Da Interstellar a Tenet, da Memento a Inception i film di Christopher Nolan sono pieni di paradossi. Paradossi spaziali, paradossi temporali o paradossi narrativi. Ne esiste però uno ulteriore, che avvolge la figura e la carriera del regista di The Prestige: quello di un cineasta londinese diventato uno dei più celebrati autori del cinema americano contemporaneo. Va detto che, rispetto ai pochi autori realmente prodotti dal cinema americano negli ultimi trent’anni (Paul Thomas Anderson, David Fincher, James Gray, Wes Anderson e una manciata d’altri), Nolan è imparagonabile per ambizioni filosofiche, magniloquenza tecnica e, quindi, inevitabile compromissione con lo studio system. Motivo per cui i suoi film, a torto o a ragione, hanno col tempo suscitato un malcontento sempre maggiore tra i cinefili più oltranzisti, indispettiti dalle concessioni al gusto dello spettacolo, dalle contorsioni del racconto spesso ai limiti dell’incoerenza o dalla necessità di offrire una stampella didattica al puro flusso visivo d’immagini e suoni (eccezion fatta, forse, per Dunkirk). Se però Nolan fatica a conquistarsi, nel cuore di appassionati e addetti ai lavori, un posto inespugnabile nel pantheon del cinema contemporaneo è per un altro motivo che investe anche il senso di questo articolo. Il cinema nolaniano, infatti, sembra dominato da un campo di forze, applicate ai suoi estremi, che non si riuniscono mai in un ordine prestabilito. Soprattutto sul piano visivo: una singola inquadratura di Nolan è per sua natura imprendibile, difficilmente isolabile perché acquisisce senso solo dai legami simbolici e strutturali che instaura con tutte le altre (motivo per cui ogni abusato paragone con Stanley Kubrick dovrebbe decadere immediatamente). Per questo, quello di Nolan è un cinema che sembra quasi a-formale, dove il coagulo di continue tensioni non si consolida o si aggrega, per l’appunto, in una forma rigorosa. La sfida raccolta in questa sede, in fondo, parte da qui: cercare di isolare un singolo frame tra le perturbazioni metastabili della filmografia dell’autore (limitatamente ai suoi lungometraggi da Following a Oppenheimer) significa forse dimostrare, per via indiretta, che è possibile ritagliarvi un senso anche all’interno di ogni singola immagine. (Alberto Libera)

 

 

Following [id., 1998]

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Una scatola con i ricordi delle persone: è questo l’oggetto più prezioso che si possa trovare nell’appartamento di uno sconosciuto. Che sia una scatola di legno intarsiata (come quella nel fotogramma scelto) o una normale scatola da scarpe, all’interno vi si può trovare di tutto: «candeline del compleanno, lettere, foto-ricordo, conchiglie… Una sorta di collezione inconscia. Una mostra.» Così filosofeggia, ad un certo punto del film, l’arrogante Cobb (Alex Haw) rivolgendosi al giovane protagonista senza nome di Following interpretato da Jeremy Theobald. I due infatti, dopo essersi conosciuti per caso tra le vie di una città inglese durante i pedinamenti di quest’ultimo uno scapestrato aspirante scrittore in bolletta , iniziano a introdursi furtivamente negli appartamenti incustoditi della città, rovistando tra gli affetti personali delle persone. Un’attività che avrà presto, per il «giovane ragazzo», conseguenze molto pericolose. Al lungometraggio d’esordio, Christopher Nolan recupera l’economia e l’inventiva tipica del cinema noir degli anni Quaranta e Cinquanta (un genere divenuto famoso anche per il risparmio di mezzi adottato), riprendendone alcune sue figure archetipiche (come lo sprovveduto in balìa del destino e la spietata dark lady, chiamata per l’occasione semplicemente “la bionda” [Lucy Russell]), e frammentando la narrazione in un reticolo di flashback e flashfoward nella tradizione che fa seguito a Rapina a mano armata [The Killing, 1956] di Stanley Kubrick. Ma è attraverso l’uso degli oggetti più disparati (fotografie, locandine, compact disc, manichini, ecc.) disposti in spazi incredibilmente spogli e asettici (ripresi per di più in un mesmerico biano e nero) che il film si tinge di aspetti propriamente onirici. Soprattutto, è nell’elemento fondamentale della “scatola dei ricordi” con cui si apre il film, e che contiene al suo interno le parti più intime delle persone, che Nolan inizia a definire alcuni aspetti della sua poetica. Proprio come in Inception, infatti, Following adotta (seppur in maniera ancora embrionale) una struttura narrativa a «scatole cinesi»: l’intrusione nella vita altrui avviene non tanto con il varco di una soglia fisica quanto con l’intrusione nei ricordi delle persone, che si manifestano negli oggetti che i due delinquentelli si divertono a rubare o a cambiare di posto (come fa Cobb nome che ritornerà in Inception con uno dei due orecchini della bionda). La scatola diventa così il contenitore ideale di una memoria manipolabile; un oggetto che sembra sì provenire direttamente dall’universo noir di cui accennavamo più sopra (potrebbe essere la valigetta di Un bacio e una pistola [Kiss Me Deadly, Robert Aldrich, 1955], o quella del capolavoro hustoniano Il tesoro della Sierra Madre [The Treasure of the Sierra Madre, John Huston,1948]), ma che al contempo apre a una nuova idea di cinema. Con Following dunque, Nolan, rielaborando il noir con un vertiginoso intreccio che di lì a poco perfezionerà in Memento, dissemina tutta una serie di ossessioni che ritorneranno nel suo cinema a venire. (Nicolò Vigna)

