Divenuto ben presto oggetto di culto, Memento [id., Christopher Nolan, 2000] mette in crisi il tradizionale contratto di cooperazione con lo spettatore e si presenta come un potente apparato esperienziale, volto a colmare lo iato tra dimensione empirica e mondo testuale.
Il film è incentrato sul personaggio di Leonard Shelby, un ex agente assicurativo che, durante un’aggressione nella quale sua moglie viene violentata e uccisa, subisce un colpo alla testa, riportando un grave disturbo della memoria a breve termine: da quel momento sarà in grado di ricordare tutto ciò che è avvenuto prima dell’incidente, ma non potrà assimilare nuovi ricordi per più di pochi minuti. Per condurre una vita “normale” Leonard è costretto a prendere una grande quantità di appunti, scattare foto per riconoscere i volti delle persone che incontra e tatuarsi le informazioni più preziose. Ciononostante, si impegna nella spasmodica ricerca dell’assassino di sua moglie, nonché suo aggressore, aiutato da Teddy, un eccentrico agente di polizia, e Natalie, una giovane cameriera.
L’articolazione del discorso
Già dopo una prima visione, per così dire ingenua, ci si rende conto di essere di fronte a un testo filmico che oppone una notevole resistenza alla sua interpretazione. Ciò è dovuto, in prima istanza, alla complessa strategia di messa in discorso che caratterizza il film e che opera uno stravolgimento dell’ordine degli eventi. I procedimenti compositivi messi in atto attraverso il montaggio, infatti, non si limitano alla creazione di un intreccio, seppur complesso, ma sembrano opporsi radicalmente a una strutturazione temporale delle azioni in modo conforme alle fasi previste da un racconto. Il film si compone di quarantaquattro sequenze suddivise in due linee narrative parallele e apparentemente indipendenti: su un primo binario (linea blu) le sequenze si susseguono in ordine inverso, in modo cioè che gli eventi narrati nella prima scaturiscano logicamente da ciò che viene mostrato nella seconda, quelli presentati nella seconda da quel che si vedrà nella terza e così via. Su un secondo binario (linea rossa), le sequenze proseguono, invece, in ordine cronologico. Il film avanza alternando le une alle altre, fino alla sequenza conclusiva, che di fatto funge da raccordo tra le due linee narrative e che apre definitivamente il testo a una sua coerente interpretazione da parte dello spettatore. È solo al termine della visione, infatti, che risulta chiaro come tutte le sequenze che procedono a ritroso scaturiscano logicamente da quelle presentate in ordine cronologico (linea curva rossa/blu) e come la scena d’apertura del film rappresenti in realtà l’epilogo della storia. Nel suo complesso, la struttura narrativa può essere così rappresentata:
Rappresentazione grafica della struttura narrativa del film.
Inoltre, a rendere ancor più articolato l’intreccio, ci sono numerosi inserti che si rivelano dei ricordi di Leonard precedenti l’aggressione. Basti pensare alle scene in cui intrattiene lunghe conversazioni telefoniche con un fantomatico poliziotto al quale racconta di come, anni prima, nelle vesti di agente assicurativo, avesse seguito il caso di Sammy Jankins, un uomo affetto dal suo stesso disturbo. Le sequenze in cui si assiste alle lunghe telefonate sono intervallate da scene che mostrano gli eventi narrati, in un continuo susseguirsi di inneschi e disinneschi di spazio e di tempo.
Altro elemento che caratterizza la complessa struttura testuale è l’esigua durata temporale dei singoli segmenti narrativi, che conferisce alla narrazione un ritmo incalzante: le sequenze che procedono a ritroso, infatti, hanno una durata media di circa tre minuti ciascuna, mentre quelle che procedono in ordine cronologico si attestano intorno ai cinquanta secondi.
