What Remains of Edith Finch (Giant Sparrow, 2017) è un videogioco d’avventura in prima persona pubblicato dalla Annapurna Pictures. Quanto propone, passando attraverso le specificità di un testo sincretico come quello videoludico, è particolarmente significativo se esaminato dal punto di vista della riflessione immaginale: il titolo arriva a iscriversi direttamente in un dibattito che si chiude tutto sul dominio del visuale servendosi del carattere di individualità esperienziale garantito dall’approccio interattivo. Come risultato ottiene l’evidenza di una disgregazione della visione e dei suoi statuti, affascinante da rintracciare nelle sue articolazioni e rimodellazioni fino al punto in cui non ci si accorge ch’essa non solo parla di fantasmi (e di immagini di fantasmi), ma scaturisce in sé da un’esperienza fantasma. Nel vedere come, non possiamo che passare in rassegna una buona parte delle sue sfumature e caratteristiche.
Innanzitutto What Remains of Edith Finch è ossessionato dall’idea della morte quanto lo sono le sagome che lo popolano: è il viaggio all’interno di una spazialità morta, che non vive né viene vissuta, e di una spazialità-della-morte, che segue e perseguita le immagini di chi l’ha abitata e adesso non c’è più. La riflessione sulle modalità tramite cui l’ingresso in questi mondi1 si trasforma in un vero e proprio sprofondamento nella loro annichilazione e nel suo divenire si fa motivo di una nuova scoperta, di una rielaborazione fondamentale.
Cosa accade alla tanto discussa “morte delle immagini”2 quando esse da piatte si fanno pervasive3, quando da osservabili si rendono “agibili” – quando dal paradigma di osservazione/interpretazione si passa al processo interattivo/manipolativo?4
Edith Finch torna alla dimora di famiglia dopo sette anni e a seguito della scomparsa della madre, la quale le ha lasciato una chiave misteriosa e l’invito a recarsi proprio nella vecchia casa, si presuppone per “scoprire la verità sulla maledizione che perseguita i Finch da generazioni”.

Il gioco vede l’utente calarsi nei panni della ragazza e attraversare le numerose stanze della gigantesca abitazione alla ricerca di indizi utili, ripercorrendo le vicende dei vari parenti deceduti: tutto il sistema di possibilità fornite al giocatore si basa sugli elementi evocativo-narrativi5 che gli vengono dati, tesi a formulare una specie di romanzo interattivo – durante l’esplorazione ci si trova a veder comparire in sovrimpressione allo spazio rappresentato6 del mondo virtuale delle linee di testo che rievocano i pensieri della protagonista, della quale si rivivono i gesti come se li si leggessero in tempo reale da un diario personale (del quale parleremo in seguito). Non stupisce quindi se le modalità di questo gioco lo avvicinano a essere un’esperienza di spazialità pura, in cui i pretesti di sfida più prettamente “ludici” si limitano al completamento progressivo dell’albero genealogico di Edith, aggiornato man mano che si viene a conoscenza delle vicende dei familiari deceduti reperibili (ed “esperienziabili”) nel corso dell’avventura.7 L’analisi della spazialità del titolo è allora un momento imprescindibile in una sua discussione, destinato ad addentrarci nel vivo delle criticità riflessive e teoriche di questo racconto e delle immagini di cui parla.

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L’abitazione dei Finch, ambiente che fa da fulcro alla narrazione del gioco.

L’abitazione dei Finch è il nucleo da cui l’esperienza inizia a frammentarsi, il fulcro centrale da cui partono le contraddittorie e irriconoscibili mappe secondarie del gioco (Eugeni ha parlato a questo proposito dell’inesistenza di una “mappa ultima” per i mondi virtuali).8
Le sue caratteristiche sono da subito motivo di numerosi spunti di riflessione: per iniziare, essa si erge in vista della “vecchia casa” che l’ha preceduta, sommersa dalle acque e ridotta a un rudere che si può intravedere tra le onde quando le condizioni atmosferiche lo consentono.