 

 

Memento [id., 2000]

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In occasione dell’uscita nelle sale statunitensi di Oppenheimer, non poteva mancare una discussione online sulla presunta carenza di personaggi femminili di rilievo nel cinema di Christopher Nolan. Su Twitter, una docente di storia ha cinguettato: «Una curiosità: nessuna donna parla nei primi 20 minuti di Oppenheimer, e poi, quando succede, tempo un minuto ed ecco una scena di sesso». Se si è abbastanza coraggiosi da cercareNolan sexism” su Google, si scopriranno numerosi articoli dedicati al tema. I titoli sono indicativi: «Tenet dimostra che Nolan non sa scrivere personaggi femminili», «Nolan disprezza le sue donne?», «Rappresentazione di genere e sessismo nei film di Nolan». In particolare, Nolan è stato accusato di fare eccessivo ricorso al fridging, un espediente narrativo che consiste nell’utilizzare la morte di un personaggio femminile al solo scopo di avviare una storia di vendetta al maschile. Tutte queste accuse – dal fridging all’incapacità di scrivere personaggi femminili di rilievo – sono state rivolte anche al secondo lungometraggio di Nolan, il neo-noir Memento. Prendiamo Natalie, il primo personaggio femminile ad apparire nel film. Interpretata da Carrie-Anne Moss, reduce dal successo globale di Matrix [The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 1999] e, probabilmente, al picco della carriera, Natalie entra in scena dopo ben 16 minuti. Per un film come Memento, così legato alle convenzioni del noir, la presentazione di Natalie, la femme fatale, dovrebbe rappresentare un momento chiave. La scena, invece, si struttura così: il protagonista di Memento, Lenny (Guy Pearce), entra in un diner per parlare con Natalie; si guarda intorno, ma non la riconosce. L’uomo, sappiamo, è affetto da un disturbo della memoria per i fatti recenti (amnesia anterograda); non è in grado di ricordare ciò che è avvenuto anche solo pochi minuti prima. Nolan ci fa vivere gli eventi del film attraverso i suoi occhi. Nel fotogramma qui sopra, Natalie si trova nel lato destro dell’inquadratura. Non c’è gioco di luci e ombre che ne sottolinei la presenza. Nessun primo piano che ne esalti la pericolosa sensualità. Se non fosse l’unica nel diner a indossare degli occhiali da sole, probabilmente non faremmo neppure caso alla sua presenza. Questa presentazione così dimessa della femme fatale può essere scambiato per disinteresse da parte di Nolan, ma serve a indurci in inganno. Come Lenny, siamo convinti che Natalie voglia aiutarlo. In realtà, lo scopriremo nel corso del film, Natalie lo vuole fregare. Eppure, il suo personaggio resta sullo sfondo, sfocato, un po’ come quello della moglie di Lenny, Catherine (Jorja Fox), la cui morte è alla base della tragica storia di vendetta di Memento, quasi ad avvalorare la tesi di coloro che reputano Nolan incapace di scrivere personaggi femminili. Ma il fascino di Memento è che Nolan piega tutto, anche un momento chiave del genere neo-noir, alla soggettività in crisi di Lenny. E, nel farlo, esplicita che le immagini che vediamo – immagini delle donne in primis – non sono necessariamente oggettive; che l’eroe maschile potrebbe non essere quel che sembra. Del resto, le foto polaroid che Lenny porta con sé rappresentano i tasselli di un puzzle che, si scoprirà, nascondono di proposito una parte della verità. Facciamo una scoperta simile alla fine di Inception, quando Cobb (Leonardo DiCaprio) congeda la proiezione della moglie (Marion Cotillard) con queste parole: «Non sono riuscito a immaginarti in tutta la tua complessità, la tua perfezione, i tuoi difetti. Guardati. Non sei che un’ombra di quella che era realmente mia moglie. E sei stato il meglio che potessi fare… Ma non è abbastanza.» Gli uomini, nel cinema di Nolan, vedono le donne a modo loro, ne riducono, spesso di proposito, la complessità. Ma questo non vuol dire che siano private di agency. Come scopriremo nel finale di Memento, la moglie di Lenny non è una vittima da vendicare. (Lorenzo Baldassari)

