Complicato riordinare le idee per un’esegesi di Nymphomaniac [id., 2013] di Lars von Trier, opera spregiudicata e provocatoria che s’infoltisce man mano che si evolve, terreno di una proliferazione densa al punto di correre il rischio di smarrirsi nella propria eterogeneità.
Per dipanare la matassa dobbiamo rifarci ai suoi fulcri strutturali e tematici: alla figura della donna (al centro di un profondo percorso auto-biografico) e al suo sadomasochismo (che la spinge a rigettarsi, a mortificarsi, a punirsi). Il film è prima di tutto il racconto della vita della protagonista, una ninfomane che si definisce “un pessimo essere umano”, e in secondo luogo una narrazione che segue la linea direttrice di una continua, consapevole e insanabile auto-flagellazione (psicologica, emotiva, talvolta fisica).
Per addentrarci in una comprensione il più possibile compiuta di queste tematiche ci serviremo dei numerosi simboli e indizi che il regista danese dissemina per la visione trasformandola di volta in volta in un marchingegno di figuratività auto-riflessiva: partiremo cioè dal modo in cui Nymphomaniac racconta e ri-enuncia se stesso, per lo più dal punto di vista spaziale; ci soffermeremo quindi debitamente sul visuale e su come esso venga negoziato o ri-configurato; arriveremo infine al fulcro della mostrazione pornografica e alle modalità con cui comunica con l’immagine, fondativa, del femminino.

Il vicolo e la stanza di Seligman: il teatro come figura enunciativa.

Appena dopo un lungo e piovoso silenzio Nymphomaniac si apre sullo spazio di un vicolo durante una tenue nevicata. Qua, in poche ma significative inquadrature, il suono si fa immagine e scolpisce lo scenario visibile: una carrellata a scendere segue il percorso di alcune gocce lungo il muro che cadono su un bidone della spazzatura, mentre dietro cigola una ventola arrugginita, quindi un movimento orizzontale sorvola piccoli scrosci d’acqua che scivolano dalla lamiera e si sofferma su dei bulloni che tintinnano al vento.
La presentazione del palcoscenico è compiuta: lo sguardo può ora piombare sulla protagonista distesa al centro, sul parallelo della voragine che si apre nel muro, infine può dare avvio al racconto con la fragorosa e grottesca Führe Mich dei Rammstein.

Nymphomaniac - fig. 1

Nymphomaniac - fig. 2

Nymphomaniac - fig. 3

Nymphomaniac - fig. 4

Nymphomaniac - fig. 5

Nymphomaniac - fig. 6

È in questo frangente che, dopo una overture in cui sono i tenui suoni d’ambiente a essere protagonisti sul buio dello schermo, il visibile riafferma la propria centralità proprio a partire dall’attenzione per il comparto sonoro: la tensione tra ciò che si osserva e ciò che si ascolta, schiudendosi alla perfetta coincidenza (“si ascolta soltanto ciò che si osserva” e “si osserva soltanto ciò che si ascolta”) viene risolta progressivamente in un percorso di attivazione reciproca: lo sguardo insegue il suono e il suono abita lo sguardo. Una siffatta descrizione dello spazio lo connota immediatamente come uno scenario dialettico, o che per lo meno vive di un gioco tutto dialettico tra i sensi (l’udito e la vista) che lo formulano e attraverso cui passa: una stimolazione che cinge l’immagine e il rumore in un abbraccio unico, in un passo a due che tratteggia l’ambientazione mentre ne anima i dettagli.
Se vogliamo questa apertura miniaturizza ciò che vedremo per tutto il corso del film: un processo dialettico in divenire in cui gli indizi richiamano continuamente la visione, la stimolano e la abitano, e in cui l’attenzione sonora (il commento) sembra al tempo stesso la finalità dello sguardo e la sua scaturigine – analogamente gli indizi disseminati per la stanza di Seligman saranno l’ispirazione per il racconto di Joe, che si soffermerà su di essi immergendo il tessuto visivo in un’introspezione autobiografica o in una divagazione documentaristica, puntualmente contrappuntate da discussioni di varia natura. Una sinfonia (elemento ricorrente anche a livello diegetico) in cui ogni voce segue la propria strada, e in cui però quando si cerca di raggiungere una visione d’insieme (un’inquadratura sinottica, che assommi e colleghi i singoli dettagli “animati” in precedenza) tutto deflagra e scarta, sorprende. In questo senso qui non otteniamo un totale in cui ogni suono udito si sommi agli altri che lo circondano: piuttosto, quando il quadro coglie l’ambientazione nel suo complesso, Führe Mich spazza via ogni rumore ambientale.
Del corrispettivo di questo processo, ovvero del finale del film, parleremo in seguito.

Nymphomaniac - fig. 7Ai dettagli (e corrispettivi suoni) segue un totale: qua però il comparto sonoro viene spazzato via da quello musicale, che sorprende con una repentina sterzata la costruzione “sinfonica” della scena.

