Cinema e religione

Il cinema è un vero e proprio mistero per il regista filosofo Bruno Dumont: è un mezzo sinestetico capace di avvicinare le immagini più diverse, le sensazioni più lontane; è l’esperienza dell’unità profonda di tutte le cose.
Il cinema è simile alla mistica: lo dice il quinto lungometraggio di Bruno Dumont, Hadewijch [id., 2009], un film dolce ed intenso, poetico ed ineffabile. «Filmando o montando le immagini – ammette Dumont –, vedo nascere cose, talvolta visibili talvolta no, che disarmano l’intelligenza. Per questo dico che c’è una vicinanza fra il cinema e la mistica: per il rapporto che entrambi intrattengono con la realtà e le forme esteriori, per la potenza delle sensazioni che generano»1.
Per la critica italiana più tradizionalista (e miope), Dumont sarebbe un regista ripetitivo, e girerebbe sempre lo stesso film. Ebbene, Hadewijch smentisce queste accuse: mancano il sesso e la violenza brutali che avevano caratterizzato le sue discusse opere precedenti; ci sono più dialoghi; i colori sono pieni, e le immagini sono state addirittura ritoccate al digitale prendendo a modello il cinema espressionista e la bellezza barocca di Narciso nero [Black Narcissus, 1947] di Michael Powell e Emeric Pressburger.

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Sopra: Narciso nero di Michael Powell e Emeric Pressburger.
Sotto: Hadewijch.

Una novità, quella dell’immediata bellezza compositiva, da non sottovalutare. Nei capolavori precedenti del regista francese, il mistero del reale era evocato sinesteticamente attraverso il sonoro, utilizzato in funzione espressiva, e attraverso il montaggio (alternanza di primi piani e campi lunghissimi); in Hadewijch, invece, la parte centrale, ambientata a Parigi, privilegia i long take, i rumori della città. Anche il décor degli interni non è più quello povero e anonimo delle case rurali de L’umanità [L’humanité, 1999] o di Flandres [id., 2006]: l’abitazione di Céline, la protagonista del film, è riccamente addobbata, barocca, piena.
Dice Dumont: «Era necessario che l’appartamento fosse grande, vuoto, ricco. E che, in proporzione, la protagonista fosse ancora più piccola, completamente perduta. Tutto questo per accentuare il carattere triste e disincantato del suo quotidano. (…) Per me, siamo dentro di lei. I décor sono un modo per entrare. Io filmo un paesaggio interiore»2.

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Proprio in virtù del tema, Hadewijch probabilmente è il «più introspettivo»3 dei film di Dumont: sensazione rafforzata dal nuovo formato visivo, che passa dall’ampiezza spettacolare del Cinemascope all’intimità stretta dell’1.66. Una scelta non casuale. Dumont, infatti, è un autore ormai maturo: con Hadewijch, il regista francese continua ad interrogarsi sul cinema, sulle sue capacità espressive, e avanza addirittura un parallelismo fra l’ascesi religiosa della sua protagonista, la giovane Céline, e il gesto del filmare. Il cinema, Dumont lo sa bene, è una questione di dialogo e coincidenza fra termini opposti, assenza e presenza, immagini e fuori campo. Per la religione cattolica, invece, il trascendente è una dimensione separata dal mondo, ed è raggiungibile soltanto attraverso limitazioni e sofferenze corporali: la carne impedisce di trovare Dio. Bene e male, corpo e spirito rimangono distinti.
La giovane Céline prende alla lettera il messaggio religioso: fra le varie rinunce, c’è quella sessuale, la più frustrante. “Mi manca il Suo corpo”, confesserà la ragazza: «per la prima volta [nel cinema di Dumont] il desiderio puro prende il sopravvento sull’impellenza delle sensazioni»4, osservano Alessandro Baratti e Giulio Sangiorgio, che alla filmografia di Dumont hanno dedicato una breve introduzione monografica. Céline, infatti, «incarna il desiderio di amare e di essere amati»5: Hadewijch è un film sull’amore assoluto, su quelle contraddizioni che non possono risolversi perché assorbite da uno sguardo ideologico. Un film sulla tragedia dell’avere un corpo: la dimensione spirituale, infatti, chiama continuamente la dimensione carnale, e viceversa. Non c’è sesso, ma è il film più erotico di Bruno Dumont.