 

Insomnia [id., 2002]

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Giunto nella remota località di Nightmute, in Alaska, il detective Will Dormer (Al Pacino) deve indagare sull’assassinio di un’adolescente. Il caso, però, si presenta più complesso del previsto, vuoi perché l’assassino è lo scrittore di mezz’età Walter Finch (Robin Williams) che sembra essere sempre un passo avanti a tutti, vuoi (soprattutto) perché Nightmute vive immersa in una condizione di luce perenne. Così, per via dell’atmosfera, giorno e notte si confondono, il sonno fatica a subentrare alla veglia e i contorni delle cose sono sempre nitidi se non quando la foschia imprime il suo tetro sigillo sul paesaggio. Come si vede dal frame prescelto, l’operazione che Dormer deve compiere per combattere l’insonnia e preservare la sua sanità mentale è oscurare le finestre e schermare la luce. In altre parole, riprendere possesso del buio. Proprio come Bruce Wayne nella successiva trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro. Si tratta di un passo fondamentale, in ogni caso: distinguere la luce dal buio è necessario a Dormer per fare chiarezza dentro e fuori di sé. Attraverso questo gesto, è infatti possibile sciogliere l’ambiguità e il caos morale, imparare a riconoscere la giustizia dal rimorso, separare i fatti dalle interpretazioni e sbrogliare la matassa di un cupo groviglio interiore. Nel film, Will spara (per sbaglio?) al corrotto collega e amico Eckhart (Martin Donovan), stringe un’equivoca alleanza con Finch, rischia d’incriminare un innocente e nasconde le tracce delle sue azioni delittuose che però non sfuggono alla giovane collega Ellie (Hilary Swank): unicamente ripristinando le normale coordinate percettive, sarà in grado di tornare finalmente a vedere chiaramente. Insomnia non è solo il primo e finora unico remake diretto da Nolan (l’originale è l’omonimo film norvegese Insomnia [id., Erik Skjoldbjærg, 1997]) ma, come Memento, è un noir che, in maniera più sfumata, riscrive le coordinate del genere. Là attraverso il filtro dell’amnesia e della scomposizione delle coordinate temporali, qui eliminandone la componente fondativa: il buio. (Alberto Libera)

 

Batman Begins [id., 2005]

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«Ciò che mi ha affascinato è il fatto che ha perso entrambi i genitori in giovane età», ha detto Christopher Nolan a proposito del magnate Howard Hughes, sulla cui figura scrisse una sceneggiatura mai filmata per via della contemporanea uscita di The Aviator [id., Martin Scorsese, 2004]. Contattato dalla Warner, il regista ripiega così su un progetto che vede al centro un’altra figura di miliardario orfano: Bruce Wayne. Batman Begins, come i successivi Il cavaliere oscuro e Il cavaliere oscuro – Il ritorno, attua uno slittamento significativo nell’ambito della rappresentazione del personaggio creato da Bob Kane: è infatti un film su Bruce Wayne e sulla sua ricerca di un’identità definita al di là del costume e del mantello di Batman.«Questa è la tua maschera», dice non a caso Rachel Dawes (Katie Holmes) accarezzando il volto di Bruce Wayne (Christian Bale) nella scena da cui proviene il frame selezionato. Se Batman è una figura simbolica che cancella i propri connotati per eliminare ogni forma di soggettività (Batman possono essere tutti, postulerà Nolan ne Il cavaliere oscuro), Bruce Wayne vive un tumulto interiore che, procurato ab orgine dall’omicidio dei genitori e dalla caduta in un pozzo pieno di pipistrelli in giovane età, lo porta a stringere un inconsapevole patto faustiano con l’ecoterrorista Ra’s al Ghul (Liam Neeson) – e non è un caso che la morte dei genitori non avvenga fuori da un cinema, come vuole la mitologia del supereroe, ma durante una pausa di una rappresentazione del Mefistofele di Arrigo Boito – e a trovarsi senza un vero e proprio baricentro geografico e morale. Eccezion fatta per Gotham City, prolungamento della personalità schizoide di Wayne, che Nolan rappresenta distaccandosi radicalmente dal gotico postmoderno del Batman [id., 1989] di Tim Burton e trasforma in una metropoli modernista e post-razionalista dove il cielo e la terra sembrano essere completamente separati. Una città di superfici lisce, di acciaio vetro e cemento, piena di riflessi che, con geniale metafora visiva, testimoniano l’impossibilità d’integrarsi nel contesto urbano. (Alberto Libera)

