Film hollywoodiano che naufraga, nelle sequenze finali, in un allucinato espressionismo visivo, Doppio gioco [Criss Cross, 1949] di Robert Siodmak rimane un’opera di difficile collocazione. Il film, superficialmente, potrebbe essere scambiato per un’appendice in minore del seminale I gangsters [The Killers, 1946], girato tre anni prima: Burt Lancaster è ancora protagonista, mentre la vicenda è ridotta e semplificata, così come la struttura narrativa, più tradizionale, che si regge su un unico flashback centrale – per quella de I gangsters erano stati istituiti addirittura paragoni con il capolavoro modernista Quarto potere [Citizen Kane, 1944] di Orson Welles. Il dialogo instaurato da Doppio gioco con I gangsters, però, non si riduce esclusivamente alla differente configurazione narrativa dei due film. Realizzato, nota Hervé Dumont nell’indispensabile Robert Siodmak: Le maître du film noir1, in completa libertà dall’autore de Lo specchio scuro [The Dark Mirror, 1947], che ha avuto la possibilità di scegliere i propri collaboratori (il direttore della fotografia Franz F. Planer e il compositore Miklos Rozsa) e di ritoccare, assieme al romanziere Daniel Fuchs, la sceneggiatura originale di Mark Hellinger (suo produttore per I gangsters, deceduto prima delle riprese di Criss Cross, la cui idea era realizzare un altro heist film sulla falsariga del film del 1946), Doppio gioco rappresenta una vera e propria summa del cinema noir siodmakiano2.
Fin dal suo approdo a Hollywood, Siodmak è stato un regista che ha fatto dell’ibridazione dei generi uno degli elementi cardinali della propria poetica. La sua filmografia, che spazia dal noir al femminile del seminale La donna fantasma [Phantom Lady, 1944] a un film con elementi gotici come La scala a chiocciola [The Spiral Staircase, 1946], «non contempla quasi mai la purezza di uno schema, semmai la sua ibridazione inesausta.»3.
Doppio gioco non sfugge a questa logica dell’ibridazione, che in fondo rappresenta una caratteristica principale del cinema noir (cfr. Paul Schrader4 e Marc Vernet 5). In effetti, Doppio gioco non dimentica nessuna delle figure chiave del cinema noir classico – la femme fatale, il protagonista loser, il peso di un passato impossibile da cancellare, la narrazione in prima persona con flashback, una rapina da organizzare, ecc. –, ma allo stesso tempo attua una vera e propria ridefinizione di questi topoi, abbracciando l’ottica struggente del mélo: al contrario de I gangsters, heist film modernista il cui soggetto era frammentato dalla molteplicità dei punti di vista, l’ossessione amorosa di Steve (Lancaster) per l’ex moglie Anna (Yvonne De Carlo) rappresenta il nucleo tragico e il leitmotiv di Doppio gioco, a partire dalle primissime inquadrature, caratterizzate da un’atmosfera da temps perdu tipica di molto noir dell’epoca6 .
Doppio gioco racconta con un lungo flashback a focalizzazione interna (le vicende sono accompagnate dal commento in voice-over del protagonista) la storia di Steve Thompson, che ritorna a Los Angeles dopo il divorzio con Anna, della quale è ancora perdutamente innamorato. Giunto al locale dove erano soliti passare le loro serate, l’uomo ritrova la donna. La loro storia d’amore sembra poter ricominciare, ma una sera Anna scompare e Steve apprende che la donna è partita con un gangster locale, Slim Dundee, con il quale si è sposata. Passano i mesi, e Steve reincontra per caso Anna in una stazione; la donna svela all’uomo di essere infelice con Dundee. Anna e Steve ricominciano a frequentarsi, fino a quando il gangster non scopre la tresca: Steve, allora, propone a Dundee di organizzare una rapina, con l’intenzione segreta di impossessarsi dei soldi e scappare con Anna.
Ispirato al romanzo Criss Cross datato 1934 di Don Tracy (sul quale prima Hellinger, poi Fuchs e Siodmak hanno operato alcuni cambiamenti sostanziali, tra cui l’ambientazione, Los Angeles anziché la Baltimora del libro7), il film si apre con una spettacolare ripresa aerea della città di L.A., di notte: la macchina da presa scende rapidamente, e con uno stacco in dissolvenza inquadra i due protagonisti di Doppio gioco, Steve e Anna, nascosti fra le macchine del parcheggio del club “Round-Up”, mentre si stanno baciando.