Alla luce di tutto questo, la narrazione risulta estremamente frammentata, caratterizzata da un incessante cambiamento di coordinate spaziali e temporali e dalla totale assenza di indicazioni verbo-visive che possano in qualche modo far orientare il fruitore all’interno dell’orizzonte testuale. Il film, dunque, nel suo divenire, pone lo spettatore in un continuo stato di oscillazione tra un livello locale facilmente intellegibile e uno globale difficilmente ricostruibile. In altri termini, se per un verso le singole sequenze che compongono il testo si prestano alla creazione di mappe situazionali attraverso cui poter rendere conto «in forma sintetica degli sviluppi crono-topologici, pratici ed emotivi che hanno avuto luogo all’interno di una certa situazione»1, ciò che il testo rende estremamente complesso è la creazione di tracciati sequenziali. Questi, a differenza delle mappe situazionali, non servono a valutare l’andamento della situazione all’interno del momento presente in cui essa si svolge, ma consentono la collocazione di singoli episodi all’interno di una trama più ampia. Più precisamente, «permettono di collocare a posteriori certi episodi all’interno di una linea cronologica, di valutare le loro connessioni reciproche, di confrontare le vicende che si sono svolte a distanza»2. È in questa fase, dunque, che il testo oppone la sua maggiore resistenza al fare interpretativo del fruitore. D’altronde, l’impossibilità di collocare in una linea cronologica gli eventi produce un senso di smarrimento, incertezza e frustrazione. A ogni stacco di montaggio, lo spettatore è costretto a chiedersi dove si trovi e cosa stia accadendo, senza tuttavia avere sufficienti elementi per rispondere a queste domande, dal momento che ciò che giustifica quanto sta avvenendo in quell’istante sarà mostrato solo successivamente. L’obiettivo, dunque, sembra essere la destituzione, piuttosto che la costituzione, di un mondo testuale unitario e lineare, ed è interessante notare come ciò entri in risonanza con il piano narrativo, e in particolare con il deficit cognitivo che affligge il personaggio principale. Leonard, infatti, non essendo in grado di assimilare nuovi ricordi se non per pochi minuti, vive in un eterno hic et nunc e di fatto è costretto a chiedersi incessantemente dove sia e cosa stia facendo. Ecco che, lungi dall’essere una mera cifra stilistica, lo stravolgimento dell’ordine degli eventi operato attraverso il montaggio si rivela un espediente volto a ottenere un preciso effetto di senso: uno spaesamento del tutto simile a quello provato dal protagonista. Si è quindi in presenza di un’isotopia, ossia «la permanenza di un effetto di senso lungo la catena del discorso»3. Ma, a ben vedere, questa isotopia dello spaesamento si lega ad altre due isotopie che, in buona parte, la determinano: quella della frammentazione e quella della discontinuità. Entrambe attraversano tanto il piano del contenuto quanto quello dell’espressione e a loro volta rafforzano il tema di fondo di tutta l’opera: la memoria. In altre parole, l’impossibilità, sul piano del contenuto, di ricostruire la storia si riflette, a livello dell’espressione, in una persistente ambiguità spazio-temporale, per sciogliere la quale lo spettatore è costretto a un costante ed estenuante lavoro mnemonico. Per disambiguare sufficientemente il testo, infatti, occorrerebbe idealmente memorizzare il gran numero di segmenti narrativi, per ricomporli poi a posteriori; operazione che appare difficilmente attuabile, soprattutto a una prima fruizione del film.
