliari vogliono ancora avere al loro fianco. Eppure, come scrive giustamente Michele Sardone, «quelli rappresentati sembrano più che altro topoi televisivi […], delle situazioni ideali, cristallizzate nell’eterno presente dell’immagine […]».5 Personaggi che replicano situazioni tipiche (topoi), già viste, già vissute, e che, così facendo, ne denunciano l’intrinseca, mortifera ritualità.

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Questa ripetizione (vuota) del gesto non può non ricondurre, metalinguisticamente, alla ripetizione del fotogramma della pellicola. Come scrive Matteo Marelli, è «soprattutto nel gioco riflettente/riflessivo [che si] esemplifica lo statuto simulcrale dell’immagine cinematografica, il suo essere replicante, prodotto di meccanica ripetizione.»6 “Fredda” ripetizione, quindi, piuttosto che una “riproduzione” vitalistica. D’altronde Holy Motors, più che proporre una positivistica spinta di evoluzione (nel linguaggio, ma non solo) suggerisca un movimento opposto, di involuzione. Ecco allora che, sotto questa prospettiva, si può riconsiderare l’ultimo enigmatico appuntamento di Oscar con la famiglia di scimmie come un ritorno alle origini (della specie; del senso).

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Nostalghia

Ri-vedere. La prima immagine di Holy Motors non appartiene strettamente al film. È altro. È la citazione testuale – ovvero, dentro al testo – de L’enfant nu, course, aller et retour [1892] di Étienne Jules Marey. Si parlava di “crisi dell’azione”, e la prima immagine di Holy Motors è, per così dire, pura azione: un ragazzo che corre, la macchina da presa che riprende questa corsa: esaltazione pura per uno spettacolo puro – e che diviene puro spettacolo. È, tradendo in parte l’accezione specifica deleuziana, il cinema-movimento, là dove Holy Motors è consapevole di non poterlo essere.

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Se ci facciamo caso, il film di Carax ha un ritmo lento, sonnambolico. Il montaggio non è frenetico, come sovente accade nel cinema della postmodernità. Spesso, le scelte di découpage sono quasi classiche, invisibili. O, forse sarebbe più corretto dire, non così evidenti. Come nota giustamente Alessandro Baratti, «rivedendo con attenzione Holy Motors si nota un’anomalia sintattica francamente impressionante: la presenza estensiva, deliberata e sistematica di false soggettive […]. Quasi completamente assenti nell’abitacolo della limousine (luogo cinematografico per eccellenza), le false soggettive tempestano ininterrottamente i vari appuntamenti di Oscar, togliendogli l’autorità della visione, rendendolo cinematograficamente incapace di fare presa sul mondo, passivizzando inesorabilmente il suo sguardo».7 Holy Motors, quindi, contrappone vistosi elementi profilmici a piccoli scarti filmici, non immediatamente individuabili.
Quando, invece, il film opta per una soluzione formale più esibita, questa si colloca sovente sotto una prospettiva prettamente nostalgica (e molto meno giustificata di quanto notava Baratti più sopra, in riferimento alle false soggettive presenti). Pensiamo ai jump-cut durante l’incontro tra Merde e la fotomodella. Oppure al mascherino nella sequenza del cimitero, espediente già utilizzato in senso nostalgico da François Truffaut e che Carax recupera in maniera ancor più anacronistica.

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In maniera analoga, i décalage sonori e l’uso di una musica extradiegetica ingiustificata e ridondante, sempre nella sequenza del cimitero, si rifanno direttamente alla Nouvelle vague francese (Jean-Luc Godard, Alain Resnais). E ancora: durante la sequenza del motion capture, alcuni movimenti di Oscar sono ripresi attraverso dei ralenti: una soluzione, questa, che ha il sapore retrò del cinema delle avanguardie oppure del realismo poetico francese.8