Il giocatore osserva questo ambiente abbandonato e morto col cannocchiale posto sulla sommità del cimitero di famiglia, scoprendo proprio in questa fase la centralità del passato nell’immaginario dei Finch.9 La “maledizione” che grava sulle spalle della protagonista è proprio l’impossibilità di liberarsi di un passato opprimente, persistente, la quale accomuna da sempre i suoi parenti. L’ossessione per la morte, che in ultima istanza sembra invitarla ad abbattersi ancora e ancora sugli sventurati familiari, deriva dall’incapacità di elaborare e vivere la sua immagine, presenza/assenza (per usare le parole di Hans Belting)10 che però resta bene in vista all’orizzonte.

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“Edie diceva di sognare la vecchia casa ogni notte” Scrive Edith sul suo diario mentre vede quel che resta degli sforzi del trisavolo norvegese. Il passato e il suo farsi-immagine, tra le onde, sono i segni di una tragica ossessione destinata a fare il suo ingresso anche nella nuova dimora dei Finch.

Di primaria importanza a tal proposito è la sezione che fa vivere un ricordo della bisnonna di Edith. A causa di “un terremoto nel bel mezzo dell’oceano” i resti della vecchia casa sono nuovamente accessibili al centro di una secca maleodorante e nebbiosa e la donna vi si avvicina, trovando lungo il percorso gli oggetti del suo passato ora emersi sul fondale umido. Assieme a lei, l’utente si smarrisce tra gli spettri di un mondo e di uno spazio perduti per sempre, giungendo infine al cospetto della villetta: qui, da una finestra si accende una luce – segno che qualcosa vive ancora, se non realmente per lo meno a livello metaforico o simbolico. L’impossibilità di accedere allo spazio proibito dell’immagine viene infranta: la donna scopre che qualcosa all’interno di quel simulacro pulsa e si accende, la invita a entrare. Non è chiaro se riesca a fare il suo ingresso o meno nella casa (il suo ricordo s’interrompe bruscamente), d’altronde la sua allibita incapacità di spiegarsi quanto vede e vive è sufficiente a tratteggiare la sua eterna distanza dal dominio in cui, più o meno consapevole, si addentra quasi per caso grazie al maremoto.

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Edie Finch si addentra nella nebbia e si avvicina alla casa nella quale ha trascorso l’infanzia. Durante il percorso, però, perde la via e si smarrisce tra gli oggetti (reali o immaginari) del suo passato. Quando finalmente raggiunge il suo obbiettivo, vede che una luce si accende al di là di una finestra. L’impossibile vivificazione del passato, che si genera qui all’interno del ricordo, si carica di mistero proprio a partire da una confusione che agisce sulla spazialità: lo smarrimento del giocatore fa aderire lo spazio di gioco alla sua significazione – quel che si vive in questa sezione è un processo mentale e immaginale prima che un semplice evento.

La vecchia abitazione dei Finch è un trascorso che si cristallizza, un’icona che il presente (con tutti i suoi abitanti) è costretto a scorgere di lontano per sempre, un memoriale. L’incontro con questo spazio è vietato – può accadere solo nel sogno, nella nebbia,11 nel dominio in cui i segreti sembrano affiorare nel reale e rimangono però vincolati alla confusione dei ricordi.
Al cospetto dei ruderi ecco la nuova dimora (anch’essa abbandonata), ampliata più volte per consentire ai vari membri della famiglia di abitare sotto lo stesso tetto, che si presenta in tutta la sua discontinuità estetica: è una commistione tra universi (personali) differenti e contrastanti che coabitano, al di là delle stanze private, in un marasma sbalorditivo di oggetti e tracce di vita.

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La casa dei Finch è terreno di un’infinità di coabitazioni: il suo marasma, la molteplicità dei suoi toni di colore o degli stili dei suoi arredamenti e l’infinità degli oggetti reperibili al suo interno sono il frutto di un gran numero sovrapposto e confuso di tracce di vite differenti.

