(N.B.: Poiché, al momento della pubblicazione dell’articolo, non è ancora disponibile un’edizione homevideo del film, non è stato conseguentemente possibile ricorrere a un adeguato apparato iconografico. Sarà nostra premura provvedervi non appena il dvd o il blu-ray saranno commercializzati)

1858. A Bologna, allora parte dello Stato pontificio e soggetta all’autorità monocratica del Papa, il piccolo Edgardo Mortara, di padre e madre ebrei, viene prelevato da un messo della Gendarmeria su ordine diretto della Santa Inquisizione. Il motivo è che il bambino, di soli sei anni, era stato segretamente battezzato dalla sua fantesca, sconcertata dalla prospettiva che all’incolpevole pargoletto, colto da una febbre verminosa, venisse precluso l’accesso al Paradiso. Dodici anni dopo, la breccia di Porta Pia avrebbe contemporaneamente segnato «la fine del potere temporale dei papi, l’abolizione definitiva del ghetto e la completa equiparazione degli ebrei romani agli altri cittadini»1.

Non è certo l’unico dei cosiddetti battesimi forzati, pratica in voga dal Cinquecento e rivelatoria «dei rapporti secolari tra ebrei e cristiani e della percezione che i primi avevano dei secondi, all’interno di quella che è chiamata la “teologia della sostituzione”»2. Di certo, però, è quello la cui eco ha più a lungo resistito nella memoria collettiva: vuoi in virtù della particolare temperie in cui accadde, vuoi perché il padrinato del giovane Edgardo venne assunto direttamente da papa Pio IX, vuoi perché lo stesso Mortara si sarebbe poi convertito alla religione cattolica e da cattolico sarebbe morto alla soglia dei novant’anni.

Del «caso Mortara» si era erano interessati addirittura Steven Spielberg, che progettava un film tratto dal libro Prigioniero del papa re di David Kertzer, e Julian Schnabel. Alla fine, però, il primo a trarre un film dalla vicenda è Marco Bellocchio, che, dopo aver concluso Il traditore (2019) e prima di girare Esterno notte (2022), comincia a lavorare alla sceneggiatura3 con Susanna Nicchiarelli. Quando poi quest’ultima abbandona temporaneamente la barca per girare il suo film su santa Chiara4, si aggiungono in corsa Daniela Ceselli e lo scrittore Edoardo Albinati5.

esterno-notte

Esterno notte

Il titolo previsto inizialmente è La conversione, quello definitivo è Rapito, interpretabile in due modi: «coattamente sottratto» dal governo temporale dello Stato Pontificio ma anche «avvinto», «sedotto» dalle liturgie della catechesi e della vita spirituale. In mezzo, e poi scartato per motivazioni strettamente commerciali6, l’intrigante Non possumus, espressione usata da Giovanni negli Atti degli Apostoli e poi sfruttata più volte dall’autorità ecclesiastica in ambito diplomatico. Compresa la vicenda in oggetto.

Da quando in qua si devono gradire le decisioni del Papa? Da quando? A tutti i re, principi, imperatori, il Papa risponde in un modo soltanto:«Non possumus». Non possiamo rinunciare al bambino per coerenza con i principi della nostra fede.

Così infatti tuona, nel film, papa Pio IX (Paolo Pierobon), incalzato dal cardinale e segretario di Stato Antonelli (Filippo Timi), preoccupato che la cattiva pubblicità del caso Mortara potesse togliere ulteriore respiro alle già boccheggianti casse della Santa Sede, gravate da un debito-capestro con i Rothschild.

Evidente, quindi, il cambio di prospettiva: il referente del titolo non è più Edgardo (Enea Sala da bambino, Leonardo Maltese da adulto) quanto invece uno Stato Pontificio sempre più vicino a perdere la sua inveterata plenitudo potestatis. Di fatto, come sostiene il produttore Simone Gattoni, in Rapito «la voglia di libertà dei popoli e degli individui si scontra con le posizioni anacronistiche dello Stato Pontificio (che ai tempi era estremamente esteso perché comprendeva il Lazio, l’Umbria, la Romagna e gran parte delle Marche), dove ancora si mescolavano potere politico e autorità spirituale»7.

Come in sede di analisi ha ricordato anche Paolo Mereghetti, proprio la confluenza tra gli ingranaggi del potere temporale e le molle del potere spirituale fa erompere tutte le contraddizioni e gli opposti in cui si muove non solo il film ma anche buona parte dell’opera di Bellocchio: carne e spirito, autorità e sottomissione, singoli e famiglie, individui e comunità, servi e padroni, «interno ed esterno, padri e figli, normalità e follia»8 ma anche materia e fede, ritualismo e ribellione, senso religioso e vertigine del sacro.