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Leggermente diverso, invece, il discorso riguardante il cosiddetto «intermezzo», un entr’acte di claireiana memoria costituito da un elaborato piano-sequenza che pare mutuato da certe estetiche da videoclip. Una soluzione, questa, prossima ai virtuosistici e inventivi video musicali di Michel Gondry, ma anche, per restare in ambito ancor più popolare, al famoso piano-sequenza del singolo pop Wannabe delle Spice Girls. Un’altra scelta di rottura nel corpus già di per sé irregolare del film, e che ne sottolinea la natura (anche) musicale.9 In fondo, in Holy Motors la musica e il cantato sostituiscono volentieri la funzione della parola e dei dialoghi. Non è un caso, allora, che più avanti, il film assuma le vesti di un musical, e che la canzone cantata da Kylie Minogue – benché inizialmente il ruolo fosse stato pensato per Juliette Binoche – si riveli uno dei momenti centrali del film. Il titolo è davvero programmatico, e sottolinea ancora una volta, la prospettiva nostalgica e teorica del film di Leos Carax: Who were we?

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Fine del senso

Oscar, nel corso del film, rimpiange continuamente, è stanco, affaticato, sconfitto. Ad un certo punto dichiara addirittura di provar nostalgia per le foreste. In questa selva artificiale che è il contemporaneo, di iper-visibilità, di «cinema disseminato, espanso e ovunque […] dove tutti siamo osservati e tutti guardiamo, dentro un cinema che si impossessa della realtà, che esiste come a priori del nostro stesso percepire»10, egli ammette tutta la propria stanchezza, la propria inadeguatezza. Di quella foresta – e di questo mondo – non è rimasta che un’immagine, magari posticcia come la bizzarra carta da parati che vediamo nell’incipit.

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Ma ciò che è maggiormente frustante, forse per Oscar e sicuramente per lo spettatore, è l’assenza di significato nei gesti (vuoti) compiuti. Per i suoi cosiddetti “appuntamenti” – con chi, poi? Che la «bellezza del gesto» ormai scomparsa sia il rimpianto di un mondo in cui il significante ha messo inesorabilmente in scacco il significato? «Baudrillard stabiliva quattro stadi attraverso cui era passata la rappresentazione sulla strada verso la simulazione non qualificata: un primo stadio in cui il segno “riflette” una realtà di base; un secondo stadio in cui il segno “maschera” o “distorce” la realtà; un terzo stadio in cui il segno maschera l’assenza della realtà; un quarto stadio in cui il segno diventa un semplice simulacro, una pura finzione che non ha nessuna relazione con la realtà.»11 Holy Motors sembra davvero prendere spunto da queste intuizioni baudrillardiane. Non è solo una nostalgia del cinema o dello sguardo, ma una nostalgia del senso.
Come scrive Eugenio Renzi su Filmidee.it, «quello che affligge il protagonista di Holy Motors è soprattutto l’assenza di uno sguardo».12 Ma Carax non si limita a questo. Il protagonista, piuttosto, è stanco di uno sguardo che considera passivo, esausto quanto lui. Pensiamo a quel pubblico in sala, assopito, con cui si apre il film. Carax stesso, sempre nell’incipit più volte citato, si risveglia dal torpore, nella sua stanza da letto nel retro del cinema. Una sorta di accidia scopica ha ormai contagiato tutti: non c’è modo di tornare indietro.

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Nell’altrettanto intenso finale, siamo nella rimessa notturna delle cosiddette «holy motors». Céline abbandona il salone. Le limousine si mettono a discorrere fra loro.

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Vale la pena, a questo punto, riportare per intero il dialogo sussurrato tra le macchine.

«Sono morto!»
«Il mio cliente ha girato Parigi in tutte le direzioni…»
«Pietra che rotola, non raccoglie muschio.»
«Ma io dico: muschio, chi se ne frega!»
«Perspicace come sempre, signorina 3423-ac-92!»
«È una metafora: pietra che rotola non accumula esperienze.»
«Siamo noi le pietre che rotolano…»
«C’è qualcuno che vorrebbe dormire, qui.»
«Avrai presto un sacco di tempo per dormire. Non ci vorrà molto prima che ci spediscano alla rottamazione.. stiamo diventando inadeguate.»
«Per cosa?»
«Silenzio!»
«Il vecchio 5700-bc-78 dice la verità. Gli uomini non vogliono più macchine visibili.»
«Sì, non vogliono più motori… niente più azione…»
«Amen

Brusii di sottofondo, dissolvenza, titoli di coda.

