(L’articolo contiene spoiler e fa ampio uso di immagini tratte da Crimes of the Future)
In Crimes of the Future [id., 2022] David Cronenberg recupera non solo i temi che hanno contraddistinto gran parte della sua produzione cinematografica, ma anche e soprattutto le corrispondenti fissazioni visive e narrative. Il ritorno nostalgico al body horror è il dato più evidente anche a uno sguardo poco attento, ma l’operazione di recupero è ben più estesa: Crimes of the Future è ricolmo di marche stilistiche e di rimandi autoriali, tanto da sembrare un compendio di auto-citazioni e cliché. La visione ne è perseguitata: dai televisori con gli slogan che rimandano a Videodrome [id., 1983] alla commistione organico-tecnologica di artefatti e dispositivi (eXistenZ [id., 1999]), dalla tendenziale mancanza di azione (Il pasto nudo [Naked Lunch, 1991]) alla riflessione sulla necessità del medium tecnologico per raggiungere il piacere (Crash [id., 1996]), dall’ossessione per la chirurgia e la violazione della carne (Inseparabili [Dead Ringers, 1988]) alla spinta maniacale verso la ricerca e la sperimentazione sul corpo (La mosca [The Fly, 1987]), dal corpo tatuato de La promessa dell’assassino [Eastern Promises, 2007] (questa volta a essere tatuati sono gli organi, non la pelle) al mascheramento della verità e all’inganno (A History of Violence [id., 2005]).
L’intento dell’operazione non avviene però nell’ottica della sola rivisitazione nostalgica di quanto esposto in passato. A otto anni dal film precedente, Crimes of the Future sembra porsi a una distanza di sicurezza dal resto della produzione del regista e al tempo stesso volerne rappresentare un superamento. A differenza di tutti i precedenti, Crimes of the Future racconta di una possibilità tangibile di fuoriuscita dallo stato degradato in cui versa (o verserà, ci si immagina) l’umanità. Il termine ‘fuoriuscita’ necessita di essere utilizzato con cura in questo contesto: da una parte, come vedremo, è evidente che il film di Cronenberg si ponga in un’ottica di superamento dei limiti (e del limite) del corpo; al contempo, però, come nei precedenti in Crimes of the Future ci si rifiuta categoricamente di parlare di altro che di corpi e di osservare altro che corpi. Se è vero che una via d’uscita è possibile, essa tutto può essere meno che non-incarnata. Al netto di questa onnipresenza fenomenologica e ontologica del corpo, di cui parlerò anche in seguito, è però vero che Crimes of the Future sembra suggerire la possibilità non solo di evolvere o mutare il corpo, già presente in altri film del regista, ma anche e soprattutto di utilizzarlo come dispositivo formale per arrivare a esprimere l’esistenza di una possibile alterità, per cui il corpo e le sue esperienze siano nient’altro che determinazioni accidentali. In altre parole, e questa non può che essere una provocazione nei confronti del cinema di Cronenberg, propongo di leggere l’interpretazione che Crimes of the Future fornisce del corpo in chiave trascendentale. Cercherò di sostenere, con la dovuta flessibilità, che Crimes of the Future sia non solo summa del cinema di Cronenberg, ma che si ponga nei confronti delle produzioni passate come loro sintesi dialettica. Per cercare di discutere come, recupererò le riflessioni di Paul Schrader sullo stile trascendentale al cinema1, proponendo un’analisi degli elementi che nel film si richiamano a quello stile ed elementi che, invece e inevitabilmente, da quello stile invece prendono le distanze – pur, come vedremo, senza passare mai per una sua negazione radicale.2
Prima di iniziare, qualche parola sulla trama del film. Crimes of the Future racconta di un’umanità che abita ormai un mondo a tutti gli effetti post-apocalittico, pur senza che nulla confermi l’esistenza di qualche catastrofe nel passato. In questi spazi decadenti, gli esseri umani vivono facendo uso di tecnologia semi-organica. Non è ben chiaro se sia a causa dell’uso di queste tecnologie o a causa di cambiamenti ambientali, ma il corpo umano inizia anche gradualmente a mutare, producendo nuovi organi. Tutto il film ruota attorno al rapporto tra esseri umani e la ‘nuova carne’, tra intrighi, doppi giochi e menzogne: c’è chi vuole ‘resistere’ alla nuova carne espiantandosi i tumori dal corpo, chi invece la utilizza per fini artistici, chi vuole impedire che il genere umano si evolva in modo imprevisto, chi vuole tenere sotto controllo questi sviluppi, chi vuole dimostrare a tutti che un’evoluzione è possibile e non da temere. Il protagonista Saul Tenser è un artista che si diletta in singolari performance che culminano nella mutilazione dei suoi nuovi organi – e al tempo stesso è infiltrato per un corpo di polizia, collabora con il governo, e per giunta sembra fare il doppiogioco con dei terroristi intenzionati a usare una sua performance per far capire al mondo che il momento dell’evoluzione è giunto. Il pensiero di Saul resta poco chiaro dall’inizio alla fine del film, ambiguità di cui parleremo anche in seguito.