L’ultimo di questi antagonismi è forse il più significativo. Bellocchio, infatti, non ha mai fatto mistero del suo ateismo, di una prospettiva che quindi esclude il divino dall’orizzonte del mondo: «L’unica giustificazione di Dio è che non esiste» si dice nello straordinario Nel nome del padre (1971).

Il momento esatto, in Nel nome del padre, dove viene pronunciata la battuta citata.

Un punto di vista, però, tutt’altro che dogmatico o intransigente. Perché pressoché tutto il suo cinema si confronta con l’elemento religioso, come se fosse «da sempre in cerca di un segnale che certifichi la presenza di Dio nel mondo […] ossessionato dalle sue manifestazioni, dai suoi manufatti»9. Lo evoca fin dai titoli: il già citato Nel nome del padre, Diavolo in corpo (1986), L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) (2002), La religione della storia (1998, episodio per la serie Alfabeto italiano co-diretto con Francesca Calvelli, compagna nella vita e montatrice dei suoi film a partire da Il sogno della farfalla [1994]). Lo interroga, a volte con rabbia, altre con ironia, altre ancora con il ricorso allo sberleffo grottesco o a una sorta di pragmatico cinismo («In Italia non si governa senza l’appoggio del Vaticano», si dice in Bella addormentata [2012]). Senza nessuna sovrastruttura teologico-dottrinaria come il Buñuel di La via lattea [La voie lactée, 1969], ma con quella stessa fascinazione che un altro grande regista ateo come Bruno Dumont10 tributa alla fede nel trascendente.

Onnipervasività simbolica del potere religioso: Nel nome del padre.

Si può dire, in fondo, che Bellocchio ha nei confronti della religione una posizione molto simile a quella espressa da Ludwig Feuerbach nel suo L’essenza del cristianesimo. L’esperienza religiosa intesa pertanto come forma di alienazione, di spossessamento, di attribuzione al divino delle qualità di un Sé ideale che l’Uomo non può raggiungere:«Dio è l’interno dell’uomo rivelato, il suo sé espresso, la religione è il solenne disvelarsi dei tesori nascosti dell’uomo, l’ammissione dei suoi intimi pensieri, la pubblica confessione dei suoi segreti d’amore»11.

Le conseguenze di ciò sono molteplici: anzitutto, questa «trasposizione della propria essenza fuori di sé»12 fa della religione una forma di conoscenza interiore. In secondo luogo, impossessandosi degli attributi di questa essenza, l’autorità religiosa diventa una forma di potere e di controllo che assume quasi una dimensione «panottica». A tal proposito, vengono in mente il piccolo Leonardo che, nell’incipit de L’ora di religione (uno dei capolavori del nostro cinema), si agita per scacciare Dio dalla sua mente o la minaccia che in Rapito rivolge al piccolo Edgardo il rettore interpretato da Renato Sarti:«Dio ascolta anche i nostri pensieri».

L’incipit di L’ora di religione.

Un potere, quello specificatamente incarnato dalla tradizione spirituale cristiana, formalmente privo di restrizioni («Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio», Romani 13, 1) e onnipresente (due film come il più volte citato L’ora di religione e il geniale Il regista di matrimoni [2006] s’interrogano «sulla persistenza del passato cattolico»13). Da sbeffeggiare (lo spettacolo blasfemo in Nel nome del padre fa il paio in Rapito con l’incubo della circoncisione/castrazione di Pio IX), da desacralizzare per mezzo della blasfemia (come il Maurizio Cattelan della Nona ora, come la bestemmia de L’ora di religione) o da oltraggiare (la sfida a Dio lanciata da Mussolini nell’indimenticabile ouverture di Vincere [2009]).
Ma anche un potere fondato su precise liturgie cerimoniali, osservanze rituali e concrezioni simboliche che provocano una cappa di oppressione soffocante e danno forma a strategie di sublimazione del desiderio. Ed è proprio dalla connessione tra l’ordine simbolico-religioso e la forza dirompente del desiderio (al centro p.e. anche di Sangue del mio sangue [2015]), mediata dall’apparato fantasmatico-castratorio del rigorismo protocollare, che scaturisce la conversione del giovane Mortara.

La persistenza del sacro e l’impotenza delle immagini: Il regista di matrimoni.