Jonathan Rosenbaum nota in questa sequenza13 quella che è, probabilmente, la citazione più “sotterranea” del film, in quanto fa riferimento ad un pezzo di storia del cinema che non fu mai girato, ovvero quel dialogo fra morti col quale sarebbe dovuto iniziare Viale del tramonto [Sunset Boulevard, 1950]il più celebre film sul cinema di tutta la Hollywood classica. Un riferimento davvero non casuale, vista l’ottica mortuaria che, come abbiamo precedentemente analizzato, Holy Motors vuole proporre. In fondo, queste lunghe macchine non rassomigliano un po’ a dei carri funebri che trasportano i loro morti viventi per Parigi? L’aggettivo holy, sacro, rafforza ulteriormente il parallelo.
Ma cosa rappresentano queste holy motors? Secondo Carax, sono essenzialmente “parole”. «Amo i motori, la parola Motore, la parola Azione, parole che non si possono più veramente dire al cinema perché non ci sono più motori nelle cineprese.»14 Ancora, ci troviamo a che fare con vuoti significanti che non hanno più un reale legame con il loro significato. È il regista stesso a suggerirlo. Siamo ormai dentro ad un universo di segni alla deriva. L’immagine dell’immagine ha preso, ormai, il sopravvento.

 

NOTE

1. cfr. P. Carravetta, Del postmoderno, Milano, Bombiani, 2009, pp. 248-249.

2. F. Lemercier, L’esperienza di essere vivi, http://www.cineuropa.org/ff.aspx?t=ffocusinterview&l=it&tid=2414&did=221689

3. Sempre sul tema della ripetizione, cfr. con l’analisi de Il cavallo di Torino presente sul sito.

4. Una curiosità: nell’episodio del cimitero si intravede una tomba, proprio di un tale Vogan, con la scritta “visitate il mio sito web”.

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5. M. Sardone, Yorgos Lanthimos, Il phantasma della realta, in L. Abiusi (a cura di), Il film in cui nuovo è una febbre. Registi fuori dagli sche(r)mi, Bari, Caratteri Mobili, 2012, p. 88.

6. M. Marelli, Holy Motors: Giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco, http://www.uzak.it/lo-stato-delle-cose/417-holy-motors-giriamo-in-tondo-nella-notte-e-siamo-consumati-dal-fuoco.html

7. A. Baratti, Holy Motors, http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4789

8. Si pensi all’uso che ne fece Jean Vigo, ad esempio in un film come Zero in condotta [Zéro de conduite, 1933.]

9. In fondo, un substrato musical è da sempre un elemento determinante nel cinema caraxiano. Come scrive Giulio Sangiorgio su FilmIdee.it, il suo è un cinema che si pone tra «la grazia e l’epilessia» [cfr. http://www.filmidee.it/article/291/article.aspx ], in cui i corpi (il corpo di Levant in primis) reagiscono agli stimoli contorcendosi, ballando: si pensi all’intermezzo ballato di Rosso sangue [Mauvais sang, 1986] oppure alla famosa sequenza dei fuochi d’artificio in Gli amanti di Pont-Neuf [Les Amants du Pont-Neuf, 1991]. O, ancora, al concerto industrial in Pola X [id., 1999], diretto, per altro, da Sharunas Bartas.

10. F. Marineo, Il cinema del terzo millennio: Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Torino, Einaudi, 2014, pp. 206-207.

11. R. Stam, Teorie del film – Vol. 2, Dino Audino Editore, Roma, 2005, p. 288.

12. E. Renzi, Nessun dorma, http://www.filmidee.it/archive/33/article/288/article.aspx

13. J. Rosenbaum, A Note on Holy Motors, http://www.jonathanrosenbaum.net/2012/10/32287/

14. Intervista citata.