Volevamo cominciare chiedendole: in un cinema di «luoghi», dove si trova Bruno Dumont?

Non ne ho idea [dice ridendo. Poi continua]. È difficile per un cineasta capire dove si trovi, è più facile per i critici o per gli spettatori dargli una collocazione, io sono troppo nel mio mondo per poter rispondere.

E allora rilanciamo: dove si trova e come si pone il cinema contemporaneo, così legato al visibile, rispetto a quello di Dumont, esploratore dell’invisibile?

Tento di fare un cinema d’arte, un’arte del cinema, più che altro. I miei film vogliono essere cinematografici, mentre quelli di oggi, per lo più, sono film assai poco cinematografici. Miro ad un “cinematografico” rispetto al mio paese, alla mia regione, nonché alla mia storia e alla mia cultura, ma è anche vero che l’arte cinematografica non è dei nostri giorni.

intervista bruno dumont - 1L’umanità [L’humanité, 1999].

Scendendo nel dettaglio, notiamo nei suoi film un’attenzione particolare per le soggettive, per i campi lunghi, per i paesaggi, come se ci fosse un mistero invisibile da indagare: in questi riguardi, che ruolo svolge il montaggio nel suo cinema?

Penso che la ripresa dei paesaggi nel cinema non abbia niente a che vedere con il reale, ma che in realtà abbia a che vedere con l’interiorità, che sia espressione di una interiorità. Quando sto filmando un paesaggio, sto filmando l’interiorità del personaggio.
E la ragione principale è il montaggio [lo chiama découpage, ndr], nel senso che si taglia, si realizza, si crea una realtà che per me è totalmente spirituale. Credo profondamente che il cinema sia un’arte dell’interiorità: filma l’interiore, il cuore, quello che non possiamo filmare; quindi filmiamo l’esterno tentando di rappresentare l’interno.

intervista bruno dumont - 2Hors Satan [id., 2011].

Abbiamo notato che dopo Hors Satan il suo cinema si è contestualizzato più su periodi storici e generi cinematografici. È cambiato il suo cinema, o questa è una evoluzione naturale?

Penso che sia una evoluzione naturale, nel senso che sicuramente il mio cinema va verso un “surrealismo poetico”, accantonando la normale psicologia – che non mi interessa più – e sposando quindi un versante più poetico.
Anche l’evoluzione nel comico va in questo senso, come anche nel film musicale: sicuramente [il mio cinema] va verso qualcosa che è molto meno naturale e che ha molto più della trasfigurazione [Jeanette, l’enfance de Jean d’Arc, ndr].

Qual è, secondo lei, il rapporto tra cinema e filosofia?

Il problema della filosofia è che è molto cerebrale. Sicuramente il cinema porta un equilibrio alla filosofia attraverso la corporeità, un legame col reale.
Il rischio è quello di fare un cinema fin troppo intellettuale, e non è questo l’obiettivo; non si deve essere troppo intellettuali. Sicuramente ci deve essere un respiro, un’idea filosofica dietro, un pensiero, ma dopodiché ci sono le inquadrature, l’esterno, l’esteriore che porta “realtà” nel cinema.

intervista a dumont - 4Hadewijch [id., 2009].

L’ultima domanda: che cos’è la «forma»?

La forma? La forma è rendere visibile l’invisibile. Per esempio, ne L’età inquieta [La vie de Jesus, 1997] l’idea è quella di filmare il male, di darvi una forma: ma che cos’è il Male? Filmare un uomo, dunque; raccontare una storia cercando di portar fuori il Male facendolo uscire dall’interno di tutti gli spettatori.

intervista a bruno dumont - 6L’età inquieta.