Per il momento soffermiamoci invece sulla natura teatrale di uno spazio così presentato: un teatro impossibile, che si configura come tale (relegando il corpo, a livello materico, nel palcoscenico immobile che lo circonda) proprio quando il fruitore viene tagliato fuori dall’ambiente sonoro della scena. Se la figura plastica di Joe al centro del vicolo di per sé ribadisce un’ennesima volta la connessione tra il cinema di von Trier e il teatro,1 la fase precedente si fa forte della virtualità del dispositivo cinematografico per trascinare lo spettatore all’interno della scenografia: è nel momento in cui lo sguardo si aliena dai dettagli e coglie l’ambiente nella sua totalità che l’influenza teatrale si scontra inevitabilmente con l’artificio filmico, qui sostanziato nella canzone della band tedesca che scaglia poi lo sguardo altrove, all’interno dell’abitazione di Seligman. Il montaggio e la musica non emancipano però il discorso spaziale dalla teatralità che gli è propria: entro una manciata di secondi siamo infatti catapultati in un ambiente che specchia, nella propria immobile compostezza, la natura del precedente.

Nymphomaniac - fig. 8

È nella stanza di Seligman che si ambienta la totalità del racconto.
Come un palcoscenico non viene raccordata in alcun modo col resto dell’abitazione né col contesto cittadino in cui è immersa (del quale, sul finire, si scorge soltanto il muro al di là della finestra): è cioè una cornice entro la quale l’azione nasce e si esaurisce. Appare inoltre immobile, immodificabile e perciò statica: i simboli che la costellano vengono portati alla luce dai personaggi che li osservano, mentre lo sguardo della macchina da presa si riduce a ripercorrere meramente quanto i due vedono, commentano o criticano – viene cioè meno la virtualità dello spazio cinematografico, trasformato in scenografia teatrale e privato di una propria significazione indipendente dal confronto dialogico tra i protagonisti, pervasivo ma incapace di consegnarsi allo spettatore come a un agente indagatore a sé stante.
Più che nei film precedenti del regista l’ingresso e la fuoriuscita dal dominio del teatrale si caricano qui di un valore squisitamente riflessivo: se la scena del vicolo metaforizza la narrazione nel suo complesso, la stanza di Seligman ripercorre il parallelo del palcoscenico figurativizzando, tramite la staticità dell’inazione e la quasi completa immutabilità degli oggetti di scena, l’enunciazione filmica e le sue caratteristiche. Quella del palco teatrale è allora una figura enunciativa che specchia: nel modo in cui presenta l’ambiente del vicolo, l’andamento di Nymphomaniac e le sua finalità narrative; nel modo in cui invece immerge lo spettatore nella stanza dove i protagonisti trascorreranno la notte, la fruizione cinematografica stessa. Riflettere su quest’ultima aiuterà a chiarire le prime.

Costruire il significato: il racconto di Joe.

Il rapporto che si instaura tra Joe e Seligman durante il corso del film è regolato da un tacito contratto: è anzitutto una relazione di reciprocità. A tal proposito è esemplificativo il primo capitolo, dal titolo Il pescatore perfetto. Qui è proprio l’interlocutore a fornire alla protagonista l’ispirazione necessaria per iniziare il racconto: la mosca attaccata al soffitto. È opportuno soffermarsi sul fatto che le prime immagini “evocate” di Nymphomaniac non siano direttamente estratti autobiografici di Joe, ma frammenti documentaristici inerenti la pesca, provenienti quindi dall’immaginario di Seligman. È come se la narrazione della donna iniziasse, a livello visuale, con un innesco che non le appartiene direttamente, che la estende.

Nymphomaniac - fig. 9

Nymphomaniac - fig. 10

Quelle di Joe e Seligman sono allora due narrative che si intrecciano fin da subito: ogni volta che l’uomo la interrompe, dimostrandosi d’accordo o in disaccordo, lei reagisce incorporando le sue risposte nella storia (con aria di avvaloramento oppure di contestazione). Il racconto è soggetto a continue intromissioni, giustapposizioni o vere e proprie sovrapposizioni da parte dell’uomo. Ciò accade sia nell’ambito dialogico sia nella sua controparte visuale, anch’essa continuamente interrotta, riavvolta, inframezzata, sovrimpressa o scomposta. La scena del treno nel primo capitolo è di nuovo un esempio piuttosto chiaro: qui la protagonista e la sua amica vanno a caccia di uomini e fanno a gara a chi riesce a fare sesso il maggior numero di volte entro la stazione successiva. Hanno appena fatto il loro ingresso nel vagone quando Seligman spezza bruscamente la continuità visiva della scena (nonché la Born to be Wild degli Steppenwolf) e catapulta di nuovo lo sguardo nella sua piccola stanza: “posso interromperla?”
Quindi è lui ad assumere il controllo della visione del passato di Joe: la metafora della pesca ci viene non soltanto proposta dalla sua voce fuori campo, ma si insinua nel tessuto visivo facendo comparire, in trasparenza, le immagini di un fiume su quelle delle cabine e dei passeggeri. A ciò si lega un’intromissione costante di fotografie, documenti esplicativi e schemi che aiutano la comprensione di quanto detto.