Una conversione che si svolge nella torva cupezza oppressiva della romana Casa dei Catecumeni, esito di un percorso interiore irrappresentabile perché molto vicino all’incomprensibilità del mistero (e per questo raccontabile solo per labentia signa, attraverso l’ellissi e il sottinteso), alla quale Bellocchio guarda con distacco laico e con estremo rispetto. Senza mai esplicitarne le insondabili ragioni profonde (quale è la molla che ha indotto Edgardo ad abbracciare il cristianesimo?) ma inscrivendola in un quadro più ampio, immersa com’è nella misteriosa intimità affettivo-cameratesca del collegio e rappresa appunto nella sostanza arcana del desiderio. Lo testimoniano tanti piccoli momenti che vanno dalla scena in cui Edgardo trova riparo tra le sottane papali mentre gioca con i convittori a nascondarella a quella in cui travolge con slancio precipitoso lo stesso pontefice in visita alla basilica di San Giovanni in Laterano e viene per contrizione costretto a disegnare tre croci sul pavimento con la lingua. Nel suo saggio Fede e critica, Guido Morselli sostiene infatti che proprio il desiderio, insieme all’amore, è componente fondamentale della fede.

Desiderio: anche nello stadio della prassi il sentimento del divino conserva questa sua caratteristica, e tende a improntarvi l’attività dell’individuo, ossia a concentrarla in un comportamento che assicuri le condizioni più favorevoli a un rapporto, per quanto è possibile, diretto con la divinità. Siamo dunque ancora nell’ambiente mistico; e ciò quantunque consideriamo il credente comune (che sia autentico credente) nell’effettivo, quotidiano manifestarsi della sua azione religiosa che – sotto questo aspetto – lo porterà a introflettersi, a far prevalere una sua visione particolare e intima della vicenda terrena, delle cose e degli uomini.14

Eppure, questo «sentimento del divino» non si traduce solo in uno strumento di autocoscienza (da parte dell’individuo) o in una forma di dominio autoritario sui destini del singolo (da parte dell’organo ecclesiastico). Esiste un terzo aspetto dal quale Bellocchio, ateo ma mai prigioniero delle maglie del razionalismo coûte que coûte, sembra a sua volta «rapito». Ed è la ricerca del trascendente, dello spirito, della Potenza. Di un superamento dei limiti della carne portato avanti con quella stessa «dissennata veemenza» con cui su queste pagine si parlava a proposito di Marx può aspettare (2021)15. Della ricerca di un ordine intrinseco che coincide con un desiderio irredento di libertà e che quindi, per l’autore de I pugni in tasca (1965), sembra assolvere alla stessa funzione del sogno (è in sogno che Aldo Moro può camminare libero all’alba in Buongiorno, notte [2003]).

Il sogno finale di Buongiorno, notte.

In questo senso, si può forse dire che Bellocchio sia sostanzialmente anti-religioso (per una religione intesa, come detto, quale forma di potere) ma continuamente attratto dalla dimensione del sacro. Una dimensione che riunisce tutto quanto dovrebbe contenere in sé la Potenza del trascendente, terreno di esperienza del divino, luogo attraverso il quale giungere a una specie di verità di metafora. Non il sacro decadente, corrotto e primitivista di Pasolini o Ciprì e Maresco, ma un tentativo iperbolico (majakovskiano?) di elevazione spirituale, di ricerca di senso (come per Mircea Eliade), di autodeterminazione, di scoperta di sé attraverso il mistero del mondo. È proprio da questo sforzo che Bellocchio è profondamente attratto. I suoi ultimi lavori (diciamo dall’inquieta indeterminatezza frammentaria e laboratoriale del bellissimo Sorelle Mai [2010]), sembrano tutti compartecipi di una tensione al sacro, spirituale o paradossalmente laica, che si rivela nella concretezza delle azioni. Nella fattività delle opere.

La verità di metafora è anche verità dell’Arte: L’ora di religione.

Se infatti il trascendente è in quest’ottica irraggiungibile (e per questo irrappresentabile), rimangono però i lasciti materiali, tangibili, immanenti della ricerca. I suoi segni visibili. Ecco quindi che il piccolo Edgardo può sognare che il Cristo della statua nel suo collegio si faccia carne, scenda dalla Croce, cammini libero per proseguire la sua opera (ancora una volta la triangolazione sacralità-libertà-sogno). Una sequenza analoga a quella in cui ad animarsi era la statua della Beata Vergine Maria del Soccorso in Nel nome del padre, ma segnata da una differenza sostanziale: si trattava di una proiezione immaginifica che aveva la natura sacrilega della beffa, qui è invece una manifestazione onirica (proprio come la visione di Moro che traporta la croce in Esterno notte) che ha le stimmate della ierofania.