Preliminarmente è opportuno specificarne la consapevole virtualità: è questo un ambiente fatto di soglie e di collegamenti-tra-soglie, che viene sondato nel momento in cui lo si attraversa (e nel gameplay l’attraversamento coincide con l’abitazione) – che, pertanto, è colto in un divenire continuo a partire dagli spostamenti che il giocatore compie al suo interno.12 Dai suoi corridoi e dalla sua struttura si dipana la riflessione cardine di tutto il racconto: si scopre infatti che la madre di Edith, progressivamente, ha scelto di sigillare tutte le porte delle stanze dei parenti deceduti. Questo gesto, scaturito dall’incapacità (di nuovo) di scendere a patti col proprio passato e di elaborare il lutto legato alla perdita dei familiari, fa sì che nel momento in cui l’utente si addentra nell’abitazione si trovi alle prese con una serie di vicoli ciechi, di porte chiuse al di là delle quali è possibile solo gettare il proprio sguardo: ogni universo personale nella galassia della casa è bloccato, serrato, ed è possibile affacciarvisi solo tramite gli spioncini posizionati al centro della porta che ne impedisce l’accesso. Come la vecchia villa, ogni stanza è stata trasformata in un memoriale. Osservare il passato della famiglia dei Finch è come osservare un’immagine relegata in un altrove irraggiungibile, una carcassa tra le onde:“sono cresciuta osservando la camera di Molly dallo spioncino / trovandomi all’interno per la prima volta, mi sembrò di aver messo piede dentro a un dipinto” sentiamo dire a Edith in una delle prime fasi del gioco.

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Le stanze sigillate dalla madre di Edith possono essere viste solo dagli spioncini sulle porte: sono immagini fisse, immobili, che nella loro distanza non possono essere né capite né elaborate. Il superamento del lutto, in What Remains of Edith Finch, coincide con una possibilità d’azione all’interno di un passato che altrimenti non può che diventare proibito e mostruoso.

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L’ingresso nelle immagini, vissuto attraverso la metafora spaziale delle porte chiuse, degli spioncini e del loro aggiramento, genera nella protagonista una reazione spaesata: tra vivere le memorie dei defunti e sentirle raccontare, con tutte le omissioni del caso, si scopre presto una grande differenza.

La fissità di questo passato lo rende immobile, lo “immortala”.13 Ed è proprio partendo da ciò che What Remains of Edith Finch opera uno scarto fondamentale: la chiave in possesso della protagonista, si scopre, le consente infatti di entrare in quelle immagini, di sprofondare in quei quadri, di oltrepassare quelle soglie chiuse.14 Inizia così un percorso che sparpaglia la coscienza del giocatore su più livelli, corrispondenti ognuno a uno dei parenti deceduti della ragazza: entrando nelle stanze segrete, oltrepassandone le barriere che le immortalano, si viene direttamente alle prese coi ricordi di chi le ha abitate – leggendo un diario, osservando una foto, scoprendo un blocchetto da disegno si arriva a vivere ciò che queste sagome hanno vissuto. L’agire del giocatore si incarna in più individualità proprio nel momento in cui passa dalle tracce che questi corpi hanno lasciato, finalmente accessibili una volta ignorata (o per meglio dire, aggirata) la fissità che le appiattiva.
La ruolizzazione del fruitore15 diviene qui un gioco di scatole cinesi: se il finale svela l’ottica originaria dell’utente – quella del figlio di Edith – tutta l’esperienza è in realtà tesa a una sua dissimulazione. Non esiste una vera e propria “ottica originaria” dal momento in cui lo sguardo e la coscienza del giocatore sono liberi di entrare e uscire da qualsiasi tipo di immagine, tuffandosi al di là dello spazio e del tempo. Quella che struttura il processo interattivo è un’ottica in divenire, è un punto cartesiano privo di coordinate che volteggia in un sistema di narrazioni ipertrofiche e di altrettanto ipertrofiche rappresentazioni. Il gameplay può allora caricarsi di ispirazioni e di idee, dissezionandosi anch’esso sulle direttrici che lo compongono16 e trascinando il giocatore in un altrove costante, in uno spazio che è sempre appena più in là rispetto al precedente. Non solo si ha costantemente a che fare con delle immagini/fantasma in cui ci si addentra e si sprofonda, ma lo stesso nucleo individuale al centro dell’esperienza è un fantasma: è opaco, assente, libero di sparpagliarsi su più piani di realtà eppure in qualche modo vive, si muove, agisce. Ciò viene esemplificato con straordinaria chiarezza nel momento in cui il giocatore si trova in un nuovo corpo: per capire chi si è, per capire nei panni di chi si sta agendo, si è costretti a chinare il capo del nostro avatar e a posare i suoi (nostri) occhi in basso.17 Ecco che emerge la natura fantasmatica dell’esperienza di gioco: l’entità assente al centro di tutta la struttura di assenze, memoriali e porosità è proprio quella dell’utente, è proprio la nostra.
Dalla fissità alla pervasività, What Remains of Edith Finch racconta un’elaborazione del lutto che coincide con la scesa a patti con un’immaginalità irriducibile, basata sulla porosità del simulacro. Per vivere queste visioni, però, per fare esperienza di loro e non soltanto al loro interno è necessario presupporre qualcosa di differente al centro del sistema di rimandi e virtualità: vi si deve presupporre uno spettro. L’utente videoludico, alle prese con la frammentazione dell’immaginario e della sua immagine-nell’immaginario, non può che rendersi assente al centro di tutte queste ramificazioni. La sua è allora una coscienza agente, continuamente incarnata eppure irriducibile a un corpo singolo: è l’immagine di una coscienza, un simulacro smarrito tra gli altri.
Si giunge a questa consapevolezza attraversando lo snodo tematico più significativo del titolo: quello della morte.