Nymphomaniac - fig. 11

Nymphomaniac - fig. 12

Nymphomaniac - fig. 13

Scambiandosi reciprocamente informazioni Joe e Seligman costruiscono assieme un racconto che è frutto di una negoziazione2 costante – non solo dal punto di vista del significato, talvolta inferito retroattivamente, ma anche e soprattutto da quello visivo.3
Si noti inoltre come l’enunciatario sia in grado di rintracciare nella vita di Joe indizi di senso inediti, che lei per prima non è stata in grado di riconoscere: è il caso dell’episodio, tratto dal Volume 2, che Joe racconta di aver vissuto da bambina durante una gita. Qui, stando alle parole della donna, a un orgasmo spontaneo è seguita una misteriosa levitazione, corredata per giunta dalla visione quasi divina di due figure luminose. Privo di una spiegazione l’evento è rimasto tutt’altro che chiaro nella mente della ninfomane – ed è proprio Seligman a spiegarne il senso ultimo, andando a decifrare l’identità delle due sagome lucenti e, più in generale, la natura dell’accaduto: “la sua storia è una specie di nuova narrazione blasfema della trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, che è uno dei passaggi più sacri della Chiesa d’Oriente”.

Nymphomaniac - fig. 14

Nymphomaniac - fig. 15

Nymphomaniac - fig. 16

Non può sembrare un caso che Seligman sia depositario di una cultura spropositata: ogni piccolo sviluppo della storia di Joe si ricollega a una parte del suo sapere – ed essa è tanto ben intrecciata con tutte le altre da generare, nel momento in cui viene chiamata in causa, nuove inedite connessioni di senso pronte a diventare innesco per ulteriori sviluppi del racconto. È però il caso di addentrarci maggiormente nella natura delle sue conoscenze, con riferimento specifico al secondo capitolo del film: Jerôme.
Il letterato racconta, a proposito delle forchette da dolce che hanno dato alla donna l’occasione di ripensare al rapporto con l’amore della sua vita, che i Bolscevichi durante la rivoluzione si portassero dietro un ragazzo con lo scopo di farlo entrare nelle abitazioni prima di raderle al suolo: qualora all’interno avesse trovato forchette da dolce, oggetto d’uso tipico della borghesia, avrebbero devastato tutto, altrimenti avrebbero risparmiato il luogo dalla razzia. Sebbene le parole dell’uomo vengano come al solito corredate di video documentaristici, Joe contesta quanto detto: “non è vero”. Seligman sorride, confessando di non conoscere la storia in modo diretto.

Nymphomaniac - fig. 17

Nymphomaniac - fig. 18Come le altre, la divagazione sulle forchette da dolce è corredata da materiale video documentaristico. Scopriamo però che quanto riportato non corrisponde a verità. Il visivo perde allora di ogni efficacia epistemologica: la sua malleabilità lo priva del valore di verità proprio del documento.

È il suo sorriso consapevole a suggerire qualcosa sulle sue conoscenze: non sono di per sé corrette né affidabili. Il dubbio potrebbe spargersi a ogni altra sua divagazione: lo spettatore non può essere sicuro che von Trier non stia “forzando” alcune nozioni a descrivere o fornire sostegno al racconto della sua protagonista attraverso le parole di Seligman. L’uomo non è forte di alcuna legittimazione che ponga le sue parole al sicuro dall’errore o dall’inesattezza: è un erudito e un appassionato di libri, non per questo depositario di verità di sorta. Nel momento in cui fruisce del racconto di Joe diviene un lettore così come lo descrive Mieke Bal: che al tempo stesso contestualizza le parole della donna nel loro contesto d’emissione (personale, autobiografico) e si appropria delle immagini che gli vengono presentate, ricontestualizzandole in nuove cornici o intelaiature di senso le quali, a loro volta, sono in grado di far emergere nuovi significati potenziali (come il parallelo con la trasfigurazione di Gesù) e di escluderne altri. Ciò a prescindere dall’idiosincrasia di suddetti processi: contestualizzazione e ricontestualizzazione mantengono al loro centro il soggetto fruitore, il quale può fare uso di catene semantiche perfettamente coerenti o addirittura deliranti – la sua sarà sempre e comunque una “lettura”.4 La fallibilità e la parzialità di Seligman affiancano la sua figura a quella di un qualsiasi enunciatario: il suo bagaglio culturale, colle proprie lacune e le proprie parzialità, determina il modo in cui si pone nei confronti dell’enunciato.
La scena della forchetta da dolce mostra anche come la donna sia in grado di esercitare un potere critico su quanto le viene detto, trasformandosi a sua volta in commentatrice e fruitrice. La vediamo assumere tale ruolo per esempio quando, nel secondo volume, a seguito di un intervento focalizzato sul nodo alpinistico valuta: “Credo sia stata una delle sue digressioni più deboli”.
«La negoziazione tra Joe e Seligman assicura che i desideri e le necessità di entrambi siano riconosciuti dall’altro. Durante il suo racconto, Joe si aspetta l’attenzione di Seligman. Più volte lei mette in discussione l’attenzione dell’uomo o le sue reazioni alle sue parole (…)»5

