Noir postmoderno, grandguignolesca commedia dell’assurdo, tragedia elisabettiana made in Texas, teorema hitchcockiano: sono, queste, solo alcune delle possibili definizioni che si potrebbero attribuire1 alla stupefacente opera prima di Joel ed Ethan Coen, Blood Simple – Sangue facile [Blood Simple, 1984]. Tutte a loro modo corrette e pertinenti, nonché utili per illuminare, di volta in volta e sotto una diversa prospettiva, quello che con tutta probabilità resta il più «nero» dei loro film. Fin dall’esordio nel lungometraggio i due fratelli di Minneapolis si divertono a confondere le carte, accumulando suggestioni letterarie (l’hard-boiled di Dashiell Hammett e James M. Cain), sovvertendo convenzioni e cliché cinematografici, e soprattutto contribuendo a ridefinire un’estetica del cinema americano dagli anni Ottanta in poi.
Non staremo qui a ripercorrere la strada compiuta dai Coen per giungere alla loro opera prima – bastino per questo le numerose monografie dedicate ai registi di Fargo [id., 1995]. Vogliamo però ricordare fin da ora come sia nel genere che i due fratelli trovano il luogo ideale per dare forma alla propria idea di cinema. Del noir, modello di riferimento per Blood Simple e per tanti film successivi2, i Coen comprendono e sfruttano la natura al contempo economica e spettacolare. Caratteristica, questa, che, come sottolinea De Benedictis, fece la fortuna di tanti autori esordienti del cinema americano classico3. Non solo. Così facendo, i Coen possono rapportarsi criticamente con la Storia di un genere letterario e cinematografico, nonché con le aspettative di un pubblico, cinefilo e non. Come affermato da uno dei più luminari studiosi coeniani italiani, Vincenzo Buccheri, i Coen sono, appunto, «registi critici» per la loro prerogativa a rileggere la storia di Hollywood4. Ma – puntualizza lo studioso – sempre e comunque giocando con la materia narrata: «più che raccontare storie, i Coen giocano con il racconto: non partono da un’urgenza espressiva, ma assecondano un capriccio, il desiderio di sperimentare un genere o un attore, di sviluppare uno spunto visivo (…)».5
La locandina originale di Blood Simple. Interessante, oltre ai riferimenti ai registi, la frase di lancio che annuncia il “ritorno” del thriller.
Il loro approccio al cinema è dunque cerebrale, forse anche intellettuale, ma sempre e comunque ludico, caratteristica che inscrive i due autori tra i nomi di punta del postmoderno cinematografico americano degli anni Ottanta. Come ha sottolineato infatti Buccheri in riferimento al passaggio dal moderno al postmoderno cinematografico6, una delle peculiarità della postmodernità è quella di utilizzare gli strumenti «critici» tipici della modernità (straniamento, disgregazione del racconto, scollamento tra audio e video, auto-riflessività, ecc.) per reintegrarli all’interno del tessuto narrativo. Un procedimento che, idealmente, disinnesca e ridefinisce questi “elementi di disturbo”.
Registi critici, dunque, ma fino ad un certo punto. Di certo, interessati maniacalmente alla «forma» del loro cinema, spesso originato da un semplice spunto visivo. Non stupisce d’altronde che i due nomi di riferimento per la coppia di registi siano, da sempre, Stanley Kubrick e Alfred Hitchcock, due autori che, non solo hanno sempre stretto un forte legame fra le loro opere e i generi hollywoodiani, ma che hanno fatto della questione formale uno snodo essenziale del proprio cinema.
Tutte queste suggestioni convogliano idealmente in Blood Simple, opera prima dal soggetto originale, scritto, come spesso sarà anche per i film successivi, dagli stessi Coen. Il film è un noir alla James Cain, strutturato sul modello del Postino suona sempre due volte; un classico caso di adulterio (lui/lei/l’amante) che degenera per l’intrusione di un elemento esterno, il mellifluo detective Visser.
