Ecco il nostro paradosso: che l’arte nella nostra società sia, al contempo, l’estremo di una cultura e l’inizio di una natura; che tutta la libertà dell’artista abbia come bel risultato quello di imporci un’immagine immobile dell’uomo.
Roland Barthes1

Secondo capitolo della cosiddetta trilogia della depressione, dopo «il destabilizzante squarcio su di un inferno privato» (Vigna)2 di Antichrist [id., 2009] e prima del percorso di «consapevole e insanabile auto-flagellazione» (Caselli)3 tracciato in Nymphomaniac [id., 2013], Melancholia estende lo spettro di riflessione sulla patologia al piano della relazione tra storia e natura, intrecciando tragedie private ad echi quasi leopardiani.
«Non è esattamente un film sulla fine del mondo, ma un film su di una condizione mentale»4, ha dichiarato, per sciogliere ogni equivoco, lo stesso Lars Von Trier.

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Sul film, in verità, si è detto e scritto di tutto. Lasciando perdere le polemiche che ne hanno accompagnato la presentazione cannense (con relative accuse di antisemitismo in seguito ad un’uscita invero assai infelice del regista), ne sono stati di volta in volta rilevati diversi aspetti. L’inscrizione del film all’interno della secolare tradizione occidentale sulla figura del “malinconico” (tra Freud e Dürer); i rimandi a Shakespeare (la protagonista Justine come novella Ofelia) e a Nietzsche; il fallimento della scienza (ragione) di fronte all’implodere della natura (passione) come specchio dell’inconciliabilità tra i sessi; i ricordi di Festen – Festa in famiglia [Festen, Thomas Vinterberg, 1998] (la lunga sequenza del banchetto di matrimonio, dall’inerzia quasi lugubre) e del nume tutelare di Andrej Tarkovskij (il prologo in super slow motion dal frame rate altissimo che doppia quello del precedente Antichrist). E ancora: le risonanze autobiografiche con cui il regista, anch’egli per anni sofferente di depressione, ha investito il personaggio della sua protagonista; le reminiscenze psicoanalitche; gli evidenti riferimenti alla pittura di Bruegel, Caravaggio e all’Ofelia di John Everett Millais. Il filosofo Byung-Chul Han, nel suo saggio Eros in agonia, ha persino fatto del film uno dei campioni attraverso i quali indagare una delle nuove malattie della contemporaneità: la disforia dell’eros derivante dall’incapacità di accogliere l’Altro-da-Sé in un mondo sempre più dominato da paradigmi narcisistici5 e vanagloriosi. Su queste pagine, Sebastiano Lombardo, ha invece riflettuto sulla natura meramente archetipica dei due personaggi principali del film: le sorelle Claire e Justine6.

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Sopra: l’Ofelia di Millais
Sotto: la Justine di Melancholia 

Tutti spunti di riflessioni validissimi che, proprio per essere stati ampiamente dibattuti, abbiamo preferito qui elencare senza la necessità di tornarci su. E pare persino pleonastico sottolineare le reazioni uguali e contrarie, risentite o adoranti, che il film ha suscitato, costume ormai inestinguibile di fronte ai lavori di un cineasta dalla visione del mondo così prepotentemente personale (schematica o essenziale, a seconda dei punti di vista) come Trier; dato che comunque non ci interessa dibattere in questa sede.
Piuttosto, preferiamo concentraci su alcuni aspetti forse non così immediati ma che probabilmente aiutano a meglio inquadrare il ruolo che, amato o odiato, lodato o vilipeso, Melancholia assume all’interno di questa nuova modernità7 segnata, tra le altre cose, dal prepotente ritorno del mito, dalla riflessione post 11-9 sull’apocalisse e la fine del mondo, nonché dai nuovi dibattiti di gender.