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Edith trova un diario, lo legge, si immerge nel suo racconto: il testo ingloba il giocatore, che si ritrova così immerso nelle immagini che esso evoca. Di qui in poi, l’esperienza di Edith (e quella dell’utente assieme alla sua) sarà traslata in quella di chi è morto, nell’istante in cui è stato per morire.

Non solo il titolo Giant Sparrow fa vivere al giocatore delle immagini (dal punto di vista diegetico e narrativo quanto teorico), ma gli fa vivere delle morti. Un suicidio, un delirio catastrofico, un incubo che non ammette alcun risveglio: dalla prima all’ultima, tutte le esperienze incarnate18 dall’utente nel momento in cui esso si inserisce nell’abisso dei vari memoriali (dei vari simulacri) sono esperienze di morte.19 Più che percorrere l’ingresso in una superficie piatta e proibita il gioco lascia che ci si immerga, consapevolmente, in una morte vietata. E questo è reso evidente dal finale, in cui si capisce che tutto il percorso fatto fino a quel punto altro non è stato che all’interno in un’altra immagine, in quella del diario di Edith, e che l’inizio del viaggio è stato segnato dalla scelta del figlio di leggerne le pagine.
Una delle scene conclusive porta poi l’utente nell’utero della ragazza-madre e lo fa muovere “verso la luce”, verso la nascita: indicativo è che questo movimento non descriva solo la venuta al mondo del vero protagonista del titolo, ma anche e soprattutto la morte della sagoma che fino a questo momento abbiamo creduto di impersonare. Tutto What Remains of Edith Finch si chiude allora su sé stesso, nella descrizione di una morte eterna: gli spettri che lo abitano e che lo hanno abitato ammettono di essere conosciuti solo nel momento in cui svaniscono, in cui si rendono i fantasmi che tutti sono abituati ad allontanare. Entrare nella pervasività nelle immagini, trapelare dalle loro porosità insolute, non conduce a una loro elaborazione. Giacché per quanto il trauma dell’annichilazione possa essere vissuto, ancora e ancora,20 esso non potrà mai essere conosciuto o capito del tutto: ogni volta che l’utente vi si avvicina il ricordo lo sbalza via – il testo si interrompe, l’immagine svanisce. L’ingresso nel memoriale, nel simulacro, coincide col percorso di Edie nella nebbia: lascia che si faccia l’esperienza di una traccia. Dietro quella finestra però qualcosa si è acceso e il ricordo è finito. Qualcosa, nonostante il ritrovamento di tutti gli oggetti e nonostante l’esperienza dello smarrimento, ci è stato vietato.
Tutta questa morte ci racconta di sé ma si interrompe sul più bello. Per utilizzare il lessico di Georges Didi-Huberman21: partiamo dalla cenere, ravviviamo i tizzoni e vediamo queste immagini prendere fuoco, eppure nel momento in cui avvampano non possiamo che stringere gli occhi e non guardare. La nascita del vero protagonista, la nascita del giocatore22, altro non fa che far coincidere la loro fine col loro inizio: in un bagno di luce, tutto si incontra nel momento in cui semplicemente non c’è più niente da vedere.