Sopra: la statua della Vergine che prende corpo in Nel nome del padre.
Sotto: Aldo Moro che trasporta la croce in Esterno notte come nella salita al Calvario.

In fondo, in Rapito tutti si confrontano con la dimensione concreta dell’agire, del fare: la domestica Anna Morisi (Aurora Camatti) si chiede che cosa fare per salvare l’anima di Edgardo, i genitori del bambino Salomone (Fausto Russo Alesi) e Marianna (Barbara Ronchi) si domandano se non abbiano «fatto abbastanza» per riaverlo, gli ebrei della comunità romana guidati da Sabatino Scazzocchio (Paolo Calabresi) s’interrogano su quale sia il migliore piano di azione per riportare Edgardo alla sua famiglia e così via. Come accade sempre più spesso (Bella addormentata, Esterno notte), Bellocchio sbriciola il racconto lungo diversi assi prospettici, vagliando come le motivazioni di tutti (persino quelle più strettamente dogmatiche dell’inquisitore Pier Gaetano Faletti [Fabrizio Gifuni]) si convertano in atto. Anche per lo stesso Edgardo: se le ragioni profonde (trascendenti) della sua conversione rimangono impenetrabili, a riverberare sono invece le sue azioni, il tentativo di estrinsecare i moti di un’interiorità inquieta che arriva a una singolare abiura dell’autorità del Papa-padre-padrone («Gettatelo nel Tevere!», grida durante il trasporto del feretro di Pio IX) che pure non avrà alcuna conseguenze sulla sua vita (continuerà la sua opera di predicazione e conversione con il nome di Pio Maria, scelto proprio in onore dell’amato/odiato pontefice).

Quindi, è con grande intelligenza (ed equidistanza laica) che Bellocchio non indaga le motivazioni della «conversione» (in questo senso, appare assai opportuno il cambio di titolo). Non si permette di giudicare, non si iscrive al rimpallo polemico di chi difende a spada tratta la liceità del progetto di fede e chi invece lo riconduce a un’opera di persuasione coercitiva, di «lavaggio del cervello». Non cerca nessuna verità che non sia quella relativa dei gesti, dei fatti e della parole. Anche quando contraddittori e incompleti, questi posseggono una sacra dignità che permette loro di essere tradotti in immagini. Diventare tracce visibili.

Motivi che fanno di Rapito l’ennesimo grande film di uno dei massimi registi della storia d’Italia.

NOTE

1. M. Caffiero, Il caso Edgardo Mortara in prospettiva storica, in P. Mereghetti (a cura di), Rapito. Un film di Marco Bellocchio, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna, 2023

2. Ibidem.

3. Fonte bibliografica principale, in questo caso, non è più il libro di Kertzer ma Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa di Daniele Scalise.

4. Chiara (Susanna Nicchiarelli, 2022)

5. In fondo, Bellocchio, con Nel nome del padre non aveva creato un precedente proprio di La scuola cattolica, romanzo che è valso la definitiva consacrazione dello stesso Albinati?

6. cfr. A. Libera, Intervista a Simone Gattoni, produttore di Rapito, in P. Mereghetti (a cura di), Op. cit.

7. Ibidem.

8. G. Canova, Divi duci guitti papi caimani. L’immaginario del potere nel cinema italiani, da Rossellini a The Young Pope, Bietti, Milano, 2021

9. R. Manassero, Rapito di Marco Bellocchio, in cineforum.it, 2023: https://www.cineforum.it/focus/Cannes-76/Rapito-di-Marco-Bellocchio

10. Confronta con gli articoli dedicati al regista presenti su questa testata:

L. Baldassari, L’umanità, in Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 2015: https://specchioscuro.it/lumanita/

L. Baldassari, Hadewijch, in Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 2015: https://specchioscuro.it/hadewijch/

L. Baldassari, Hors Satan, in Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 2015: https://specchioscuro.it/hors-satan/

E.B. Lo Coco, M. Grifò, L’uomo è ciò che guarda: una conversazione con Bruno Dumont, in Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 2018: https://specchioscuro.it/luomo-e-cio-che-guarda-una-conversazione-con-bruno-dumont/

11. L.Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, Laterza, Bari, 1997

12. Ibidem.

13. C. Brook, The Spectacle of the Unseen: Marco Bellocchio and Lure of the Catholic Church, in Italian Studies, Vol. 68 No. 3, Novembre 2013, 399-410

14. G. Morselli, Fede e critica, Adelphi, Milano, 2014

15. A. Libera, Dissennata veemenza: Marx può aspettare e Ungenach, in Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 2021: https://specchioscuro.it/dissennata-veemenza-marx-puo-aspettare-e-ungenach/