Nymphomaniac - fig. 19

Nymphomaniac - fig. 20

Nymphomaniac - fig. 21Seligman fantastica sulla giovanissima Joe, al che la donna richiama la sua attenzione. Il dialogo tra i due, mantenendo evidente la reciprocità che lo definisce, rinuncia da subito alla possibilità di trasformarsi in un monologo auto-assolutorio: la presenza e la partecipazione dell’interlocutore sono fondamentali affinché la storia si sviluppi.

La narrazione si evolve così a partire da un processo di interdefinizione: a fasi alterne l’enunciatore (Joe) prende il posto dell’enunciatario (Seligman) e viceversa – il tessuto visivo, rievocato e contaminato, si sviluppa su una negoziazione mutuale pressoché costante. Ciononostante non viene mai meno la polarità che mette Joe, in quanto fulcro delle proprie memorie, in una posizione privilegiata rispetto al confessore: per quanto la materia delle sue vicende sia malleabile e cangiante, ricontestualizzabile, lei è pur sempre la narratrice.
Ci sono coincidenze del tutto irrealistiche nel suo racconto su Jerôme”, “non so se riesco a crederci” sentiamo dire a Seligman quando, preso dallo scetticismo, interrompe per l’ennesima volta il racconto di Joe durante il quinto capitolo (La scuola di Organo). “Come pensa di ricavare un senso dal mio racconto? Credendoci o non credendoci?” Reagisce lei, affermando a scanso di equivoci la propria superiorità rispetto all’enunciazione che li lega.

Torniamo quindi alla figura enunciativa di cui si è parlato in apertura: contrapponendosi alla luminosa ed eterogenea irrequietezza delle visioni evocate dal dialogo tra i due, lo spazio della stanza di Seligman si configura come un’anticamera della visione, come un palcoscenico atto a “contenere” lo scambio tra fruitore ed enunciatore. Nella cupa stanza del letterato e nella compostezza e rigidità delle sue interazioni con l’ospite rivive la fissità dell’ambiente cinematografico – lo scambio tra i due, che genera tanto immagini quanto loro interpretazioni e che imprime istantanee di un bagaglio culturale pregresso su un presente visibile e fruito, specchia l’istanza enunciativa di tutta la contemporaneità. Assorbita nelle immagini, richiamata dalle immagini, confusa dalle immagini; in grado di interagirvi solo tramite altre figure (quelle “documentarie”, pregresse) e di interpretarle a partire da coordinate soggettive; prevaricata, ispirata, criticata, rispecchiata dalle immagini, infine irrisa da una pluralità soverchiante e incomprensibile, irriducibile: ecco la contemporaneità che lega Seligman e Joe, chiamando il primo (lo sguardo)6 a osservare e interpretare, e spingendo la seconda a mostrarsi e mettersi a nudo, nel tentativo di farsi comprendere e comprendersi.

Nymphomaniac - fig. 22 Nymphomaniac - fig. 23Fantasie di immedesimazione: come l’immagine, così lo sguardo.

In risposta alla prevaricazione del senso: il finale di Nymphomaniac.

È nell’ottica di una sincera curiosità che vediamo porsi Seligman dall’inizio alla fine dello scambio con l’ospite: il suo, come egli stesso ribadisce, è un desiderio puramente intellettuale – vuole scoprire perché Joe si descrive come “un pessimo essere umano” e magari riuscire a farle cambiare idea. Il letterato, abile nell’arte della decifrazione e dell’interpretazione del senso, infarcisce di nozioni e rimandi il racconto della ninfomane proprio allo scopo di dargli unità e di conferirgli un significato finale che assolva la donna dalle sue colpe. Quando il racconto si conclude l’uomo tradisce il tacito contratto che ha stipulato in due modi.7
Il primo modo, quello più evidente, chiude la narrazione nell’ultimissima scena: Seligman si avvicina a Joe con l’intento di consumare un rapporto sessuale e viene rifiutato. L’approccio è del tutto finalizzato all’atto, non implica cioè alcun tipo di effusione o di contatto tra i due: lui entra nella stanza vestito soltanto della camicia e dei calzini, scopre le natiche di Joe e vi si accosta mentre lei ancora dorme, come se fosse in procinto di iniziare l’amplesso senza neanche svegliarla.