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Una delle ultime fasi di gioco porta l’utente nell’utero di Edith: qui, in un fiume di parole frammentate (i resti del diario della ragazza e di tutti i diari che ha trovato nella casa, una sorta di rimanenza confusa e irriconoscibile della genealogia dei Finch) vita e morte arrivano a coincidere e s’incontrano in un bagno di luce verso il quale non si può che viaggiare, dinnanzi al quale non si può far altro che stringere gli occhi per non accecarsi.

NOTE

1. Cfr. Ruggero Eugeni, “Il Testo Globale. L’Esperienza dello Spazio tra Cinema Contemporaneo e Videogioco”, in Michele Fadda (a cura di), Corto Circuito, Il Cinema nell’Era della Convergenza, Bologna, Archetipolibri, 2011, pp. 77-92; Ruggero Eugeni, “L’Immagine Giocata. Il Dibattito sul Videogame e la Questione del Visuale”, Fata Morgana, n.8, 2009, pp.159-172; Ruggero Eugeni, Massimo Locatelli, “Gaming: Profilo di un’Esperienza Mediale tra Ludologia e Filmologia”, Bianco e Nero, Fascicolo 564, Maggio-Agosto 2009, pp.32-39.

2. La riflessione sulla morte delle immagini e sul loro essere-morte viene efficacemente riproposta in Hans Belting, “Immagine, medium, corpo”, in Andrea Pinotti, Antonio Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009. Cfr. Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), tr. it. Di G. Mancuso, Milano, Feltrinelli, 2002.

3. Di nuovo, la riflessione sulla pervasività è portata avanti, trasversalmente, dall’opera di Eugeni che si sviluppa attorno all’ambito videoludico e alla sua spazialità e narrativa.

4. Michael Nitsche, in Video Game Spaces. Image, Play, and Structure in 3D Game Worlds (Cambridge, The MIT Press, 2008) pone l’accento sulle specificità dell’interagire videoludico proprio a partire dal paradigma interazione/manipolazione, sulla scia della definizione di “cybertesto” offerta da Aarseth nel suo Cybertext. Perspectives on Ergodic Literature (Londra, The Johns Hopkins University Press, 1997).

5. Il linguaggio qui è di nuovo quello di Nitsche, che descrive gli elementi evocativo-narrativi come “elementi in grado di fornire all’interattore i mezzi per comprendere lo spazio virtuale e gli eventi al suo interno, generando un contesto e un senso che rendano lo spazio di gioco e l’esperienza dello stesso più significanti.” (traduzione mia) (M. Nitsche, op. cit., p.45).

6. Si veda la differenza tra “spazio rappresentato” e “spazio rappresentante” o “interspazio” in Fausto Colombo, Ruggero Eugeni, Il Testo Visibile. Teoria, Storia e Modelli di Analisi, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996, pp. 195-196.

7. La presenza di questa specie di “percentuale di completamento” che si rivolge esplicitamente a meccaniche videoludiche specifiche (come sistemi di achievement o simili) strutturando un incedere che segua una prassi “a-livelli” non è però da intendersi come intersezione tra prassi narrativa e prassi puramente ludica: da una parte, di volta in volta che si scoprono le vicende dei parenti si assiste a un “aggiornamento” del diario della protagonista, dall’altra parte questo non consente mai al giocatore di muoversi in una qualche ottica completista: il ritrovamento dei vari “pezzi di storia” è inevitabile, narrativamente quanto esplorativamente parlando.

8. L’impossibilità di una “solidificazione” topografica dell’ambiente virtuale di What Remains of Edith Finch risulta evidente a partire dalle modalità in cui si sviluppa il racconto: ogni volta che la protagonista si “immerge” in un’immagine o in un ricordo, l’utente viene catapultato assieme a lei in uno spazio fantasma, irriconducibile a quello originario della casa. Ne “Il Testo Globale” Eugeni chiama questa irriconducibilità (propria del medium videoludico e delle sue spazialità tutte) “reticolare” o “globale”, e mette in relazione le sue caratteritiche con la “planarità” dello spazio filmico tradizionale.