Paragonato all’opening – sempre in medias res – de I gangsters, che presentava il protagonista, interpretato da un esordiente Burt Lancaster, dopo una decina di minuti, la sequenza di apertura di Doppio gioco chiarisce subito la differenza tematica (e, vedremo, stilistica) tra i due film. Quest’incipit, nota con grande acutezza il critico Vieri Razzini8, introduce una serie di motivi centrali di Doppio gioco, in primis il rapporto d’amore asimmetrico tra Steve e Anna. L’intenzione di Siodmak infatti è quella di concentrare la quasi totalità della trama del film sulla relazione contrastata tra i due amanti, cercando di ridurre al minimo gli altri elementi – un aspetto enfatizzato anche dal movimento della ripresa aerea che apre Doppio gioco, dal totale al dettaglio, «da una prospettiva onniscente al particolare»9, movimento che incornicia l’establishing shot della città nell’abbraccio clandestino dei due amanti. Rispetto a I gangsters, infatti, «Doppio gioco sostituisce vantaggiosamente alla complessità narrativa una dolorosa complessità delle psicologie»10, con il risultato che Siodmak approfondisce ulteriormente le possibilità della macchina filmica hollywoodiana di scandagliare la soggettività dei protagonisti, evidenziando come «la realtà sia già lo specchio scuro di se stessa»11.
Fra gli strumenti linguistici utilizzati dal regista, uno dei più importanti è senza dubbio il montaggio. La sequenza d’apertura di Doppio gioco risulta fondamentale proprio perché presenta immediatamente uno degli elementi principali del film: la tecnica del campo-controcampo. Come tutto il cinema siodmakiano, Doppio gioco è anzitutto un film di immagini (femminili) incantatrici e sguardi (maschili) soggiogati, e dunque un film dove il campo-controcampo ha un ruolo essenziale e il cui utilizzo, vedremo, segna i momenti più significativi della narrazione.
Nell’incipit di Doppio gioco, Anna giura a Steve che saranno felici. La sequenza, nota Joseph Greco nel fondamentale The File on Robert Siodmak in Hollywood: 1941-1951, si risolve in un campo-controcampo asimmetrico: Steve è ripreso di tre quarti, con lo sguardo svuotato, fuoricampo, mentre Anna è inquadrata con un primo piano frontale – una soggettiva di Steve –, che ne esalta la sensualità incantatrice e soggiogante.
Questa tipologia di campo-controcampo, dove una delle inquadrature è il piano frontale – una soggettiva – della femme fatale e l’altra un’inquadratura “oggettiva” del protagonista maschile, è tipica del noir: la si ritrova, ad esempio, nell’incipit de La signora di Shanghai [The Lady from Shanghai, Orson Welles, 1947].
Come nota Razzini, la sequenza è significativa perché Siodmak «fa intuire qualcosa sulla diversa intensità amorosa dei due con un uso veramente spericolato dei primi piani alternati. Quelli di Steve ripreso di tre quarti con lo sguardo fuoricampo ce lo mostrano dall’esterno, in oggettiva. Quelli di Anna, pienamente frontali, lo sguardo in macchina, sono soggettive di Steve: l’immagine della donna che lo invade e lo domina [corsivo del redattore]»12. Scrive Greco: «ciò che Siodmak vuole comunicare qui non è soltanto un senso di pericolo e fatalità, ma il potenziale distruttivo di Anna.»13
In effetti, tutto il cinema di Siodmak si fonda su immagini di donne che invadono e dominano lo sguardo dello spettatore e dei protagonisti, con conseguenze il più delle volte distruttive14.
Ne La donna fantasma, uno dei capolavori del regista, la protagonista è una segretaria, Carol (Ella Raines), che deve salvare il proprio datore di lavoro, Scott Henderson (Alan Curtis), ingiustamente accusato dell’omicidio della moglie. Per farlo, la donna dovrà immergersi letteralmente nella notte, mettendo in pericolo se stessa. In uno degli episodi chiave del film, Carol cerca di sedurre un batterista, Cliff, che figura tra i testimoni e che potrebbe essere stato corrotto per incastrare Scott. La sequenza, arrivata alla fine di una serie di momenti caratterizzati da una progressiva «stilizzazione»15, allenta definitivamente le maglie del realismo, esplicitando il legame che avvicina il cinema di Siodmak alle correnti espressioniste.
Lo sguardo maschile, le inquadrature oblique e in contre-plongée, l’immagine allo specchio: la sequenza della jam-session di La donna fantasma è pienamente espressionista.