Nymphomaniac - fig. 24

Nymphomaniac - fig. 25

Nymphomaniac - fig. 26

Nymphomaniac - fig. 27

Seligman così facendo sgretola gli ideali sostenuti e incarnati in precedenza. Definendosi “vergine”, “innocente” e “asessuato” l’uomo si è posto come interlocutore ideale proprio in favore della sua estraneità agli eventi narrati,8 la quale viene meno tutto d’un colpo dinnanzi ai suoi gesti finali. Anche prima, durante il dialogo con Joe, il letterato viene meno al suo impegno.
In calce alla conclusione del racconto dell’ospite lo sentiamo addentrarsi in un’arringa che ha il tono proprio dell’assoluzione: “Immagino che volesse dalla vita di più di quanto le fosse dispensato”, “Era solo un essere umano che pretendeva i suoi diritti.” Dice con fare consolatorio, “O meglio, era una donna che pretendeva i suoi diritti”. È da questa precisazione in poi che il monologo dell’uomo cambia radicalmente tono. Seligman sembra, piuttosto che scardinare alcuni standard di-genere, definire il comportamento di Joe come tendenzialmente mascolino:9

Alla fine tutto il biasimo e il senso di colpa che si sono accumulati sono diventati troppo e ha reagito in modo aggressivo, quasi come un uomo devo dire. Ha combattuto, ha lottato contro il genere che ha oppresso, mutilato e ucciso miliardi di donne”

Nymphomaniac - fig. 28

Nymphomaniac - fig. 29

Nymphomaniac - fig. 30La reazione alla morte del padre, il ribrezzo provato nei confronti del figlio appena nato, il tentato omicidio: ogni peccato trova assoluzione e spiegazione nelle parole di Seligman, mentre riafferma con una certa convinzione la propria inspiegabile e gratuita crudeltà agli occhi di Joe.

Nelle sue parole le azioni di Joe (combattere, reagire, lottare) hanno i caratteri della mascolinità e sono la risposta necessaria alla marginalità frustrante che un cosmo sociale maschile impone alla figura della donna. Dal canto suo la protagonista è tutt’altro che accondiscendente nei confronti di quanto detto: “Questo giustifica tutto?” Chiede, non riuscendo a interrompere il flusso di pensieri dell’altro, per poi quasi difendersi: “Ma io volevo uccidere un essere umano” – e Seligman di nuovo raccoglie, raccorda e interpreta: “Però non l’ha fatto (…) In apparenza lei voleva uccidere, ma dentro di sé ha celebrato il valore della vita umana, dimenticando inconsciamente di sapere come si arma una pistola.”

Nymphomaniac - fig. 31L’albero ricurvo, devastato dalle intemperie eppure in grado ancora di ergersi sulla sommità rocciosa, è per la protagonista un simbolo della propria strenua resistenza. La forza esistenziale viene però ridotta, nelle parole del confessore, a un principio di reazione sociale: come se l’albero fosse in grado di rappresentare le sagome straziate di ogni donna, oppresse in un cosmo maschilista e prevaricatore.

Seligman cede al vezzo dell’interpretazione e incastra il vissuto della donna in dinamiche sociali, antropologiche o psicanalitiche, dando a ogni gesto una spiegazione e un significato perfettamente coerenti. La sua presunzione è quella di potersi permettere, al di là dell’ascolto e dei contributi dati al racconto, di tirare le fila del discorso e di spiegare alla stessa narratrice la natura di ciò che ha passato. Lo stupro finale specchia allora il suo tentativo di piegare a una significazione piana le vicende rievocate dal dialogo: come egli presume di esaurire il vissuto di Joe e di dargli un senso, allo stesso modo suppone di poter abusare del suo corpo seguendo le stesse logiche che gli ha cucito addosso. La rivolta della protagonista è totale: feroce e repentina, è un rigetto deciso della prevaricazione del senso. La femmina10 di von Trier aliena nella violenza la propria irriducibilità, la propria illeggibilità epistemologica:11 rifiuta cioè di venir compresa e interpretata quanto inserita in precisi meccanismi di significazione.
La conclusione del film è tanto più significativa quanto più si riesce ad allinearla con quanto detto in apertura. Non solo il cinema dell’autore danese rifiuta qualsiasi riducibilità interpretativa (e rigetta così il femminismo quanto la misoginia) ma insiste nel figurativizzarsi, rienunciando la propria insistente voglia di eccedere e di rifuggire ai tentativi di linearizzazione. È il caso della scena del vicolo, che fa della comunicazione tra visuale e sonoro un simulacro di quanto si osserva poi nel resto del tempo, privandosi della sinottica visiva/auditiva con la stessa forza con la quale il racconto si libera infine di una morale, di una visione d’insieme che ecceda la gratuità del gesto. Führe Mich dei Rammstein è come il colpo di pistola che serra sul nero e prepara i titoli di coda: entrambi impediscono al fruitore di far tesoro delle proprie capacità interpretative, scagliando l’immagine al di là della sua capacità di starle dietro.

Urgenze del visivo, necessità del visibile: la ricerca sadomasochista.