Apocalypse Now 

L’apocalisse, si diceva.
Il 2011 è stato un anno, se vogliamo, terminale per uno dei filoni più rilevanti del cinema dei primi anni 2000: quello, appunto, dell’apocalisse.
Se la cosmogonia di The Tree of Life [id., Terrence Malick, 2011] rappresenta una sorta di controtipo e rovescio di un piccolo, grande dominio di opere che, non solo sulla scorta dello shock dell’11 settembre, hanno dato corpo a riflessioni sul clima di paura e incertezza segnato dalla crisi economica, dallo squilibrio sociale, dalle rivoluzioni tecno-digitali e dagli scompensi eco-climatici, film come Il cavallo di Torino [A torinoi ló, Béla Tarr, 2011], 4:44 Last Day on Earth [id., Abel Ferrara, 2011] e lo stesso Melancholia hanno spinto tali concetti al punto di non ritorno.

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Il film di Lars Von Trier è diviso in un prologo e in due capitoli (dai titoli rispettivamente di Justine e Claire).
Il prologo – una sorta di flash forward rispetto a quanto sarà raccontato nei due capitoli successivi – girato in CGI e rifinito in slow-motion – ci mostra i momenti dell’impatto tra la Terra e il pianeta Melancholia (come spiega il regista stesso negli extra del blu-ray, ultimo dei suoi interessi era quello di generare suspense rispetto all’eventualità della collisione).

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Nel primo capitolo del film, Justine (Kirsten Dunst), agente pubblicitaria, arriva con il neo-speso (Alexander Skarsgård) nella ricca villa di famiglia per celebrare il ricevimento di nozze. Messa di fronte alla gretta avidità del suo datore di lavoro (Stellan Skarsgård) e al vacuo formalismo anaffettivo della sua famiglia, Justine torna a manifestare i primi sintomi di una depressione che, dapprima, le impedisce di consumare il matrimonio con il marito Michael e, in seguito, la porta ad evadere dalla cerimonia per trovare un contatto diretto con la natura (si spoglierà nuda in riva ad un laghetto artificiale e arriverà persino ad urinare nei pressi del campo da golf della tenuta).

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La seconda parte, invece, si concentra sul rapporto tra Justine e la sorella Claire (Charlotte Gainsbourg) mentre la Terra è minacciata dall’arrivo del pianeta Melancholia. Sempre più depressa, dopo aver lasciato il marito, Justine attende la collisione che pure John (Kiefer Sutherland), scienziato e marito di Claire, sembra negare con veemenza. Così, mentre «l’incombere di Melancholia pervade e annienta anche le vacue certezze di Claire, madre inconcussa, nonché strenua fautrice di un principio di conservazione tanto velleitario, tanto aberrante»8 (Lombardo), Justine acquisisce una sorta di rinnovato vigore donando concretezza alle inquietudini generalizzate della propria angoscia e  accettando così il destino di morte che aleggia sopra ogni essere umano.

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In un celebre saggio del 1964 dal titolo inequivocabile di Apocalittici e integrati, Umberto Eco ascriveva all’atteggiamento dell’intellettuale “apocalittico” una totale, immedicabile sfiducia nei confronti della cultura di massa. Il pensiero di una cultura condivisa da tutti, per l’intellettuale apocalittico, è di fatto un controsenso irricevibile: la cultura di massa è a tutti i sensi anticultura.
Lars Von Trier, regista di apocalissi piccole e grandi, private e collettive (L’elemento del crimine [Forbrydelsens element, 1984], Europa [id., 1991], The Kingdom – Il regno [Riget, 1994], Dancer in the Dark [id., 2000], Antichrist: solo per fare alcuni esempi), assume invece un punto di vista complementare e, per alcuni versi, opposto. L’apocalisse, incarnata in Melancholia dall’eponimo pianeta in procinto di schiantarsi contro la Terra, è il fallimento di ogni forma di cultura, specie quella positivista e riduzionistica, incapace di comprendere come un rapporto tra l’uomo e la natura (e, quindi, tra l’Uomo e la Terra) viva di un orientamento specificatamente sentimentale. Pre-culturale.