I temi cardine della poetica di Cronenberg ci sono tutti: post-umanesimo, tecnologizzazione della carne, ridefinizione del corpo e così via. È fondamentale notare però che, al fianco di questi, Crimes of the Future formuli un comparto narrativo sorprendentemente aperto, e al contempo ne integri uno stilistico che sembra richiamare appunto lo stile trascendentale così come identificato da Schrader. Strutturerò il resto dell’articolo riflettendo su tre nuclei concettuali, visivi e stilistici: lo spazio, il corpo e la performance. In conclusione, rifletterò sul trascendentale nella scena finale del film.
Lo spazio
Difficilmente si parla del cinema di Cronenberg partendo dall’analisi degli spazi. Ciò non significa che nel cinema dell’autore canadese il concetto di spazio non sia centrale, come nota Dylan Trigg3. Le orribili mutazioni al centro de La mosca si originano a partire dall’esigenza di attraversare lo spazio. Il feticismo per le auto di Crash a sua volta riguarda tecnologie che, fondamentalmente, danno agli esseri umani di muoversi nello spazio più velocemente. Il cinema di Cronenberg è sì ossessionato dal corpo in quanto «elemento essenziale della condizione umana»4, ma al tempo stesso lo intende come situato nello spazio, o se vogliamo in conflitto con esso. In questo senso, la relazione tra corpo e spazio nei film di Cronenberg è spesso di sproporzione – è anche nel tentativo fallito dominare lo spazio che i corpi vanno incontro a trasformazione e disfacimento.
In Crimes of the Future la messa in scena dello spazio assume una rilevanza particolare. Anche qui il corpo, in quanto fulcro di esperienza in senso fenomenologico, è quasi sempre il protagonista assoluto della scena. Degli spazi in cui si ambienta l’azione ci è dato ben poco: sono luoghi decadenti, divorati dalla muffa, più simili a quelli periferici e suburbani di Silent Hill [id., Konami, 1999] che a rovine post-apocalittiche. È raro che nei pressi di un personaggio, o alle sue spalle fuori-fuoco, non si vedano muri crollati o macchiati, finestre sporche, aloni di umidità. Eppure, a eccezion fatta di pochi establishing shot, non accade quasi mai che i luoghi in sé diventino protagonisti della visione, con una netta prevalenza di mezzi primi piani e primi piani su campi o panoramiche.
Benché il corpo sia protagonista, nel film lo spazio assume una sua centralità anche a livello visivo. Anzitutto Crimes of the Future affianca io e mondo e quindi corpi e spazi, in questo senso recuperando quasi uno slancio espressionista: il corpo in disfacimento è contornato da un mondo in disfacimento. Disfacimento non equivale in questo caso a morte, bensì a cambiamento («human bodies are changing» sentiamo dire al protagonista). Come i corpi hanno smesso di provare dolore e hanno iniziato a produrre nuovi organi le cui funzioni sono ancora da scoprire, così gli spazi sono decadenti e quasi del tutto rifunzionalizzati: le abitazioni sono diventate case d’arte, i magazzini e le rimesse luoghi in cui si vive, e al contempo anche gli uffici governativi (o pseudo-tali) sembrano essere in corso di ridefinizione e assestamento – proprio come i corpi umani. Al contempo, gli spazi sembrano aver raggiunto l’epoca futura senza passare per quella contemporanea – sono in altre parole luoghi abbandonati, alla deriva (e infatti ci sono i relitti), che l’umanità abita ma lasciando in uno stato di incuria evidente. La mancanza di ristrutturazioni e di manutenzione è evidente e gli unici pezzi di mobilio che sfuggono al decadimento e che ancora sembrano funzionali sono gli oggetti tecnologici prodotti dalla LifeFormWare.
Avendo così poco respiro nelle inquadrature, lo spazio diventa claustrofobico. Il senso di soffocamento è rafforzato dalla contrapposizione concettuale e visiva tra luoghi e corpi (che, come abbiamo visto, rende i secondi un’ossessione e consegna i primi alla deriva), nonché da un uso dell’illuminazione che predilige la penombra, l’oscurità, e che solo a tratti utilizza fasci di luce decisi – quasi per ‘imprigionare’ i corpi in una piccola porzione del visibile, separata dal buio circostante.