 

The Prestige [id., 2006]

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Tratto dall’omonimo romanzo di Christopher Priest e sceneggiato insieme al fratello Jonathan, The Prestige è il più “dicotomico” dei film di Christopher Nolan. Più di qualsiasi altro, infatti, si fonda sul rapporto duale e conflittuale come meccanismo generatore di senso. E ciò a vari livelli. Innanzitutto, nell’universo del racconto, dove incontriamo gemelli, sosia e cloni, mentre i protagonisti, i due illusionisti Alfred Borden (Christian Bale) e Robert Angier (Hugh Jackman), si affrontano in un crescendo di sabotaggi reciproci e numeri via via più rischiosi per la loro incolumità. Ma anche su un piano più profondo e dunque astratto, in cui ritroviamo alcune opposizioni fondamentali: essere e sembrare, realtà e illusione, esistenza e rappresentazione. Proprio quest’ultima contrapposizione ci permette di interpretare l’intera opera come una metafora del cinema – il che la avvicina al successivo lavoro del regista, Inception –, e fa dei personaggi chiave i rappresentanti di due diverse concezioni dell’arte cinematografica: da un lato c’è Borden, che punta ad affascinare il pubblico, a irretirlo, facendo sfoggio della propria superiorità intellettuale; dall’altro Angier, il quale è più interessato a suscitare meraviglia e stupore, aspirando al piacere estetico e a un incanto condiviso con i suoi spettatori. Eppure, se queste dicotomie risultano fondamentali per l’economia del racconto ce n’è però un’altra, in apparenza meno rilevante, che si rivela invece decisiva: quella tra magia e tecnologia. Non a caso l’unica destinata a risolversi. La fantascientifica macchina per il teletrasporto inventata da Nikola Tesla (David Bowie) permetterà infine ad Angier di soddisfare la sua ossessione e di primeggiare nella gara con il rivale, ma il funzionamento del dispositivo comporterà un costo mostruosamente alto per lui e altrettanto perturbante per noi. Prima però che il segreto ultimo venga svelato, c’è un passaggio in cui ciò che vediamo e proviamo coincide con ciò che vede e prova Angier. Un fotogramma, quello selezionato, in cui osserviamo spiazzati e confusi una distesa di cilindri neri, del tutto uguali al copricapo usato dall’inventore per i suoi esperimenti, fino ad allora apparentemente infruttuosi. Un frangente in cui non possiamo non dubitare della distinzione tra ars tecnica e ars magica, arrivando a sospettare che anche la (fanta)scienza, in fondo, sia un trucco. Un dubbio tanto ancestrale quanto attuale. (Antonio Laurino)

 

Il cavaliere oscuro [The Dark Knight, 2008]

Il 2008 è un anno fondamentale per il sottogenere (o – per meglio dire – transgenere) supereroico. Escono infatti Iron Man [id., Jon Favreau] e Il cavaliere oscuro. Il primo inaugura il fortunato Marvel Cinematic Universe, proponendo contemporaneamente un’idea di blockbuster integrato in un ramificato ecosistema mitopoietico transmediale e una tipologia di spettacolo più baracconesca e disimpegnata; il secondo, fedele alla tradizione degli adattamenti cinematografici della DC Comics, diventa l’epitome dell’action movie supereroico engagé e auteuriste. Fin dall’incipit, con una virtuosa scena di rapina da heist movie classico, Nolan mostra l’influenza esercitata su di lui da Michael Mann in termini di orchestrazione del visibile, frammentazione degli spazi e scansione del ritmo interno alla sequenza. Per contro, il gigantismo della messa in scena e i fulvi bagliori epici del racconto aderiscono anzitutto al magistero del grande David Lean. A proiettare, però, il film (e il genere) nell’alveo del blockbuster «adulto» è la figura del Joker (Heath Ledger, prematuramente morto poco dopo le riprese). Personaggio letteralmente fuori da ogni schema, creatura extra-morale (la sua prima battuta è una citazione di Nietzsche), Joker è personificazione dell’irriducibile ambiguità dell’agire umano sospeso tra compassione e spirito di sopravvivenza, individualismo assolutorio e senso della giustizia. Proprio per questo, non ha né un’origine né una storia, tant’è che racconta due versioni completamente differenti relative alla causa delle cicatrici che gli sfigurano il volto in un angosciante sorriso di morte. Nella prima, rivolgendosi a Rachel Dawes (ruolo che passa qui a Maggie Gyllenhaal) attribuisce la colpa a una fantomatica ex-moglie (la scena del frame scelto); nella seconda, poco prima di uccidere il criminale Gambol (Michael Jai White), ne addossa la responsabilità al padre. Certo, anche nel celebre Batman: The Killing Joke di Alan Moore (testi) e Brian Bolland (disegni) la verità sulla genesi del più celebre supercriminale di Gotham rimaneva avvolta nel regime dell’indecidibilità. Qui, però, Joker perde ogni connotazione tragica per assumere una statura ancor più tetra e perturbante: la sua sconfitta avverrà– come ha scritto Gianni Canova – quando a sorpresa i cittadini di Gotham affronteranno la sua trappola mor(t)ale «con maturità e con il senso faticoso ma necessario della convivenza civile». (Alberto Libera)