Se la rivolta immotivata è l’esito ultimo di un dialogo sciatto e vacuo, pretestuoso quanto il banale liberalismo di Seligman, non per questo ogni azione precedente di Joe deve ridursi al nonsenso e trovare in questa riduzione la sua ragione d’essere. Saremmo cioè interessati a chiederci cosa abbia spinto la donna a compiere determinate azioni o scelte nel corso della sua vita quanto, più banalmente, a riflettere sulla sua scelta di condividere esperienze e trascorsi col soccorritore.
Per trovare qualche risposta dobbiamo partire proprio dalla scelta di von Trier di girare “un porno, un film hardcore”.12 Essa deriva in parte dall’estendersi dell’immaginario pornografico nel cinema d’autore contemporaneo, “tradizionalmente portato a forzare i limiti del visibile e a sfidare polemicamente le contromosse della censura [o, nel caso di von Trier, della distribuzione, ndr]”, il quale tuttavia si riduce spesso a “un uso strumentale delle immagini di sesso esplicito da parte di auteur anti-hollywoodiani, nell’ottica (blandamente) estremistica di una rivendicazione di differenzialità”.13 È impossibile non leggere Nymphomaniac come uno sberleffo polemico, e per questo intimamente politico, legato a una differenziazione testuale che passi anche e soprattutto per la presenza di scene esplicite (nonché per l’imponente durata); dall’altra l’insistenza sulla pornografia si spiega in una dinamica situata a cavallo tra l’erotico e il macabro, che affianca le urgenze del visivo (maschile) alle istanze di piacere e morte che regolano il visibile. Scrive Mirko Lino:

In più occasioni le rappresentazioni figurative hanno confuso le smorfie dell’estasi e del martirio, definendo il corpo il luogo dove i due termini concorrono alla loro indistinguibilità; un esempio esplicito che ci abitua alla sovraimpressione tra la semantica della sofferenza fisica e del piacere è dato dalla ricezione dell’iconografia dei martiri: basti pensare a quella di San Sebastiano, il cui corpo martirizzato propone la tortura come rituale per la redenzione, una manifestazione di un piacere estatico che passa da una sofferenza fisica espressa al massimo della sua visibilità, inscritta sul volto e tracciata sul corpo. Recentemente, ritroviamo questo nesso rivolto più esplicitamente alle rappresentazioni dell’estasi sessuale e dello spasmo della morte, sottoposto in maniera programmatica agli occhi degli spettatori (…)”14

Nymphomaniac - fig. 32

Nymphomaniac - fig. 33Sopra: alcune locandine di Nymphomaniac. Sotto: Andrea Mantegna, San Sebastiano, 1506 ca., Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro.

(…) L’operazione commerciale punta su una serie di locandine differenti che ripropongono ciascuna un primo piano del volto di un attore, o un’attrice, nel momento dell’orgasmo: un catalogo di bocche aperte, occhi socchiusi, tensioni e spasmi muscolari, su uno sfondo bianco anonimo e decontestualizzante, che rende indistinguibili le tracce visive di un piacere assoluto, del culmine del godimento, dal riconoscimento di un volto colto da rigor mortis, cospargendo i due momenti estremi della carne di una sacralità che non cerca una redenzione quanto di mostrare apertamente delle ossessioni.”15

Nel suo articolo sulle retoriche del male-gaze Lino sottolinea come dietro allo spettacolo visivo di intrattenimento che è divenuto il tabù del sesso pornografico (come quello della morte o della tortura) si celino due urgenze “maschili” di derivazione socioculturale o sessuale: la prima, scopica, consiste nel bisogno di “vedere di più” del corpo della donna; la seconda implica invece l’uso di un codice visivo estremo per ristabilire un predominio del maschile dinnanzi all’azione destrutturante del femminismo, a cui si aggiunge il rischio di omoerotizzazione e demascolinizzazione declinato da estetiche al femminile. Nell’immagine della donna si incontrano allora l’esigenza di poterla vedere nella sua oggettività (nel ruolo di vittima impotente) e al tempo stesso di riuscire a possederla – non soltanto dal punto di vista erotico: umiliarne, punirne e giustiziarne il corpo.16
Assimilando il visivo del piacere e del dolore e allineando entrambi nella prospettiva di un predominio sessuale, la provocazione riafferma la propria spettacolarità avvalorando l’ipotesi di un visivo necessariamente maschile, forzosamente teso cioè all’abuso dell’immagine della donna come unica strategia per ribadirne l’importanza o affermarne indipendenza e libertà.
Siamo allora dinnanzi a una sincresi significativa, che sovrappone simboli femminili a figure religiose facendo incontrare tutto lo scibile umano (sintetizzato in immagini, simulacri, reperti): in questo senso il percorso di co-creazione narrativa che balza tra Joe e Seligman offre a von Trier l’occasione per presentare una contro-Storia dell’umanità e della fede, sardonicamente accartocciate in una narrazione insistentemente sessualizzata. Non sorprendono i frequenti riferimenti storici, dottrinali, politici, tecnici, matematici, artistici, filosofici né la ferocia iconoclastica e mitopoietica di alcune visioni: vandalizzando l’immaginario iconico per eccellenza (quello religioso) Nymphomaniac può permettersi finalmente di riformulare una sua mitologia blasfema, confondendo i santi con gli eretici e coronando di un’aureola perfino un’omicida ninfomane, bagnata di sangue e stesa in una pozza di urina.