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La fotografia di Yves Cape gioca con i colori, in particolare con l’azzurro: il risultato, di ispirazione quasi espressionistica, accentua la sensualità della sequenza e rappresenta una novità assoluta nel cinema dumontiano.

Flandres, il film precedente del regista, terminava con una dichiarazione d’amore: un finale di riepilogo e rilancio della poetica del regista. Hadewijch nasce dagli scritti della poetessa e mistica fiamminga Hadewijch d’Aversa, e porta a conclusione il discorso del film precedente: qui Dumont, scrivono Baratti e Sangiorgio, «trova la risposta al desiderio che si indovinava nelle ultime inquadrature di Flandres: non una semplice storia d’amore tra due persone, ma un sentimento portato a un livello di incandescenza spaventosamente forte»6. In Hadewijch, le scelte formali del regista vogliono essere, a seconda del momento, una risposta oppure un’eco dell’estremismo religioso di Céline. Dumont adotta un registro per buona parte realistico, scegliendo di ricorrere il meno possibile alla deformazione espressiva che aveva caratterizzato L’umanità e Twentynine Palms [id., 2003]. «Hadewijch – osservano Baratti e Sangiorgio – si situa esattamente tra l’aneddotico e l’ermetico, il ridondante e il criptico: un equilibrio di conquistata classicità.»7
Il regista inoltre concentra tutta l’attenzione dello spettatore all’interno dei quattro lati dell’inquadratura, cercando, nelle scene ambientate a Parigi, di visualizzare il meno possibile il fuori campo (la dimensione dell’alterità8). A parte un’unica, significativa sequenza, non vi sono raccordi campo-controcampo nella parte centrale del film: il fuori campo rimane inaccessibile, perché Dio è trascendente. Per questo le immagini di Hadewijch sono così belle e attraenti, per questo Dumont utilizza il long take: è il colpo di genio del film, portare lo spettatore a simpatizzare per una ragazza visionaria, a desiderare la trascendenza.
La provocazione dumontiana, allora, è ancora morale: riguarda la sospensione del giudizio, il superamento del principio di non contraddizione. Céline ama Dio, eppure partecipa a un attentato terroristico; il sentimento di Céline è puro, eppure la condurrà a tentare il suicidio. E ancora: Dio è ovunque, ma non si lascia vedere; tutto è grazia, ma il male vince (quasi) sempre. Provocazioni inutili? No, perché è proprio nell’accostamento degli opposti, e nel loro superamento passando per il mondo delle sensazioni (ovvero andando al cinema: l’arte, per Dumont, è sempre aldilà del bene e del male), che sta il senso più profondo, filosofico, dell’operazione dumontiana. Il discorso religioso, infatti, si intreccia con quello cinematografico: cinema e religione sono entrambi superstizioni; entrambi si sviluppano sui concetti di presenza e assenza, visibile e invisibile. La differenza, secondo Dumont, è che il cinema abbraccia gli opposti: esso parte sempre da un supporto figurativo che interrompe e disinnesca il processo di alienazione religiosa. A tal proposito, risulta particolarmente significativa la sequenza di Hadewijch in cui un gruppo di musicisti suona Bach vicino al crocefisso, perché porta a una climax le tematiche del film.