 

Inception [id., 2010]

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A proposito del “Barbienheimer” un termine nato sui social per descrivere l’evento cinematografico di questo luglio 2023, ovvero l’uscita in contemporanea nei cinema statunitensi di Barbie [id., 2023] e Oppenheimer –, un articolo del The Economist ha confrontato i film di Greta Gerwig e di Christopher Nolan utilizzando due parole chiave: escapismo” per Barbie e realismo” per Oppenheimer. Tuttavia, l’articolo del The Economist non approfondisce il significato di queste due parole nel contesto dei due film, che sembra dipendere principalmente dal loro soggetto: la Seconda Guerra Mondiale per Nolan, la bambola Mattel per Gerwig. Eppure, nonostante Nolan abbia girato, nel corso della carriera, film di fantascienza e di supereroi, l’etichetta di autore ossessionato dal realismo non rappresenta una novità per il regista de Il cavaliere oscuro. Come spiegato da David Bordwell e Kristin Thompson in una serie di articoli sul loro blog, il cinema di Nolan, in particolare nell’heist movie Inception, fa leva sul realismo e sulle convenzioni di genere per costruire puzzle movie che si spingono, per complessità, verso territori inesplorati nel cinema mainstream hollywoodiano. Questo approccio ha creato una piccola – ma rumorosa – schiera di detrattori. Quanti cinéphile si sono lamentati dell’eccessivo ricorso a “spiegoni” da parte di Nolan in Inception – un film sui sogni e, quindi, nell’immaginario cinefilo, un film che avrebbe dovuto essere necessariamente surrealista, o comunque refrattario in qualche misura alla logica –, contrapponendogli Paprika – Sognando un sogno [Paprika, Satoshi Kon, 2006] o, addirittura, il cinema di David Lynch? E quante volte la complessità narrativa di Inception è stata bollata come pretenziosa, una posa autoriale fine a se stessa? Insomma, al Nolan di Inception (e non solo) è stato rimproverato di non essere abbastanza autore (David Denby sul New Yorker ha addirittura confrontato le sequenze oniriche di Inception con quelle di Bella di giorno [Belle de Jour, Luis Buñuel, 1967]) o di esserlo sin troppo (per cui Inception sarebbe uno “007 per nerd”). Tuttavia, spesso si dimentica che la sfida principale che pone Inception – e gran parte del cinema di Nolan – riguarda la costruzione di strutture narrative complesse e labirintiche nel contesto del cinema mainstream hollywoodiano – un contesto che si è sempre basato su tre principi fondamentali: motivazione, chiarezza e drammatizzazione. Insomma, il desiderio di Nolan è quello di fare film dal sapore quasi sperimentale che siano, per usare le parole di Roberto Manassero su Cineforum, «perfettamente classici». Inception a questo riguardo è un esempio illuminante. Negli heist movie, un ruolo chiave è svolto dalle cosiddette “scene di esposizione” (“exposition scenes”), in cui i protagonisti preparano al meglio lo spettatore su come si dovrà svolgere l’intero colpo. Per quanto importanti, queste scene sono solitamente abbastanza brevi. Nolan, invece, impiega gran parte del minutaggio dei suoi film per mostrarci i suoi personaggi mentre “spiegano” le regole di ciò che vedremo – nel caso di Inception, un “colpo” che si sviluppa attraverso vari livelli onirici. E lo fa spettacolarizzando queste esposizioni. Si tratta di una delle principali preoccupazioni di Nolan, da sempre affascinato dalla possibilità di calare un’idea astratta di struttura in sequenze altamente spettacolari. La scena chiave di Inception, in questo senso, è una lunga esposizione che vede Ariadne (Elliot Page) e Cobb (Leonardo DiCaprio) all’interno di un sogno dell’uomo, che si svolge a Parigi. Cobb ha reclutato Ariadne come “architetto” del suo team: dovrà costruire i mondi all’interno dei sogni. Nella scena del fotogramma selezionato, Cobb le sta spiegando come funziona il suo lavoro. Incoraggiata dal suo mentore, Ariadne inizia a trasformare con la forza della mente il paesaggio architettonico della Parigi circostante. Una fila di case si solleva verso il cielo per poi ripiegarsi, dando vita a un paesaggio metropolitano escheriano. Si tratta di una scena spettacolare, più di molte altre scene d’azione di Inception. Ma si tratta anche di una scena che ha un compito ben preciso: motivare e chiarire ciò che vedremo nel corso del film. (Lorenzo Baldassari)