Nymphomaniac - fig. 34All’inizio del film la testa di Joe sembra contornata da un nimbo quadrangolare, comunemente attribuito, nelle opere religiose, a persone di grandi dignità ancora vive al momento dell’esecuzione del dipinto.

Utilizzando la donna come punto di partenza e d’arrivo ideale per un ribaltamento così sistematico, von Trier costruisce un racconto che irride continuamente i propri presupposti, soffocandoli sotto il peso di una pulsione erotica tragicamente somigliante a un desiderio di morte. È proprio la “ribellione alle regole di-genere” di cui parla Seligman a passare, dal punto di vista visivo, per urgenze che ingabbiano il visibile in una serie di rivendicazioni di-genere. Da questo punto di vista lo spettatore che scambia, alla stregua del letterato del film, Nymphomaniac per una narrazione che de-costruisce e ribalta l’immagine della donna all’interno della società, diviene vittima di un fraintendimento che pare irriderlo di continuo: si trova cioè dinnanzi a un tutt’uno contraddittorio, che racconta una sorta di emancipazione servendosi degli strumenti del predominio. Sembra piuttosto che l’immagine della donna tratteggiata dall’opera sia qualcosa di essenzialmente eccedente, che risponda a necessità proprie e che fugga, di nuovo, verso il buio che precede di poco i titoli di coda – verso un “irriproducibile” che non sia più schiavismo del senso né sudditanza, pseudo-pornografica, alle istanze del visibile.

Nymphomaniac - fig. 35

Queste osservazioni ci invitano a una comprensione più profonda di uno degli aspetti che maggiormente caratterizzano le protagoniste della trilogia della depressione: il sadomasochismo, inteso come la ricerca che spinge queste donne a fare di continuo del male a se stesse e agli altri. Il sadomasochismo di Joe, specchiando l’auto-mortificazione liberatrice di Melancholia [id., 2011] quanto la spirale di violenza auto-mutilatrice di Antichrist [id., 2009], si fonda in particolare su principi non più sociali (la donna che si procura dolore per ribellarsi ai dettami imposti dall’uomo, privandosi del piacere e macerando la propria carne o tentando di ingabbiarsi in dinamiche che non le appartengono pur di riuscire a punirsi), non più antropologici o psicologici (la madre che rinuncia al proprio ruolo e sceglie la sofferenza o il godimento come alternative all’accudimento della prole): è un istinto vagamente filosofico, che spinge l’immagine che si rinnega a soffrire e annichilirsi nelle proprie brame e al tempo stesso a demonizzarsi, incarnandosi nella violenza gratuitamente esercitata oppure subita.

La natura di questa violenza riposa sul netto rifiuto che il femminino, nella trilogia della depressione, opera nei confronti di qualsiasi sorta di vittimizzazione dell’immagine della donna. Il sadomasochismo delle protagoniste di questi film non è un gesto redentivo né offre alcuna prospettiva salvifica, è un principio di ribellione alle urgenze del visivo di cui si è parlato poco sopra che non significa nient’altro che se stesso. Mortificando la propria immagine, il proprio ruolo, la propria integrità e il proprio corpo, procacciandosi l’infelicità quanto quella altrui queste protagoniste si trasformano in agenti etici a tutti gli effetti: nell’esecuzione immotivata di tali gesti fanno vibrare il principio di piacere che regola (o vorrebbe regolare) la fruizione spettatoriale, sovrapponendolo al ribrezzo per il dolore e al timore della morte. In questi gesti viene meno la figura regolatrice dell’uomo, che non può più punire o impadronirsi della carne della donna: è anzi lei, punendo se stessa, a far soffrire il maschio. Come la protagonista di Antichrist, Joe “Si sottopone alla violenza, compie gesti violenti come fossero di resistenza e d’amore, subisce una trasformazione attraverso la violenza, negando la femminilità come fonte di redenzione”.17
La sensazionalità pornografica si appiattisce su quella, macabra, della mortificazione delle carni: trasformando la propria carica erotica in uno straniamento orrifico (o, per quanto riguarda Nymphomaniac e la prima parte di Melancholia, etico) incontrollabile, l’immagine della donna diventa il simbolo di un’alterità spaventosa, che mina le fondamenta del cinema antropocentrico come terreno d’emergenza e d’urgenza di istanze in ultimo luogo maschili. La sua figura destituisce il dittico soggetto/oggetto (uomo/natura) inghiottendo il primo nel secondo, sfasando la centralità dell’uomo e smarrendolo nella bestialità che lo soverchia.
Le storie, le icone, le immagini che questa ricerca si lascia dietro sono un lungo strascico forzosamente autoironico, che sembra volersi prendere sul serio nel momento in cui si contraddice e rifiuta, con la forza che solo un finale a sorpresa può avere, di darsi o farsi dare un senso complessivo. Una contro-Storia blasfema che evapora all’ombra di uno stupro mancato e culmina in un colpo di pistola.