Il film inizia con le immagini di una strada avvolta nella notte e di una macchina che sfreccia sotto la pioggia incessante. Qui conosciamo la coppia di amanti, ossessionati dal sospetto di essere pedinati. Il genere di riferimento principale è, fin da subito, il noir. «Un ricorrente incipit noir riguarda del resto la soggettiva di un’auto, che avanza gettando un precario fascio di luce lungo strade solitarie completamente immerse nel buio.»7
Come ha notato perfettamente Giulia Carluccio, Blood Simple, pur inserendosi in un periodo di “revival” del noir classico, al contempo se ne distacca per l’assenza di una dimensione sessuale8. Se pensiamo a film pressappoco coevi quali Brivido caldo [Body Heat, 1981], Il postino suona sempre due volte [The Postman Always Rings Twice, 1981], Attrazione fatale [Fatal Attraction, 1987], La vedova nera [Black Widow, 1987], o ai successivi film di Paul Verhoeven, possiamo constatare come la tematica sessuale nel noir di quegli anni, per quanto presentata sotto vesti patinate, sia centrale. In Blood Simple, come in tutto il cinema futuro dei Coen, tale questione è pressoché assente (lo stesso rapporto tra Ray e Abby, i due amanti del film, difficilmente si potrebbe definire passionale). Piuttosto, ad interessare agli autori di Arizona Junior [id., 1987] è il meccanismo cinematografico in sé; e, se proprio vogliamo, la dimensione morale del film.
Sopra, Brivido caldo; sotto, Il postino suona sempre due volte. Il primo è un rifacimento de La fiamma del peccato [Double Indemnity, 1944], il secondo, un remake dell’omonimo film diretto da Tay Garnett nel 1946.
Partiamo da quest’ultima caratteristica, visto che apre idealmente Blood Simple. Le prime immagini del film ci mostrano un Texas da cartolina, con tanto di silhouettes delle pompe di petrolio in azione stagliate su di un cupo orizzonte desertico. La voce radiofonica di un predicatore ammonisce sui difetti della natura umana (la solitudine, l’egoismo, l’eterna infelicità), stabilendo indirettamente le coordinate morali del film – e di tutto il loro cinema a venire, che, come ha detto perfettamente Roy Menarini, non è stato ancora adeguatamente studiato sotto tale prospettiva9.
In Texas, si dice, “ognuno pensa per sé”.
L’incipit del film. Spesso, nella filmografia coeniana, sarà assegnato proprio a una voce over il ruolo di commento dei primi minuti del film.
Blood Simple mette in scena un’umanità gretta e meschina in balìa del caso, quest’ultimo incarnato da una regia demiurgica. Una disfatta beffarda dell’uomo (il film si chiude con il riso sarcastico di un morente) del quale la regia, sadicamente, enfatizza gli sbagli. D’altronde, anche quando non scrivono i propri soggetti, i Coen sono attratti da questo genere di storie – pensiamo ai tragicomici fatti di cronaca che hanno ispirato Fargo, o alla trasposizione dell’apocalittico romanzo di Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi.
In Blood Simple ci troviamo di fronte ad una fitta rete di fraintendimenti ed inganni che, sommandosi, provocano un cortocircuito narrativo. Nel film, un marito geloso vuole eliminare i due amanti; per farlo assolda un detective che, per l’occasione, si improvvisa killer. Ma quest’ultimo fa il doppio gioco: uccide il marito, si prende i soldi, e fa ricadere i sospetti sugli amanti, dimenticandosi però, sul luogo del delitto, delle prove che potrebbero comprometterlo.
Il detective Visser mostra le foto della coppia di amanti al marito geloso. Le foto verranno poi modificate dallo stesso detective per far credere a Julian di averli uccisi, e quindi di poter incassare i soldi dell’omicidio. L’occhio, nel noir, è sempre suscettibile all’inganno: lo aveva già mostrato perfettamente Roman Polanski con Chinatown [id., 1974], che guarda caso iniziava proprio con la consegna di alcune foto compromettenti ad un marito geloso.
I due amanti del film. Nella parte di Abby compare Frances McDormand, moglie di Joel Coen e che ritroveremo in altri film della coppia di registi.