La configurazione plastica
Un contributo allo sforzo interpretativo che il film richiede allo spettatore viene fornito dal livello plastico del testo4, attraverso l’utilizzo di categorie cromatiche differenti per le due distinte linee narrative: le scene disposte in ordine cronologico, infatti, appaiono in bianco e nero, mentre quelle che procedono a ritroso sono a colori. Proprio in virtù dell’aspetto cromatico, e in particolare dell’utilizzo che convenzionalmente viene fatto del bianco e nero nei testi cinematografici, lo spettatore è portato ad avanzare l’ipotesi che le sequenze che procedono linearmente mostrino eventi cronologicamente anteriori a quelli presentati nelle sequenze a colori. Tale ipotesi, seppure difficilmente verificabile nel corso di una prima visione del film, risulta fondata al termine della fruizione e trova una sua conferma nella scena che vede protagonisti Leonard e il portiere dell’albergo in cui risiede: Burt. Questi, in seguito all’esplicita richiesta di Leonard di mostrargli la sua stanza, lo accompagna in una camera, ma nell’istante in cui apre la porta gli comunica che si è sbagliato e che quella non è la sua stanza, o meglio non più: lo era fino a una settimana prima. Nel frattempo, però, si è avuto modo di scorgere molti degli oggetti attorno ai quali ruotano le azioni mostrate nelle sequenze in bianco e nero, come il rasoio, la schiuma da barba e la bacinella d’acqua. Dunque, la presenza degli oggetti e le parole di Burt fanno intendere che gli eventi delle sequenze in bianco e nero sono antecedenti a quelli narrati nelle sequenze a colori.
Su queste ultime, inoltre, va fatta un’ulteriore osservazione: sono caratterizzate da colori tenui e luminosità pressoché uniforme, senza differenze rilevanti tra scene in esterno/interno o di giorno/notte. Tale configurazione cromatica fa sì che le sequenze abbiano una grana per certi versi analoga a quella delle numerose foto che Leonard scatta con la sua Polaroid e che consulta incessantemente per tutto l’arco del film. Proprio questa continuità plastica può fungere da collegamento tra il guardare le foto da parte di Leonard e il guardare il film da parte dello spettatore, delineando quindi un parallelismo percettivo tra il protagonista e il fruitore empirico. Quanto ipotizzato viene per certi versi confermato nell’ultima sequenza del film, nella quale le due linee narrative si congiungono: si vede una scena in bianco e nero in cui il protagonista, dopo aver ucciso colui che crede l’assassino di sua moglie, scatta una foto per poter “ricordare” di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo. A questo punto, si indugia sull’istantanea e, man mano che questa si sviluppa, assumendo tratti cromatici via via più definiti, l’ambientazione circostante passa dal bianco e nero al colore. Al di là della già citata funzione di raccordo tra le due linee narrative, da un punto di visto percettivo la scena rivela come di fatto non ci siano differenze sostanziali tra le qualità cromatiche della foto e quelle dei luoghi in cui sta avvenendo l’azione, confermando quindi il parallelismo percettivo a cui si accennava.
Fotogrammi in cui si osserva con Leonard il progressivo svilupparsi dell’istantanea e contestualmente si vede l’inquadratura passare dal bianco e nero al colore.
L’enunciazione filmica
Sul piano delle strategie di enunciazione filmica, si può notare come nel testo si faccia ampio ricorso a inquadrature soggettive e semisoggettive5. L’utilizzo combinato e ripetuto di queste tecniche fa sì che, in tutto l’arco del film, il punto di vista dello spettatore venga spesso a coincidere con quello del protagonista, invitando il primo a identificarsi nel secondo. In particolare, da un’analisi delle occorrenze delle inquadrature soggettive e semisoggettive, emerge che lo spettatore condivide sistematicamente il punto di vista di Leonard ogniqualvolta quest’ultimo acquisisce o consulta informazioni.
A sinistra, alcuni fotogrammi in cui Leonard acquisisce informazioni; a destra, alcuni fotogrammi in cui Leonard consulta informazioni; in entrambi i casi lo fa attraverso foto, tatuaggi e appunti.
Dunque, se per un verso tramite il montaggio si rende estremamente complessa la ricostruzione della storia nella sua totalità, per l’altro nei singoli segmenti narrativi si assiste a una serie di scelte volte a creare un sostanziale parallelismo sul piano del sapere tra lo spettatore e il protagonista. In altre parole, il bisogno di Leonard di acquisire e consultare costantemente informazioni per cercare di stabilire dove si trova, come è arrivato lì e cosa sta facendo coincide con la necessità da parte dello spettatore di orientarsi all’interno del mondo testuale. Personaggi come Teddy, Natalie e Burt, presenti in pressoché tutte le sequenze, forniscono a Leonard una grande quantità di informazioni su dove si trova, perché è lì e cosa sta facendo. Lo stesso dicasi per le foto, i tatuaggi e gli appunti, che si rivelano preziose fonti di informazione. Tanto Teddy, Natalie e Burt quanto gli oggetti, poi, fungono da informatori per un’istanza di osservazione comune, rappresentata da Leonard; istanza con la quale, come detto, si è spinti a identificarsi.