Nymphomaniac - fig. 36

Nymphomaniac - fig. 37

Nymphomaniac - fig. 38

Nymphomaniac - fig. 39Il finale riafferma quanto precedentemente mostrato nel corso del film: a un fraintendimento sostanziale dell’altro che consiste nella sua riduzione a oggetto (di piacere) segue l’irruzione di una violenza tanto inattesa quanto gratuita, spiazzante. In tale violenza la figura della donna rifugge al proprio appiattimento su dinamiche psicologiche o sociali; la Storia blasfema dell’umanità, delle arti e delle tecniche si arrende all’ineluttabilità dei propri cortocircuiti e Nymphomaniac si rifiuta di essere interpretato, chiudendo a nero le ottuse possibilità di discernimento dello spettatore assieme al corpo di Seligman, suo alter-ego, che si accascia al suolo.

NOTE

1. Cfr. Jouko Aaltonen, Lars von Trier as a Cinematic Researcher, AVANCA | CINEMA, 2015, pp. 28-33, che evidenzia come una metafora ricorrente nel cinema di von Trier sia quella del teatro o del palcoscenico. Vengono citati svariati esempi di metaforizzazione dello spazio scenico, passando da una più generica performatività dell’azione, corrispondente a un’estetica di certo ben lontana “dalle convenzioni del classico realismo o naturalismo cinematografico” (cfr. Linda Badley, Lars von Trier, University of Illinois Press, Urbana, Chicago e Springfield, 2009, pp. 14-15), ad alcuni esempi più specifici. Tra questi, il parallelismo tra la stanza dell’esecuzione di Selma in Dancer in the Dark [id., 2000] e una scenografia teatrale (quando la donna muore il sipario si chiude); il rimando dello spazio della chiesa in Le onde del destino [Breaking the Waves, 1996] e la ricorrenza quasi ossessiva di veri e proprio palcoscenici (tra cui quello che raccoglie le ninfomani nello stesso Nymphomaniac), culminante senza ombra di dubbio in Dogville [id., 2003] e Manderlay [id., 2005] entrambi ambientati in giganteschi palcoscenici.

2. Cfr. Pierre Sorlin, Introduzione a una sociologia del cinema, Edizioni ETS, Pisa, 2017.

3. Cfr. Kristin Yaworski, Female Masochism in Michael Haneke’s La Pianiste and Lars von Trier’s Nymphomaniac, Waterloo, Ontario, Canada / Mannheim, Germany, 2017, p. 42.

4. Cfr. Mieke Bal, “Reading Art?” in Generations and Geographies in the Visual Arts: Feminist Readings, di G. Pollock (a cura di), Routledge, London, 1996, pp. 24-41.

5. K. Yaworski, op. cit., p. 43, trad. e corsivo del redattore.

6. Cfr. La riflessione sullo sguardo maschile e sul corpo/oggetto immaginale e femminile in Mary Ann Doane, ‘Gilda’: Epistemology as Striptease, in “Camera Obscura”, Fall 1983 (trad. it. in Donne fatali. Cinema, femminismo, psicanalisi, Parma 1995).

7. Cfr. K. Yaworski, op. cit., pp. 43-44.

8. Yaworski sottolinea come l’immagine che l’uomo vuole dare di sé non regga fin dall’inizio, evidenziando come nella già citata scena in cui lo vediamo distrarsi preso dalle fantasie di una giovane Joe tra i banchi di scuola si assista alla materializzazione di un immaginario “che ricorda quello pornografico mainstream”, che esclude l’estraneità di Seligman dal desiderio e dalle sue riproduzioni (Cfr. K. Yaworski, op. cit., p. 44).

9. K. Yaworski, op. cit., pp. 45-46.

10. Se ne scrive in uno degli articoli dedicati all’autore su queste pagine. https://specchioscuro.it/madri-dissennate-lars-von-trier-e-larchetipo-del-femminile/

11. Che è la stessa irriducibilità che divide l’icona dal simulacro, cfr. Giuseppe Patella, Lo statuto dell’immagine tra icona e simulacro, Kainos n.1, sez. Ricerche.

12. http://www.mymovies.it/media/persone/intervista/?r=4729

13. Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca (a cura di), Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media, Mimesis Edizioni, 2011, Milano, pp.17-18.

14. Mirko Lino, “Le urgenze del visivo maschile: retoriche del male gaze nella cultura dello snuff e dell’hard-core tra cinema e letteratura”, Between, vol. IV, n. 7, Maggio 2014, p. 1.

15. Ibidem.

16. Idem, pp. 2-3.

17. Magdalena Zolkos, Violent Affects: Nature and the Feminine in Lars von Trier’s Antichrist, Parrhesia, 13, 2011, pp. 177-189.