Strutturata, come l’incipit di Doppio gioco, attraverso un campo-controcampo asimmetrico, la sequenza sopracitata si costruisce analogamente sull’immagine di una donna che invade e domina lo sguardo dell’uomo, «usurpandone le tradizionali prerogative»16, in un contesto che, per il taglio delle inquadrature, il ritmo della musica e la gestualità esagerata degli attori, trasmette «una frenesia orgiastica ed espressionistica.»17.
A fronte di un simile utilizzo della tecnica del campo-controcampo, Doppio gioco non sconfina mai, come nella sequenza sopracitata de La donna fantasma, nell’allucinazione. Proseguendo nel solco dei precedenti I gangsters e L’urlo della città [Cry of the City, 1948], Doppio gioco si configura piuttosto come il film che segna la definitiva «americanizzazione»18 di Siodmak. Questo non vuol dire, ovviamente, che il regista abdichi all’ambiguità che caratterizza la scrittura filmica dei suoi noir precedenti; al contrario, come nota Alberto Libera nella sua analisi de I gangsters pubblicata in queste pagine, è proprio «quest’alternanza di informazioni oggettive e soggettive» a consentire ai film di Siodmak di «colorarsi di un’ambiguità maggiormente pervasiva» .
Prendiamo ad esempio di questa ambiguità – che sfocia, nel film di Siodmak, in quello che lo studioso Carlo Clarens ha chiamato «subjective realism» – la sequenza di Doppio gioco che mette in scena l’incontro a metà film tra Steve e Anna nel club “Round-up”, e paragoniamola a quella, perfettamente simmetrica, della jam-session notturna de La donna fantasma. Il confronto tra queste due sequenze mostrerà un cineasta che senza forzare la mise-en-scène è riuscito ad enfatizzare e rendere ricchi di un senso ulteriore quei momenti in cui il realismo della macchina hollywoodiana sembra allentare i propri vincoli.
La sequenza dell’incontro tra Anna e Steve nel club “Round-Up”, dopo che quest’ultimo ha appena fatto ritorno a Los Angeles a seguito del divorzio, è introdotta da una scena significativa che sottolinea la maestria di Siodmak e del suo sceneggiatore Fuchs nel creare una tensione psicologica senza forzare espressionisticamente la messinscena o la fotografia, ma affidandosi esclusivamente al montaggio. L’uomo è a casa dei genitori. Alla cena sono presenti, oltre ai coniugi, il fratello di Steve e la sua fidanzata. Al termine della cena, i due fidanzatini si baciano, spiati da Steve che, disteso sul divano, assiste alla scena.
La tecnica del campo-controcampo è la più utilizzata da Siodmak in Doppio gioco: essendo il film a focalizzazione interna, spesso una delle due immagini è una soggettiva di Steve.
Fuori campo, la voce dell’uomo rievoca la storia d’amore con Anna, il cui ricordo è ovviamente reso vivo dall’idillio amoroso a cui sta assistendo. La scena che segue però non mette in scena il ricordo di Steve, come la voce fuoricampo lascerebbe supporre, bensì, con un’ellisse narrativa dai caratteri “psicoanalitici”, mostra il ritorno dell’uomo nel locale dove era solito passare la serata con Anna.
Il fatto che Steve ritrovi subito la donna amata, e che la sequenza sia inserita nella diegesi subito dopo l’idillio amoroso tra i due giovani spiati dall’uomo, è la conferma di come il processo di americanizzazione della scrittura filmica del regista non indebolisca in nessun modo quelle ambiguità testuali che rappresentano un aspetto peculiare del cinema di Siodmak. L’unica differenza è che, al contrario di un film come La donna fantasma, racconto in terza persona che scivola “espressionisticamente” in una dimensione onirica, quel che vi è di allucinatorio in Doppio gioco viene perfettamente giustificato dal fatto che il film adotta apertamente il punto di vista soggettivo di Steve. Per questo, ha ragione Clarens a parlare di realismo soggettivo e non di espressionismo. In questo senso, anche la scelta di organizzare la narrazione attraverso un lungo flashback centrale risulta essenziale, attivando una serie di convenzioni narrative che, nota Jacqueline Nacache in Il cinema classico hollywoodiano, favoriscono la sospensione dell’incredulità dello spettatore e, allo stesso tempo, consentono al regista di rappresentare senza forzature le «immagini mentali» del protagonista (sotto questo aspetto, nota sempre Nacache, «il viaggio nel passato è molto vicino al cinema del viaggio onirico»19).