A parte lo spettatore, quasi nessuno ha la visione completa del quadro. A muoversi “verticalmente” rispetto agli altri personaggi v’è solo il detective Visser, essere spregevole prodigo nel confondere le prove piuttosto che a ricostruirle. È difatti questa una delle prime infrazioni che i Coen compiono nei confronti del noir classico: «il detective non è più figura ermeneutica a cui affidare la detection in quanto lavoro etico-intellettuale in grado di connettere il sapere (…), la detection di Visser non è più al servizio della verità e della scoperta, non procede più a separare il buio dalla luce»10. Piuttosto egli agisce per i propri interessi, confondendo continuamente le carte e restando accuratamente nelle zone buie dell’inquadratura. Una figura eccentrica, sopra le righe, quella di Visser; una grottesca maschera texana a metà strada tra il cartoonesco11 e il demoniaco – diavolo, in senso etimologico, è il calunniatore (diábolos).
Visser, il detective doppiogiochista.
Seppur assoldato, egli agisce in maniera indipendente, incarnando un male che spesso incontreremo nella filmografia coeniana – e che diverrà «assoluto» (Menarini) nella figura di Anton Chigurh in Non è un paese per vecchi [No Coutry for Old Man, 2007], altro anarchico bounty killer memore del Robert Lee Clayton interpretato da Brando in Missouri [id., 1976].
Ma Visser confonde le carte di un universo i cui segni sono già di per sé oscuri. Blood Simple è, come già anticipato, uno dei film più “bui” dei Coen, spesso e volentieri girato di notte nonostante l’assolata ambientazione texana. Ciò conferisce alla pellicola un valore onirico: un vero e proprio incubo vissuto dai protagonisti e dallo spettatore – nemmeno lui esente dalla “macchina ingannatrice” dei Coen12. La regia rafforza lo statuto di irrealtà del rappresentato e la dissociazione psichica dei protagonisti, in primis attraverso il montaggio. Scrive puntualmente Stephan Braunschweig:
Montaggio e inquadrature accentuano a loro modo la dissociazione fra ciò che accade (realmente) e ciò che si pensa (immaginazione e sapere frammentato dei personaggi): Joel Coen si adopera nell’alternare (il film è estremamente tagliato) dei piano molto ravvicinati sui visi, sui gesti e sui corpi del reato, evitando, nella misura del possibile, i totali e i piani americani, i quali collegano per l’appunto i gesti ai volti (le azioni alle intenzioni) e dissimulano in conseguenza alla camera e allo spettatore onnisciente i dettagli significativi. Joel Coen preferisce inoltre il campo/controcampo al piano medio dei due personaggi che conversano, senza dubbio (ancora qui un effetto di dissociazione) perché nel Texas “ciascuno fatica per sé”.13
Se nella seconda parte della sua analisi Braunschweig ritorna sulla questione morale di cui parlavamo più sopra, è soprattutto intorno allo statuto onirico di molte sequenze che vorremmo concentrarci. Sovente, nel film, un impercettibile taglio di montaggio conduce da un luogo ad un altro senza che lo spettatore ne venga informato, magari inquadrando in continuità il volto di un personaggio. Lo stesso vale per il movimento: un sigaretta che si spegne può diventare un dito che tocca del sangue sui sedili posteriori di una macchina. Dissolvenze quasi invisibili e illusioni di continuità spaziale rendono dunque Blood Simple una esperienza tutt’altro che ancorata al reale. D’altronde, «(…) la confusione è il cuore della specificità onirica del noir», scrivevano Raymond Borde e Ethienne Chaumeton, aggiungendo che, «nonostante l’accumulo di elementi realisti e documentari, la resa finale è quella di un’atmosfera da incubo (…), con lo scopo di disorientare lo spettatore»14.
Due esempi di uso “onirico” dei raccordi di montaggio.