 

Il cavaliere oscuro – Il ritorno [The Dark Knight Rises, 2012]

Dopo aver posto Gotham City sotto lo scacco della minaccia nucleare, Bane (Tom Hardy) instaura un vero e proprio Regime del Terrore. E proprio come Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica ai tempi della Rivoluzione francese, organizza processi sommari allo scopo di condannare gli oppositori e i «controrivoluzionari», trasferendo tuttavia il potere esecutivo nelle mani dello Spaventapasseri (Cillian Murphy, uno dei tanti attori-feticcio di Nolan), come in campo lungo mostra il frame preso in esame. Servirà ovviamente l’intervento provvidenziale di Bruce Wayne/Batman (Christian Bale), aiutato dal fidato commissario Gordon (Gary Oldman), dal braccio destro Lucius Fox (Morgan Freeman), dal futuro Robin (Joseph Gordon-Levitt) e dalla sfuggente Catwoman (Anne Hathawaty), per provvedere alla Restaurazione. Manovrato nell’ombra dall’enigmatica Miranda Tate/Talia al Ghul (Marion Cotillard), Bane racchiude in sé molte della caratteristiche del coevo idealismo progressista (tanto che sequestra i broker della borsa di Gotham in una sorta di reenactment di Occupy Wall Street e si libera della corrotta e ricchissima imprenditoria cittadina) ma non riesce a canalizzare il suo desiderio di ribellione in autentico spirito rivoluzionario, finendo per rimanere prigioniero di una furiosa radicalizzazione violenta che lo trasforma in un terrorista. Da questo punto di vista, Il cavaliere oscuro – Il ritorno è un film decisamente importante per come trasporti alcune delle principali istanze sociopolitiche dei primi anni Duemila all’interno di quella tensione millenaristica che ha caratterizzato il cinema a cavallo dei primi due decenni degli anni Duemila. Così, il percorso del protagonista Bruce Wayne, che rinasce nell’antro sotterraneo di una prigione di pietra (una seconda Batcaverna), si trasforma in un solenne auspicio di palingenesi universale. Certo, Nolan non scioglie le ambiguità e per questo lascia un finale aperto un po’ cerchiobottista; ma schiude definitivamente quella via al blockbuster supereroico contemporaneamente colto e spettacolare, classico e moderno, magniloquente e citazionista che forse è stata seguita compiutamente solo dal recente The Batman [id., Matt Reeves, 2022]. (Alberto Libera)

 

Interstellar [id., 2014]

Alla base di Intersellar ci sono le riflessioni contenute nel Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società di Thomas Malthus. Secondo Malthus, la crescita esponenziale della popolazione è assai più veloce dell’incremento lineare delle risorse. Una discrepanza che comporta l’inevitabile riduzione progressiva della superficie coltivabile e la diminuzione della produttività delle terre. L’esplorazione dello spazio, nel film, non è solo un mezzo per superare i limiti della conoscenza né la riformulazione del mito dei pionieri e della frontiera, ma è anche l’unico mezzo possibile per salvare la Terra e il genere umano. È uno dei tanti paradossi o, più precisamente, dei paradigmi contraddittori che convivono in Interstellar. Che è contemporaneamente un film di fantascienza, una parabola ecologica, una «ghost story» (Nolan dixit) raccontata con uno stile paradocumentario che ambisce a rendere visibili i concetti astratti della fisica e della matematica (la prima foto di un buco nero è del 2019 e mostra un oggetto astronomico sorprendentemente simile a quello rappresentato nel film), una riflessione sul rapporto tra genitori e figli (un’influenza decisiva sul copione è stata esercitata dalla sopraggiunta paternità del regista) e una cosmogonia al contrario (sta alla filmografia di Nolan come The Tree of Life [id., 2011] a quella di Malick, al di là della disparità di valore). A legare tutto in un unico abbraccio, come mostra il fotogramma selezionato, è metaforicamente l’enorme pianeta d’acqua su cui atterra il protagonista Cooper (Matthew McConaughey) all’inizio del suo viaggio. Condizionato dall’enorme campo gravitazionale del buco nero, il tempo su quel pianeta scorre molto più lentamente (un’ora equivale a circa sette anni terrestri) mentre l’acqua circonda tutti come simbolo di maternità e rinascita. Così, una volta tornati a bordo dell’astronave Endurance, Cooper e la scienziata Amelia Brand (Anne Hathaway) impareranno a rimettere tutto in prospettiva, dai legami affettivi alla natura del Tempo. (Alberto Libera)