Infatti, in Doppio gioco Siodmak non ha bisogno di forzare espressionisticamente i valori della messinscena, come invece succedeva nella jam-session de La donna fantasma: grazie all’espediente narrativo del flashback e all’utilizzo della soggettiva e della tecnica del campo-controcampo, la sequenza dell’incontro tra Steve e Anna al club si costruisce automaticamente su un’atmosfera di incantamento allucinatorio: la donna, come un’odalisca, è impegnata in una danza sensuale, ed ipnotizza lo sguardo stupefatto dell’innamorato Steve.
Rispetto alla sequenza analoga de La donna fantasma, dunque, in quella di Doppio gioco cambiano gli strumenti stilistici adottati – non è peregrino affermare che questo sia un risultato dell’americanizzazione di cui sopra – ma non il senso dell’intera scena. Se il découpage della sequenza è ancora una volta strutturato da un montaggio serrato di tipo campo-controcampo, che traduce alla perfezione il rapporto di subordinazione del protagonista nei confronti della donna amata, in Doppio gioco, al posto delle inquadrature oblique e dei prepotenti chiaroscuri che caratterizzavano La donna fantasma vi sono sensuali primi piani che calano lo spettatore nel punto di vista di Steve, realizzando «un’eccezionale soggettiva composita»20: come notano giustamente Alain Silver e James Ursini, «Anna appare improvvisamente, quasi materializzata dal […] sogno ad occhi aperti [di Steve]»21; eppure la dimensione onirica della scena rimane implicita.
Nella colonna di sinistra: Doppio gioco. Nella colonna di destra: La donna fantasma. Fin dai giochi luministici e dall’angolazione delle inquadrature, appare chiara l’ispirazione espressionista alla base del film del 1944.
È la differenza principale con la sequenza marcatamente espressionista de La donna fantasma: la danza della donna sprigiona una carica sensuale concreta. Non è un caso allora che il regista si preoccupi di esplicitare i sottotesti sessuali – aspetti concreti della vita di coppia dei due protagonisti – nella sequenza immediatamente successiva, quando, terminato il ballo, Anna vede Steve e lo invita a sedersi al suo tavolo. Di nuovo, l’ambiguità della sequenza non viene veicolata attraverso espedienti espressionistici quali fotografia contrastata, recitazione esagerata o sonoro allucinato, ma dal découpage – un campo-controcampo serrato.
Anna e Steve ricordano, sorridendo, i loro litigi: «I guess you can’t fight with anyone unless you really like ‘em. Wouldn’t be much fun, would it?», dice l’uomo. «Then we’d make up… Those were times, weren’t they, Steve? That was the best part, I think. The making up part.» Siodmak, con un campo-controcampo serrato, carica di tensione questa frase apparentemente innocente di Anna, facendo così esplodere la carica sessuale che la danza aveva contribuito ad innescare.
L’americanizzazione di Siodmak di cui parla Dumont fa dunque sì che quel che vi era di fantasmatico nei suoi noir precedenti in Doppio gioco venga rielaborato in una forma decisamente più ambigua e sfumata, che di fatto rappresenta il risultato principale di quel “realismo soggettivo” di cui parla Clarens. Rispetto a La donna fantasma, infatti, «l’approccio alla storia sembra più concreto, più fisicamente immediato»22 – in altre parole è più realistico – , eppure Siodmak non rinuncia a quelle che sono le tematiche cardinali del proprio universo filmico, riguardanti la soggettività dei suoi protagonisti. Da questo punto di vista, Doppio gioco rappresenta il naturale prosieguo di film come La donna fantasma, Lo specchio scuro e La scala a chiocciola.
Prendiamo nuovamente il noir realizzato nel 1944. Il film, come nota Leonardo Gandini, citato da Nicolò Vigna nel suo articolo per Lo Specchio Scuro23, è come diviso in due parti: dalla scoperta della morte della moglie del protagonista, «la messa in scena sarà improntata a un’estrema stilizzazione: […] a essere prevalenti saranno gli ambienti male illuminati […] nonché subentrerà un ricorso insistito a riprese scentrate, che inquadrano i personaggi in diagonale, dal basso verso l’alto, sempre a partire da angolazioni prive di equilibrio e prospettiva»24. In Doppio gioco, succede qualcosa di simile, ma ogni eccesso stilistico è perfettamente subordinato alle svolte della narrazione. La prima parte del film, ad esempio, è girata alla luce del sole, con modalità che non appartengono a uno stile tipicamente noir25: impossibile, infatti, ritrovare i chiaroscuri della fotografia de La donna fantasma.