Non solo. A rendere altresì perturbante la visione di Blood Simple contribuiscono inquadrature fuori asse, riprese da punti di vista anomali e dettagli esasperati. In particolare, l’utilizzo del dettaglio conduce l’iperrealismo già frequentato da Martin Scorsese nel decennio precedente15 ad un punto di non ritorno. Inquadrature di pesci morti, accendini, pistole, stivaletti, ecc., ingranditi a dismisura sullo schermo, “eccitano” continuamente la visione spettatoriale, a scapito del senso che questi dettagli possano avere realmente all’interno dell’economia del film. Il mac guffin hitchcockiano è sempre dietro l’angolo.
Prospettive eccentriche e “impossibili” in Blood Simple.
Alcuni dettagli nel film. Nella seconda immagine vediamo (solo noi spettatori) l’accendino dimenticato da Visser sul luogo del delitto. Si tratta di un elemento depistante: nessuno, a parte lo stesso detective, saprà mai che l’accendino col suo nome inciso è rimasto sul luogo del delitto.
Ma è ancora sul buio, sull’oscurità, che vogliamo insistere. Perché Blood Simple, come ha notato sempre Buccheri, compie un’altra infrazione ai cliché del genere. Non è il buio ma «la luce [che] porta sempre con sé il pericolo, la morte, l’illusione e la mistificazione.»16 La luce, nel film, è quella del flash delle foto compromettenti scattate da Visser, che il detective modificherà per ingannare Julian. La luce è portatrice di morte: Ray chiede ad Abby di spegnere la luce in modo tale da nascondersi alla vista del detective, che, posto sul tetto del palazzo di fronte al loro, li sta mirando con un fucile di precisione (come non pensare, ovviamente, ad un riferimento alla Finestra sul cortile [Rear Window, 1954] di Hitchcock). Oppure al finale, tesissimo, della lotta all’ultimo sangue tra Abby e Visser, con i fasci di luce che scaturiscono dai fori sul muro, oltrepassando l’oscurità in cui si nasconde la donna.
La luce, in Blood Simple, è fonte di pericolo.
Quest’ultima sequenza, che per altro è stata la prima del film ideata da Joel ed Ethan Coen, segna un definitivo sconfinamento di generi. È noir, è western, è horror (genere già incontrato in numerose sequenze precedenti, come quella della “sepoltura prematura” di Julian). Ma è anche un cartoon alla Tex Avery – ricordiamo che Joel Coen è stato assistente di Sam Raimi, un altro regista che farà della contaminazione tra cartoon e cinema dal vivo una delle sue prerogative (Pronti a morire [The Quick and the Dead, 1995)]. Nel postmoderno coeniano, i generi collassano definitivamente fra loro.
La sepoltura del marito, ancora in vita, è sicuramente uno dei momenti “horror” del film.
Sopra, la mano di Visser mentre cerca Abby nascosta in una stanza adiacente; sotto, una scena da A Wild Hare [id., 1941] di Tex Avery, il primo film con protagonista assoluto Bugs Bunny. Il tema dello scontro senza esclusione di colpi è un classico del cartoon averiano. Per un maggiore approfondimento, cfr. con l’articolo presente sul nostro sito, dedicato al grande animatore texano.
«Il film noir è un film di morte, in tutti i sensi possibili», scrivevano Borde, Chaumeton17. È forse questa la direttiva principale di Blood Simple, un film in cui il sangue scorre “facile”; in cui i morti ritornano e i vivi sembrano morti. «Una tragedia di fantasmi»18, l’aveva definita Buccheri, e non possiamo che essere d’accordo.
Il cinema degli anni Ottanta segna un definitivo passaggio dall'(iper)realimo dei Settanta verso un mondo di superfici, di fantasmi, di irrealtà. In questo, ci sembra che Blood Simple stabilisca una tappa fondamentale per questo percorso. Oltre, ovviamente, a segnare l’inizio di una delle carriere più interessanti nate nella “nuova” Hollywood: un periodo che guarda al passato con nostalgia e una punta di malizia. Perché, come dimostra anche il recente Ave, Cesare! [Hail, Caesar!, 2016], i fratelli Coen, a quei sogni e a quei miti di un passato cinematografico ormai alle spalle, proprio non vogliono rinunciare.