9. Da una parte il padre della bisnonna Edie è morto nel tentativo di trasportare l’intera vecchia dimora dalla Norvegia in America, dall’altra il genero ha sistemato le lapidi dei defunti sul colle in modo che guardassero il mare e quel che restava della villetta naufragata ancor prima di porre le fondamenta per il nuovo edificio.

10. Hans Belting, Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, Monaco, Fink, 2001, trad. it. Antropologia delle immagini, Roma, Carocci Editore, 2011.

11Rilevante, a livello iconografico, il ruolo della nebbia nella spazialità videoludica. Cfr. L’uso che ne viene fatto nel videogioco Silent Hill (Konami, 1999), in cui essa diviene un cardine simbolico dell’esperienza narrativa del titolo.

12. Citiamo a questo proposito quanto scritto da Nicolò Vigna riguardo la spazialità di INLAND EMPIRE – L’impero della mente [INLAND EMPIRE, 2006] di David Lynch, e quanto citato a questo proposito da Alberto Libera nell’articolo dedicato a Personal Shopper [id., 2016] di Olivier Assayas.

13. Cfr. Il “complesso della mummia” di Bazin.

14. Rilevante è notare che la casa stessa sia un’immagine proibita come quelle delle stanze al suo interno: la protagonista non può entrarvi dalla porta principale, ma è costretta a sgattaiolare dalla porticina per il gatto sul retro.

15. Cfr. Ruggero Eugeni, Massimo Locatelli, “Gaming: Profilo di un’Esperienza Mediale tra Ludologia e Filmologia”, Bianco e Nero, Fascicolo 564, Maggio-Agosto 2009, p. 35.

16. Al di là delle vesti grafiche variabili (tra sperimentazioni in grafica cartoon di vario genere) la prospettiva di gioco si aliena addirittura nell’isometrico (vedi la sezione dedicata a Lewis Finch), limitandosi altrimenti a far cambiare di continuo l’ottica dell’utente (che diviene animale, lattante, bambino e all’occorrenza anche mostro degli abissi).

17. In un’intervista su Edge, Ian Dallas (designer del titolo) dichiara di aver gradito molto l’idea che i giocatori potessero casualmente “abbassare gli occhi” e notare il grembo gravido della protagonista, nonostante fosse generalmente indisposto alle ottiche in prima persona nei videogiochi (Edge #309, p. 96).

18. Cfr. Gordon Calleja, In-Game. From Immersion to Incorporation, Cambridge, the MIT Press, 2011.

19. Il caso più affascinante in questo senso è quello di Milton, il fratello maggiore di Edith. Di lui troviamo un blocco note che, sfogliato rapidamente, anima una sequenza di disegni che rappresenta il ragazzo tracciare un buco nel muro e in seguito venir inghiottito dallo stesso. Il giovane pittore viene fagocitato da una delle sue opere, e di questo lascia altrettanto misteriosamente una traccia, una serie di istantanee, un’altra immagine – un’altra opera. Il potere pervasivo di queste immagini è totale: più che la morte dei Finch ci stupisce la loro capacità di immortalarla, di renderla permeante. Non solo tutti i parenti della protagonista, dal primo all’ultimo, sono morti, ma per ogni deceduto esiste un’immagine capace di raccontarne la morte. Queste sagome ci inghiottono proprio come hanno inghiottito Milton, anzi di più: proprio come sembrano aver inghiottito, uno a uno, tutti i Finch.

20. Fatto rafforzato dalla possibilità, una volta completata la storia, di rigiocare i singoli episodi dei Finch separatamente a partire proprio dal disegno dell’albero genealogico di Edith.

21. Cfr. Georges Didi-Huberman, “L’Image Brûle”, in L. Zimmermann (a cura di), Penser Par les images: autour des travaux de Georges Didi-Huberman, éd. Cécile Defaut, Nantes, 2006, pp. 11-52, trad. it. Di Sara Guindani.

22La scena finale è significativa anche riguardo la natura fantasmatica del giocatore: nel momento in cui esso nasce all’interno del racconto, il racconto finisce. Ecco allora il fuori-immagine, la chiusura del gioco: non c’è più niente da giocare perché il fantasma è svanito, è uscito.