Sopra: un fotogramma de La donna fantasma: Hervé Dumont lo definisce, con una formula azzeccata, un «film de la nuit»26.
A proposito della mise-en-scène realistica di Doppio gioco, può essere utile riportare quanto scrive Greco sulla fotografia del film: «Dobbiamo notare che Siodmak ha girato le riprese degli esterni a Los Angeles, al culmine del pomeriggio in modo che questi sarebbero stati inondati di luce […]. Lui e il direttore della fotografia Franz Planer hanno usato la luce naturale per creare forti contrasti con gli interni innaturalmente illuminati, in particolare con il mondo sotterraneo del club “Round-Up”. In realtà, l’utilizzo della profondità di campo da parte di Planer investe i quartieri poveri di Los Angeles con una sorta di purificante traslucenza, come, per esempio, nell’esterno della pensione fatiscente nei pressi della funicolare, l'”Angel’s Flight”, oppure nell’esterno della stazione. Planer ha spiegato che lui e Siodmak hanno dato al film “un realismo ulteriore attraverso la fotografia”: “Abbiamo girato ogni scena con l’obiettivo da 30 mm per portare una tagliente profondità di campo in tutta l’immagine”»27.
Il contrasto tra la luce naturale degli esterni, dove è apprezzabile l’utilizzo della profondità di campo da parte di Siodmak, e l’illuminazione del club “Round-Up” mette «in risalto l’insoddisfazione di Thompson per il tetro ambiente in cui vive»28.
Nella parte finale, invece, Doppio gioco naufraga in un allucinato espressionismo visivo, che lo ricollega ai noir precedenti del regista, in particolare a I gangsters (in effetti i due film, nota Libera, condividono una simile trattazione del tempo narrativo presente, colorato di maggiori sfumature oniriche rispetto al passato). Secondo Alain Silver e James Ursini, la stilizzazione di questi momenti realizzerebbe addirittura «una variante da incubo delle aspettative sessuali della sequenza iniziale»29, concretizzando nel testo del film l’emergere prepotente della soggettività del protagonista, che vede il proprio sogno d’amore sfuggirgli.
Per questo, nell’ultima mezz’ora, dalla sequenza fantasmatica della rapina («immersa tra fumi che la rendono quasi irreale»30 ) fino al finale, Doppio gioco moltiplica le soggettive, le ombre e le immagini di specchi, forzando “espressionisticamente” la messinscena: è l’inizio di un incubo che prefigura la fine dell’amore di Steve.
Il realismo del film si colora progressivamente di forti connotati soggettivi.
Nell’ultima sequenza di Doppio gioco, Steve lascia l’ospedale dove è stato ricoverato dopo la rapina e raggiunge Anna nella casa dove la donna si era nascosta con i soldi del colpo. Steve, però, è stato portato da uno degli scagnozzi di Slim Dundee, che probabilmente referirà al capo la locazione dei due amanti. Anna allora si prepara alla fuga: Steve è ferito e la donna è disposta a lasciare l’uomo da solo, a morire, pur di salvare la propria vita.
Steve prende coscienza della vera natura della donna non appena questa non può più esercitare il proprio potere incantatorio: significativamente, Siodmak realizza una soggettiva dell’immagine di Anna mentre questa è nascosta da un tendaggio, quando la donna confessa all’uomo l’intenzione di lasciarlo.
Alla fine, dunque, un altro campo-controcampo asimmetrico, complementare di quello con cui si è aperto Doppio gioco, segna la struttura del film, stavolta però rompendo l’incantesimo. A questo punto, il film non può che finire: prima, però, Siodmak concederà a Steve di abbracciare per un’ultima volta l’amata Anna, in un’inquadratura apparentemente oggettiva, che però realizza, sublimandolo nella tragedia, il desiderio dell’uomo.
L’ultima sequenza di Doppio gioco rilegge pertanto le scene iniziali del film instaurando un dialogo con quell’espressionismo che era parte integrante delle opere precedenti di Siodmak, adattandolo nella prospettiva di quel realismo soggettivo che, con ogni probabilità, rappresenta la meta ultima del noir siodmakiano.
NOTE
1. Hervé Dumont, Robert Siodmak: Le maître du film noir, Lausanne, L’Age d’Homme, 1981.
2. cfr. gli articoli di Nicolò Vigna e Alberto Libera pubblicati sul sito.