NOTE
1. Si veda in particolare: V. Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro Cinema, Milano, 1999; F. Marineo, Il cinema dei Coen, Falsopiano, Alessandria, 1999; G. Manzoli, Joel e Ethan Coen, Marsilio, Venezia, 2013.
2. Il noir resterà uno dei loro modelli di riferimento principali, sia quando verrà dissimulato in farsa, come ne Il grande Lebowski [The Big Lebowski, 1998], sia quando verrà affrontato di petto, come nel caso de L’uomo che non c’era [The Man Who Wasn’t There, 2001].
3. Cfr. M. De Benedictis, Il cinema americano. Dalle origini ai giorni nostri, Newton & Compton, Roma, 2005.
4. V. Buccheri, Op. cit., p. 14.
5. Ivi., 15.
6. V. Buccheri, Note sul cinema della fine. Dal Tramonto all’alba. Vecchie ideologie e nuovi media, tra musica e video, in V. Buccheri, La scienza del sogno. Saggi critici 1992-2009, Il Castoro Cinema, Milano, 2010.
7. R. Venturelli, L’età del noir. Ombre, incubi e delitti nel cinema americano, 1940-1960, Einaudi, Torino, 2007, p. 56.
8. Cfr. G. Carluccio, Il contesto postmoderno: il caso «Blood Simple», in (a cura di) G. Alonge, G. Carluccio, Il cinema americano contemporaneo, Laterza, Bari, 2015.
9. R. Menarini, Il cinema dopo il cinema. Dieci idee sul cinema americano 2001-2010, Le Mani, Genova, 2010, p. 43.
10. R. Vaccino, Tornando indietro da Fargo. Ovvero: come si arriva a certe conclusioni, in “Garage”, n. 9, 1997, p. 21.
11. G. Carluccio, Op. cit..
12. «I Coen, a quel punto del loro raffinato gioco cinematografico, hanno già messo in crisi l’occhio dello spettatore e la sua certezza percettiva. I personaggi sono stati abbondantemente lasciati in balìa degli eventi, mentre lo sguardo di chi sta al di qua dello schermo comincia ad inseguire con difficoltà la giungla di accenni e raccordi che i Coen intensificano e deviano, spostando la loro presenza dalle parti (solo come coincidenza della messa in scena) di quell’improvvisato demiurgo della visione che è Visser. Lo spettatore, che sa come sono andate le cose al chiuso del bar prima, e ai bordi di una strada dopo, comincia a dubitare di credere (soltanto credere) di sapere. Arriva pronto il risveglio della donna, la certificazione del sogno appena concluso, il recupero di credibilità di ciò che si è visto fino a quel momento. I Coen tengono sempre molto presente la funzione scopica dei loro complici, arrivando a tracciare un labirinto dello sguardo che si combina intorno al continuo mancare di appigli visivi ai protagonisti. La trasformazione che avviene nello spettatore comporta una cancellazione totale di qualsiasi immedesimazione con uno dei personaggi (difficile parteggiare per qualche resto umano in un Texas così sporco e appiccicoso), e la totale identificazione con lo sguardo onnisciente della regia, della sceneggiatura che controlla con grande mestiere ogni passaggio e tutti i rapporti con la memoria del noir stesso.» F. Marineo, Op. cit., pp. 29-30.
13. S. Braunschweig, Cahiers du Cinéma, 1985, ora in (a cura di) F. Suriano, Joel e Ethan Coen, Dino Audino Editore, Roma, 1994.
14. R. Borde, E. Chaumeton, A Panorama of American Film Noir 1941-1953, City Light Books, San Francisco, 2002, pp. 11-12.
15. Cfr. F. La Polla, Il nuovo cinema americano (1967-1975), Marsilio Editori, Venezia, 1985.
16. V. Buccheri, Op. cit., p. 28.
17. R. Borde, E. Chaumeton, Op. cit., p. 5.
18. V. Buccheri, Op. cit., p. 30.