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Al fallimento della ragione (di cui, nel film, è espressione figurata, persino con troppa evidenza, il personaggio di John, cognato della protagonista), Trier oppone il desiderio di un ritorno pre-razionale alla natura, agli elementi, come già era accaduto nel precedente Antichrist e come sarà anche in alcuni momenti dei successivi Nymphomaniac [id., 2013] e La casa di Jack [The House that Jack Built, 2018]. Da questo punto di vista, infatti, Melancholia si pone come racconto propriamente mitico, in cui al desiderio di annullamento nichilistico dell’«apocalittico» Trier si unisce, appunto, lo strumento del mito inteso quale racconto, come ben esplicitato dal grande filologo Karl Kerényi, strettamente connesso ad una spiritualità pre-filosofica e, al contempo, espressione di un mistero profondamente legato alle ragioni dell’esistere. Un mistero che, nell’ottica del regista di Dogville [id., 2003], può essere compreso (com-preso, «preso insieme») solamente attraverso la condivisione fideistica e “religiosa” della forza primordiale (pulsionale) della natura (poco prima dello schianto di Melancholia, nel film, la protagonista Justine, la sorella Claire e il figlio di quest’ultimo costruiscono una sorta di “capanna magica”).

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Volendo forzare questo assunto “mitico”, possiamo in fondo intravedere nella fine del mondo simbolica raccontata dal film una reminiscenza del mito norreno del Ragnarǫk. Semplificando a grandi linee, il Ragnarǫk (da noi traducibile con l’espressione, guardacaso, wagneriana, di “caduta degli dei”: la musica di Wagner, dall’overture del Tristano e Isotta, scandisce l’apertura del film) rappresenta la fine del mondo in attesa di una sua futura rinascita. Più che il corollario di distruzione terrena e celeste, è però interessare tirare in ballo due astrazioni ad esso legate. Da una parte, il Ragnarǫk è infatti l’affermarsi del caos nel mondo: «il caos regna» anticipava già, con un motto funebre e apocalittico, la volpe di Antichrist. Dall’altra, rappresenta invece l’attestazione del paradosso di un vuoto pieno di senso. Entrambi questi concetti sono originati da una causa comune: il dissolvimento di tutti i confini, in particolare quelli tra uomo e natura.

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Ed è proprio quest’ultimo uno degli aspetti fondamentali di Melancholia. La differenza fondamentale tra Claire e Justine risiede proprio nella volontà di quest’ultima di annullare ogni dialettica, reale o simbolica, che obliteri la percezione del mondo. Se questo stesso mondo appare sempre più come uno spazio frazionato e disomogeneo («Chaos reigns»), l’unico strumento – badiamo bene: agli occhi di Justine (e di Trier) – per abbracciarne nuovamente le potenzialità è quello di disperdere le linee di separazione, far disgregare la dialettica degli opposti in nome di un panteismo tanto generico quanto, per certi versi, affascinante.
Come nel più importante (e forse unico) testo puramente epico del nostro presente, lo straordinario Omeros di Derek Walcott, l’uomo può ridonare senso a se stesso sciogliendo le briglie della cultura per cercare di rivitalizzare un rapporto con la Natura che, pure, forse, è irrimediabilmente perduto.
È, come al solito, nell’eccesso, nello sbilanciamento, nell’eccedenza della misura, che Trier trova forse una remota possibilità di salvezza: nel suo cinema, «una (parziale) liberazione anche personale e creativa [nasce] non tanto da un difetto, quanto da un eccesso della percezione di sé e dell’Altro»9. Due dimensioni, l’Io e l’Altro da Sé, destinate, inevitabilmente, a collidere come due pianeti. Che cosa sarà dopo la distruzione?

(Arianna) Redux

Una volta appurato il fondamento “mitico” del film, cadiamo nella tentazione di svilupparne un ulteriore spunto.
Per farlo, è bene compiere un salto indietro nel tempo di circa quattromila anni, ai tempi della civiltà minoica.

Quasi tutti, probabilmente, conoscono la storia di Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, piantata dall’irriconoscente Teseo sull’isola di Nasso dopo averlo aiutato, attraverso il dono di una spada e del celeberrimo gomitolo, ad uccidere il temibile Minotauro rinchiuso nell’inestricabile labirinto di Cnosso. Non è però così noto che Arianna, inizialmente, era presumibilmente una divinità del pantheon minoico appartenente al mondo dell’agricoltura (e, quindi, alla Terra), profondamente legata al ciclo della vita e della morte, in seguito retrocessa a semplice personaggio del mito.