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Per Céline è un’epifania. La ragazza è in estasi: la sua attenzione, però, non è catturata dalla musica, bensì dal fatto che i musicisti suonino proprio vicino al crocefisso (con sottile discrezione, Dumont avvicina impercettibilmente la MdP proprio a questo dettaglio). È la sequenza chiave di Hadewijch, ed è il momento in cui il cinema dumontiano si prende la sua rivincita sull’ideologia: Céline unisce visibile (il crocefisso) e invisibile (la musica) in un’ente trascendente, ovvero in Dio; eppure è condannata alla concretezza (le persone che suonano). Dumont invece, attraverso l’arte del montaggio (attraverso il cinema), può andare oltre, superare l’opposizione limitante di carne e spirito, immanenza e trascendenza: il regista, con un campo-controcampo tanto semplice quanto geniale, inquadra il volto in estasi di Céline, gli si avvicina lentamente, e rivela un invisibile non più aldilà ma aldiquà, inseparabile dalle cose e dal mondo.

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Nella sequenza della chiesa, Céline e i musicisti sono messi l’una contro gli altri tramite un uso insistito del campo-controcampo: è questa la “battaglia” del film, lo scontro fra visibile e invisibile. Secondo Dumont, il cinema, attraverso il montaggio, deve opporre (e legare) le due dimensioni.

La sequenza aggiorna Dreyer e La passione di Giovanna d’Arco [La passion de Jean d’Arc, 1928]: ma se nel film del maestro danese il fuori campo è Dio, e dunque non può essere visualizzato, in Hadewijch ciò che guarda Céline è presente nel mondo. Nel campo-controcampo di questa sequenza, infatti, campo e fuori campo possono scambiarsi di ruolo; sono contigui. La sequenza della chiesa e il finale di Hadewijch rappresentano, allora, una vera e propria dichiarazione di poetica. Il messaggio del regista, se di messaggio si tratta, è chiarissimo: la religione è alienazione, il cinema rivelazione, qui e ora.


La morte di Dio

In sequenze come quella del concerto di Bach, Hadewijch segna un distacco assoluto tra il punto di vista del regista e quello della protagonista. Un distacco che si fa problematico nel misterioso finale del film: Céline tenta il suicidio, ma viene salvata da David, un muratore di cui lo spettatore non sa quasi nulla, se non che è stato in prigione.
Di nuovo, la storia del film denuncia una struttura chiaramente autoriflessiva: alla fine di Hadewijch, Céline impazzisce perché le manca, letteralmente, il corpo di Cristo, ovvero il supporto figurativo dell’invisibile. Dio non c’è, non si visualizza: è il fuori campo per definizione. Da questo punto di vista, l’approccio di Dumont è completamente ateo, ed è all’opposto di quello di cineasti religiosi come Dreyer e Bresson. Per questo, la critica che ha interpretato David come una figura cristologica ha compiuto un errore colossale, travisando il senso dell’operazione dumontiana: David, infatti, non è un messaggero divino, ma rappresenta la prova tangibile della potenza salvifica della messinscena9. Dumont, allora, pur partendo dal cinema religioso di Dreyer (Ordet [id., 1955]), Bresson (Mouchette [id., 1967]) e Rossellini (Stromboli Terra di Dio [id., 1950]), arriva a conclusioni ideologiche completamente opposte: Hadewijch, nello spazio di quattro immagini, di tre raccordi di montaggio, passa dal divino all’umano, dalla vita al cinema, e poi di nuovo alla vita, libero dal peso della religione.

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Come nella sequenza della chiesa, il découpage è sufficiente per cambiare di segno un’immagine: in questo caso, Céline muore e rinasce in due stacchi del montaggio.

«Il cinema – dice Dumont – non può filmare l’invisibile. Aspiro ad altre cose ma per farlo devo partire dal concreto, dal reale, dal materiale. È lo spettatore che deve compiere la trasfigurazione. Io lavoro sulle inquadrature, sul montaggio, ma è lo spettatore a elaborare, è lui ad avere la capacità di trascendenza. Io lo accompagno solo con immagini suggestive»10.
Il finale di Hadewijch si presta a molteplici interpretazioni, e non risolve il mistero del film: per Céline, tutto potrebbe far parte di un disegno prestabilito, e l’anonimo salvatore potrebbe essere un messaggero divino. È Dumont, allora, che prende posizione, regalando allo spettatore un’altra scelta, un’altra possibilità: al primissimo piano di Céline piangente segue un primo piano di David Dawaele, attore non professionista – evidentemente a disagio di fronte alla macchina da presa -, con in volto un’espressione stupita e incongrua, sgraziata.