3. Massimo Sebastiano, Mario Sesti, Delitto per delitto, 500 film polizieschi, Torino, Lindau, 1998.
4. Paul Schrader, Note sul film noir, in Paul Duncan, Jürgen Müller (a cura di), Film Noir: 100 All-Time Favorites, Modena, Taschen, 2014, p. 8.
5. «The classical list of criteria defining film noir is totally heterogeneous and without any foundation but a rhetorical one». Marc Vernet, Film Noir on The Edge of Doom, in Joan Copjec (a cura di), Shades of Noir, New York, Verso, 1993, p. 2.
6. Paul Schrader, op. cit., p. 14.
7. Brian Greene, http://www.criminalelement.com/blogs/2014/10/lost-classics-of-noir-criss-cross-by-don-tracy-brian-greene.
8. Vieri Razzini, Extra DVD Doppio gioco (Collana: Il piacere del cinema).
9. Alain Silver, James Ursini, Il caper film, in Paul Duncan (a cura di), Il Noir, Modena, Taschen, 2004, p. 68.
10. «Comparé à The Killers, Criss Cross remplace avantageusement la complexité narrative par une douloureuse complexité des caractères. Ici, Siodmak maintient une homogeneité thématique qui decuple l’impact désenchanté et fioncièrement pessimiste». Hervé Dumont, op. cit., p. 226.
11. Alberto Libera, https://specchioscuro.it/i-gangsters/.
12. Vieri Razzini, Extra DVD Doppio gioco (Collana: Il piacere del cinema).
13. «What Siodmak wanted to estabilish here was not only a sense of danger and immanent doom, but Anna’s destructive potential». Joseph Greco, The File on Robert Siodmak in Hollywood: 1941-1951, USA, Dissertation.com, 1999, p. 119.
14. cfr. l’articolo di Nicolò Vigna su La donna fantasma, in particolare il paragrafo sulla figura del ritratto.
15. Leonardo Gandini, Il film noir americano, Torino, Lindau, 2008, p. 92.
16. Tony Williams, Phantom Lady, Cornell Woolrich, and the Masochistic Aesthetic, in Alain Silver, James Ursini (a cura di), Film Noir Reader, New York, Limelight Editions, 1996, p. 138.
17. «Distorted camera angles and rhythmic quick cuts from Kansas to Cliffs masturbatory drum solo and his leering companions build to an orgastic expressionist frenzy». David Reid, Jayne L. Walker, Strange Pursuit: Cornell Woolrich and the Abandoned City of the Forties, in Joan Copjec (a cura di), Shades of Noir, cit., p. 82.
18. Hervé Dumont, op. cit., p. 226.
19. Jacqueline Nacache, Il cinema classico hollywoodiano (1995), Le Mani, Genovam 1997, p. 88.
20. Alain Silver, James Ursini, Il caper film, in Paul Duncan (a cura di), op. cit., p. 68.
21. Ibidem.
22. «L’approche du déroulement semble plus concrète, plus physiquement immédiate». Hervé Dumont, op. cit., p. 226.
23. Nicolò Vigna, https://specchioscuro.it/la-donna-fantasma/.
24. Leonardo Gandini, op. cit., p. 91.
25. Alain Silver, James Ursini, Il caper film, in Paul Duncan (a cura di), op. cit., p. 72.
26. Hervé Dumont, op. cit., p. 156.
27. «We should note that Siodmak shot all of the exteriors on loction in Los Angeles at the height of the afternoon so they would be awash in light […]. He and cinematographer Franz Planer used natural light to create striking contrasts with unnaturally lit interiors, most notably the cavernous underworld of the Round-Up Bar. In fact, Planer’s deep-focus location photography veneers the low-rent district of Los Angeles with a kind of purifying translucence, for instance, the exterior of a ramshackle boarding house near the funicular railway, Angel’s Flight, and notably as well the exterior of Union Station. Planer explained that he and Siodmak gave the film”added realism through photography”: “We filmed every scene with the 30mm lens to carry a wire sharp depth of focus throughout the frame”». Joseph Greco, op. cit., p. 122.
28. Alain Silver, James Ursini, Il caper film, in Paul Duncan (a cura di), op. cit., p. 72.
29. Ibidem.
30. Renato Venturelli, L’età del noir: Ombre, incubi e delitti nel cinema americano, 1940-60, Torino, Einaudi, 2007, p. 309.