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Compiamo ora un salto in avanti di un paio di millenni, quando Catullo compone il suo celebre Carme 64, dedicato alle nozze di Peleo e Teti.
All’interno di questo epillio (poemetto di gusto alessandrino dedicato ad episodi minori del mito), si trova però un’ampia sezione consacrata al lamento di Arianna, abbandonata da Teseo sul litorale di Nasso, luogo che, nella descrizione che ne dà il poeta, diventa una sorta di deserto freddo e immobile, popolato da animali selvaggi (come in Antichrist?), in cui il tempo sembra aver cessato di scorrere, quasi ci si trovasse nell’attesa di una fine irrevocabile.

L’Arianna di Catullo ha, se vogliamo, diversi punti in comune con la Justine di Trier. Entrambe donne sole e abbandonate in uno scenario di apocalisse imminente, entrambe esiliate ai margini della civiltà, entrambe così profondamente legate alla Terra e al suo tempo ciclico, pre-urbano, naturale. Non solo: la Arianna di Catullo è, per certi versi, parzialmente modellata sulla scorta della Medea così come descritta nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Nell’atto di scagliare l’anatema delle Erinni nei confronti dell’amante che si allontana a bordo della sua nave, Arianna si carica di quello stesso composto magico-stregonesco di cui Medea è campionessa indiscussa. La Justine di Trier, non a caso, è portatrice del medesimo coefficiente sciamanico-divinatorio («I know things»), risultante, anche in questo caso, da un legame più profondo con gli elementi della Terra («rimanete fedeli alla Terra», pregava lo Zarathustra di Nietzsche).

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Sia voluto o accidentale, consapevole o fortuito, l’aggiornamento che Trier ha operato di questo archetipo ci dice come, oggi, in un mondo dominato dal caos e spinto sull’orlo di un’apocalisse (immaginaria o reale), il recupero di una dimensione primordiale, istintuale, terrigena sia possibile solo attraverso il ritorno al mito, alla sua capacità di porsi prima e fuori dalla Storia.

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L’angoscia di Justine, il lamento di Arianna, il dolore di Medea sono la penosa conseguenza della desolazione inestirpabile ed “esistenziale” di tre caratteri femminili posti ai margini del proprio tempo, la cui ansia distruttrice diventa un grido di ribellione (silenzioso o disperato) nei confronti di un mondo che non accetta più la forza degli affetti come strumento per continuare a esistere.

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Concessa a ciascuno la piena e sacrosanta libertà di accusare o meno di eccessivo nichilismo o faciloneria assertiva l’impianto filosofico messo in scena dal regista, bisogna però ammettere che è proprio in questa consapevolezza, apparentemente così immediata, che risiede tutta l’importanza di un film come Melancholia. Capace com’è di mettere in forma, per eccesso (anche di simboli), una crisi spirituale, assiologica (direbbe Bachtin), universale, la quale, però rimette l’uomo e, paradossalmente, la sua forza creatrice (lo stesso pianeta Melancholia non è che un parto mentale di Justine) al centro del discorso.

NOTE

1. R. Barthes, Miti d’oggi, Rizzoli, Milano, p. 245 

2. N. Vigna, Antichrist, Lo Specchio Scuro 

3. S. Caselli, Nymphomaniac, Lo Specchio Scuro 

4. Vedi l’intervista presente a questo link: http://tlon.it/lars-von-trier-intervista-su-melancholia/   

5. Cfr. con il saggio di Lorenzo Baldassari contenuto in The Neon Demon: Derive Tematiche su Lo Specchio Scuro 

6. S. Lombardo, Madri dissennate: Lars Von Trier e l’Archetipo del Femminile, Lo Specchio Scuro 

7. Si tratti di una nuova modernità, come proposto da Luca Malavasi in Postmoderno e cinema. Nuove prospettive d’analisi o di amodernità, come teorizzato da Ruggero Eugeni ne La condizione postmediale, la contemporaneità oggi ha superato l’età del postmoderno attraverso il recupero di alcune istanze – prima fra tutte: la centralità del soggetto e del suo rapporto con l’ambiente in cui vive – proprie della modernità. 

8. vedi nota 6 

9. S. Arecco, Il cinema breve. Da Walt Disney a David Bowie. Dizionario del cortometraggio 1928-2015, Edizioni Cineteca di Bologna, 2016, p. 355