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Un primo piano “pasoliniano”11 di David Dawaele.

Un’inquadratura apparentemente “sbagliata”, ma che in realtà incastona la fantastica sequenza conclusiva in una dimensione intimamente umana e, al contempo, totalmente altra: un’immagine, quella del volto di Dawaele, che è presente e tuttavia rimanda a qualcos’altro (l’uomo ha lo sguardo rivolto fuori dall’inquadratura, non si sa verso cosa). Dumont utilizza addirittura un commento musicale extradiegetico, una novità nel suo cinema – un pezzo strumentale di André Caplet (Le Miroir de Jésus) che prosegue addirittura nei titoli di coda e che diventa un tutt’uno con il respiro dei protagonisti.
Dice Dumont: «L’ultima inquadratura è il ritorno dell’amore nell’umanità [corsivo del redattore]. Dio ha condotto Céline dritta contro un muro. Per me, lei muore alla fine: ma, per caso, passa un uomo, e la salva»12. Un’umanità, quella rappresentata dal regista, che comunica scandalosamente con il divino (lo sguardo di David è rivolto fuori campo), riappropriandosene: al cinema, infatti, ogni cosa ha un supporto figurativo, e basta un campo-controcampo per far comunicare fra loro le dimensioni della trascendenza e dell’immanenza (letteralmente, ciò che sta fuori e ciò che sta dentro l’inquadratura). Dio è morto, Hors Satan può cominciare.

 

NOTE

1. Bruno Dumont, in Stephen Delorme, En éveil, Entretien avec Bruno Dumont, Cahiers du Cinéma, novembre 2009, http://tadrart.com/tessalit/hadewijch/data/HADEWIJCH_CAHIERS_2pages_NOV.pdf.

2. Idem.

3. A. Baratti, G. Sangiorgio, Bruno Dumont. Del sub-realismo, in L. Abiusi (a cura di), Il film in cui nuoto è una febbre – 10 Registi fuori dagli sche(r)mi, Bari, Caratteri Mobili, 2012, cit., pg. 66.

4. Idem, cit., pg 67.

5. Bruno Dumont, in Stephen Delorme, En éveil, Entretien avec Bruno Dumont, cit.

6. A. Baratti, G. Sangiorgio, op. cit., pg 66.

7. Idem, cit., pg 67.

8. Nelle sequenze ambientate in convento, invece, lo stile sinestetico dumontiano è inconfondibile: si veda in apertura il campo lunghissimo del convento, con la pista sonora occupata dal respiro della protagonista (fuori campo); si veda anche la sequenza in cui Céline prega, nella sua cella, e fuori dalla finestra si intravedono i lavori di ristrutturazione del chiostro. In queste sequenze, le due dimensioni, visibile e invisibile, fuori campo e immagine, tornano a coincidere: il convento diventa un “paesaggio dell’anima”.

9. E’ lo stesso attore di Le Gars in Hors Satan [id., 2011] e, forse, lo stesso personaggio: è l’incarnazione del cinema dumontiano, della sua capacità di abbracciare ed esacerbare il male per sprigionarne la potenza catartica.

10. Bruno Dumont, incontro col regista animato da David Vasse (Università di Caen): Cinéma Café des Images, Hérouville-Saint-Clair (Calvados), lunedì 30 novembre, a cura di Alessia Gubernati, http://www.spietati.it/archivio/recensioni/rece-2009-2010/h/hadewijch.htm

11. Il Vangelo secondo Matteo [id., 1964] di Pier Paolo Pasolini è stata una delle fonti d’ispirazione del film, come affermato più volte dal regista.

12. Bruno Dumont, in Stephen Delorme, En éveil, Entretien avec Bruno Dumont, cit.