 

Dunkirk [id., 2017]

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Il frame scelto raccoglie i tre elementi che connotano la partitura visiva di Dunkirk: la Terra, l’Acqua e l’Aria. A ciascuno di essi, si accompagna una vicenda che si protrae per un tempo differente: rispettivamente una settimana, un giorno e un’ora. Come il precedente Interstellar, Dunkirk è un film-saggio sulla percezione del Tempo in rapporto allo Spazio (là esteso all’infinito, qui compresso nell’orizzonte del porto di Dunkerque). Ma, allo stesso tempo, segna un unicum nella filmografia del regista perché, grazie anche al contributo di abituali collaboratori come il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema e del compositore Hans Zimmer, si articola come un cinepoema astratto che si discosta da buona parte della liturgia nolaniana. I dialoghi sono infatti ridotti all’osso (non ci sono i tanto abominati «spiegoni»), la durata è di soli 106’ (e va detto che poco prima Nolan aveva realizzato in solitaria il corto Quay [id., 2015]), il nemico è invisibile e la scomposizione del racconto non implica alcuna sofisticatezza bizantina. Il consueto titanico dispiegamento di mezzi (il costo è di circa 100 milioni di dollari), la meticolosa ricostruzione d’ambiente (torpediniere e dragamine sono quelli del periodo) e gli effetti speciali realizzati quasi sempre on camera per ridurre al minimo l’impatto della CGI convivono con il tentativo di trovare una purezza linguistica da cinema muto, dove la silenziosa lotta per la sopravvivenza delle truppe anglo-franco-belghe stanziate a Dunkerque si ammanta contemporaneamente della ricchezza tonale di un’acquaforte e della tensione aprospettica di un quadro dei Fauves. Curiosamente, Nolan ha raccontato quest’aneddoto a proposito del film:«Emma [Thomas, sua moglie e produttrice dei suoi film, NdA] e io abbiamo avuto una lunga discussione su Dunkirk una volta entrati in fase di post-produzione: lei pensava che fosse un’opera d’arte che fingeva di essere un film mainstream, mentre io penso che sia un film mainstream che finge di essere un’opera d’arte». False (?) modestie a parte, è una dichiarazione che contiene tutto il perimetro di contraddizioni entro cui si muove il cinema bigger than life dell’autore. (Alberto Libera)

 

Tenet [id., 2020]

tenet christopher nolan

Tra le soluzioni stilistiche più ricorrenti nel cinema di Christopher Nolan vi è il ricorso a formati dell’immagine differenti nel corso dello stesso film (il cosiddetto aspect ratio). Da Il cavaliere oscuro in poi, Nolan ha spesso usato nei suoi film formati diversi dell’immagine, alternandoli fra loro senza una precisa continuità. Caratteristica, questa, comune anche a una delle sue opere più ambiziose, Tenet, dove, all’uso combinato di pellicola e digitale, si unisce un’alternanza di formati video, che può differire ulteriormente se si visiona il film in sala oppure su Blu-ray (su IMDb sono segnalati addirittura cinque formati diversi, tra versioni per la sala e l’home-video). Come nota Connor Bynum recensendo il Blu-ray di Tenet, non tutti gli spettatori del film hanno potuto sperimentare le stesse conformazioni dell’immagine (il formato 1.43 : 1, ad esempio, è prerogativa per una sala IMAX, mentre su Blu-ray esso si traduce a un meno imponente 1.78 : 1). Ciò non toglie che lo stratificato lavoro di Nolan (e della montatrice Jennifer Lame) nel mettere insieme i pezzi di questo grandioso mosaico narrativo e visivo costituisce la sfida principale per la percezione dello spettatore. Nel frame scelto, il protagonista del film, dopo aver attraversato il «tornello temporale» e modificato la propria entropia, ha da poco appreso alcuni rudimenti per orientarsi in maniera «invertita» nel mondo esterno. Equipaggiato con una bombola d’ossigeno che gli consentirà di respirare normalmente, viene informato che, un volta all’esterno, tutto gli apparirà al contempo uguale e diverso, in quanto alcuni princìpi della fisica risulteranno capovolti. Il protagonista – e insieme a lui lo spettatore – è quindi preparato a un forte impatto sensoriale, che puntualmente Nolan orchestra grazie a una fitta rete di soluzioni filmiche e profilmiche che spaziano da riprese al contrario, alla modulazione del sonoro, all’uso della semi-soggettiva (come nel frame), nonché, appunto, alla modifica del formato dell’immagine (1.78), improvvisamente più grande del precedente (2.20). Se dunque il susseguirsi dei vari formati non è mai precisamente motivato da Nolan, risulta comunque necessario per stimolare ulteriormente i sensi dello spettatore con il suo avveniristico «cinema delle attrazioni». (Nicolò Vigna)