La componente sonora
Anche in merito alla componente sonora è possibile fare alcune osservazioni coerenti con quanto rilevato su altri piani.
In primo luogo, si può notare la diffusissima presenza di suoni interni soggettivi6, ossia suoni che pur essendo situati nel presente dell’azione corrispondono all’interno mentale del protagonista. In tutti i segmenti narrativi, infatti, si ascoltano lunghi e articolati monologhi interiori di Leonard, attraverso i quali si viene a conoscenza dei suoi pensieri e dei suoi stati d’animo. Dunque, si ha accesso diretto alla sua psiche, così come attraverso le strategie di enunciazione si accede frequentemente a ciò che percepisce.
La seconda osservazione riguarda l’impiego della musica e degli effetti sonori all’interno del testo. In film appartenenti allo stesso genere testuale – thriller – si fa ampio ricorso a musiche ed effetti sonori per enfatizzare i turning point. Per contro, in Memento, l’utilizzo della musica non solo è ridotto in termini di occorrenze, ma anche quando presente, come nel caso di scene che mostrano ricordi felici, violente uccisioni o ritrovamenti di indizi, la componente musicale è scarsamente rilevante e rilevabile. Tale irrilevanza può essere funzionale ad accrescere il senso di disorientamento dello spettatore a cui, di fatto, viene sottratto un elemento in grado di attribuire rilievo cognitivo ed emotivo a una specifica scena, favorendone, quindi, la memorizzazione.
Conclusione
Concludendo, si può affermare che la complessa strategia di messa in discorso finisca per istituire un sostanziale parallelismo, sul piano del sapere e del sentire, tra protagonista e spettatore. Più nel dettaglio, il non poter ricordare e quindi ricostruire compiutamente il rompicapo della sua esistenza da parte di Leonard si specchia nella difficoltà, se non impossibilità, dello spettatore di ricordare con esattezza la giusta sequenza degli eventi, definendo con certezza come siano andate le cose. Inoltre, l’impossibilità da parte del fruitore di ricostruire un senso sul piano narrativo si traduce, a livello emotivo, in un effetto di frustrazione. E proprio frustrazione è ciò che Leonard prova ed esterna in più di un’occasione durante la sua incessante ricerca.
Come si è visto, poi, alcune scelte operate sul piano delle configurazioni plastiche, delle strategie enunciative e dell’utilizzo della componente sonora danno vita a effetti di senso che da un lato accrescono il disorientamento e l’incertezza del fruitore empirico e dall’altro creano le condizioni affinché quest’ultimo si identifichi con il protagonista.
In definitiva, tutto ciò fa ipotizzare che il testo mediale sia stato strategicamente progettato affinché, per la sua durata, lo spettatore percepisca il mondo come una persona affetta dallo stesso disturbo del protagonista, facendo, seppure in maniera non del tutto consapevole, esperienza della sua innaturale e tragica condizione cognitiva e psicologica.
NOTE
1. R. Eugeni, Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza, Carocci, Roma, 2010, p 102.
2. Ivi., p. 122.
3. D. Bertrand, Basi di semiotica letteraria, Meltemi, Roma, 2002, p. 99.
4. Cfr. A.J. Greimas, Semiotica figurativa e semiotica plastica, in P. Fabbri e G. Marrone (a cura di), Semiotica in nuce II. Teoria del discorso, Meltemi, Roma, 2001, pp. 196-210.
5. Cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano, 1986, pp. 62-63.
6. Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 2001, p. 69.