 

Oppenheimer [id., 2023]

Sin dal titolo originale, American Prometheus, la fluviale biografia di Oppenheimer scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin che ha ispirato il film di Nolan (edita in Italia da Garzanti col titolo Oppenheimer. Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica) mette in relazione il più controverso scienziato del Novecento (che nella trasposizione ha la voce leggermente arrochita e lo sguardo terso ed enigmatico di un monumentale Cillian Murphy) con colui che rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini. «Sei il Prometeo americano», gli dice infatti Leó Szilárd (Máté Haumann). L’iconografia del fuoco e delle fiamme, non a caso, è preponderante, come si evince dal fotogramma prescelto. Ma la figura di Prometeo non è solo incarnazione del progresso tecnico e della scoperta ma rappresenta anche un radicale cambiamento nel paradigma della conoscenza. È probabilmente l’aspetto che deve avere più interessato Nolan: dopo che Einstein (Tom Conti) rivoluzionò la concezione di spazio e tempo sottraendola al dominio della fisica classica newtoniana, la meccanica quantistica – che Oppenheimer per primo «esportò» negli Stati Uniti – mostrò come la luce e la materia posseggano una duplice e apparentemente paradossale natura di onda e particella (nel film, Oppemnheimer lo mostra compiaciuto al suo futuro protetto Giovanni Rossi Lomanitz [Josh Zuckerman] durante la sua prima lezione a Berkeley). Concetti come infinito, imponderabile ed eterno mutarono così per sempre la loro forma. Come aveva già dimostrato collaborando con il fisico teorico Kip Thorne in Interstellar e donando un ruolo centrale a uno scienziato chiaramente modellato sulla figura dello stesso Oppenheimer ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno, Nolan è da sempre stato attratto dal modo in cui il cosiddetto «paradigma fisicalista» ha modificato la realtà sia sul piano epistemologico che su quello ontologico. In altre parole, a come siano stati sconvolti tanto la natura profonda della «realtà» quanto gli strumenti necessari a conoscerla. Non solo, però. La figura di Oppenheimer permette al regista di presentare un’altra delle sue ossessione d’autore, già al centro di The Prestige: il desiderio di superare i limiti della conoscenza che si appaia invariabilmente all’istinto di morte. Questo perché la scienza e la tecnica sono strettamente interconnesse all’agire e alla volontà dell’uomo, alle sue volubilità e ai suoi ordinamenti. A tal proposito vengono in soccorso le parole di Giorgio Manganelli che, in uno scritto recentemente pubblicato da Adelphi nella raccolta Emigrazioni oniriche, sostiene: «La scienza è stata collocata, oggi, nel centro tattico della società; ma il centro strategico o teoretico è altrove […] la scienza non è oggi che lo strumento principe della politica; quel che rende a me lievemente ripugnanti le imprese spaziali, è la coscienza che si tratta di intraprese politico-militari, con qualche sinistro tocco ginnico; sulla luna metterà piede quanto prima un colonnello o un maggiore, gente che non migliora per cambiar di pianeta; e con la corsa successiva arriverà la polizia.» Lo mostra perfettamente la gogna mediatica-processuale, orchestrata dal machiavellico Lewis Strauss (Robert Downey Jr.), alla quale Oppenheimer dovette sottostare dopo la sua strenua opposizione allo sviluppo della bomba a idrogeno. Personaggio contraddittorio, mai del tutto sceso a patti con la sua identità di ebreo ma fiero propugnatore di quegli ideali laici, umanisti e secolari del progressismo etico ebraico-americano, dotato di una cultura enciclopedica ma anche di un istinto pragmatico che gli permise di assurgere a posizioni di controllo e comando che colleghi ancora più geniali di lui non avrebbero mai potuto occupare, Oppenheimer rimane per certi versi un mistero (quale impulso lo ha spinto a tentare di avvelenare il suo tutor [James D’Arcy] di Cambridge?), tanto più che il film può essere visto come una sorprendente rilettura di Quarto potere [Citizen Kane, Orson Welles, 1941] girata però dalla prospettiva di Charles Foster Kane. Eppure, più che la sua necessità di trincerarsi dietro la giustificazione dell’obbedienza agli ordini superiori o gli inevitabili rovelli etici sulla reale portata delle sue ricerche nell’ambito del Progetto Manhattan (che già erano al centro del più superficiale L’ombra di mille soli [Fat Man and Little Boy, Roland Joffé, 1989]), quello che la sua parabola mostra in maniera più esemplare, nell’ottica nolaniana, è che la scienza e la conoscenza non sono e non potranno mai essere neutre o imparziali ma sempre dipendenti dal fattore umano. (Alberto Libera)