A partire da queste considerazioni, viene da riflettere su un primo possibile rimando allo stile trascendentale in Crimes of the Future. Lo stile trascendentale, come scrive Schrader, si gioca anzitutto sulla creazione di una sproporzione tra io e mondo – e quindi tra figura umana e spazio – al fine di svelare l’inadeguatezza del mondo dell’esperienza sensibile. Se lo stile trascendentale mira proprio a svelare la superficialità del mondo esperibile, la claustrofobia di Crimes of the Future sembra porsi nella stessa ottica. Il ricorso alle inquadrature fisse e a un sistematico evitamento di immagini belle fini a sé stesse (che distrarrebbero dalla riflessione in atto nel film)5 instaurano nello spettatore un senso di insoddisfazione e soffocamento che diventa poi innesco per la ricerca del trascendentale. L’uso che Cronenberg fa dello spazio nel film, in altre parole, ce lo presenta come una gabbia. Non a caso, potremmo descrivere questi luoghi con le parole che Alberto Libera usa per parlare di quelli di First Reformed [id., 2017] di Schrader, esponente della ricerca trascendentale: «una realtà asfissiante e claustrofobica. Un mondo trasformato in prigione in cui [il protagonista] si aggira come un fantasma tra le rovine, alla ricerca di un atto eversivo […] che ridoni un senso all’esistente». Seguendo Schrader, che ripercorre la metafora della prigione (e la dicotomia corpo/anima alla sua base) come un’immagine-chiave del pensiero occidentale6, potremmo dire che il senso di prigionia, costante del cinema di Bresson e ricorrente nello stile trascendentale tutto (basti pensare al recente Il collezionista di carte [The Card Counter , Paul Schrader, 2021]) diventa in Crimes of the Future un regime visivo: lo spazio – e quindi tanto il mondo, quanto l’inquadratura – è una prigione.
A tratti, lo spazio del film sembra proprio citare quello di First Reformed di Paul Schrader, come nel caso dell’imbarcazione arrugginita alla deriva.
Anche il modo in cui i personaggi attraversano questo spazio è associabile allo stile trascendentale. La recitazione in Crimes of the Future è fatta di pose plastiche, pochissime azioni, espressioni appena accennate e voci flebili, che rimandano a un uso degli attori come automi, o in questo caso zombie. In questo, i protagonisti del film sembrano istruiti alla non-espressività come i personaggi di Bresson o di Ozu: come nel cinema trascendentale, la loro performance dà l’impressione che non siano in pieno controllo dei loro stessi corpi7. I luoghi del film sono popolati di non-morti che a malapena si muovono, se non per ritrarsi (come Saul quando viene baciato da Timlin). Dal punto di vista narrativo, è chiaro che questo rimandi all’atrofizzazione della carne che è al centro del racconto del film. Ma questa alienazione anche recitativa indica anche un allontanamento dallo psicologismo nella recitazione, la ricerca di una «fisiologia dell’esistenza»8, e senza dubbio anche un allontanamento dal mondo che abitano – di nuovo, si torna alla sproporzione tra io e mondo che è tipica della ricerca trascendentale.
Il corpo
Ma cosa succede di preciso al corpo in Crimes of the Future? Anzitutto, non è più un corpo funzionante. Si sta evolvendo, e in modo tutt’altro che gradevole. Le mutazioni che subisce (o produce?) non sono empowerment sensoriali, anzi sembra che i risultati più tangibili di questa evoluzione per adesso siano stati la perdita del dolore, lo stravolgimento del piacere, e la crescente difficoltà a nutrirsi. I ‘nuovi organi’ che vediamo sono tutt’altro che utili: le orecchie aggiuntive del ballerino hanno funzione cosmetica, ma non sentono; i tumori che le persone dicono di avere o si espiantano non hanno alcuna utilità per l’organismo. Trasformandosi, il corpo diventa sempre più debole. È un corpo che non prova più dolore né piacere come li conosciamo oggi – raramente vediamo mangiare senza dolore e non assistiamo mai a un coito vero e proprio. È un corpo per lo più passivo, immobile, e quando non immobile per lo meno remissivo. Sembra il corpo di un non-morto: non solo è quasi del tutto inerte, perde anche pochissimo sangue quando viene lacerato.
Gli unici corpi che si nutrono senza problemi mangiano della plastica. Il primo di questi è proprio all’inizio del film: quello del bambino. Qua è necessario rilevare che il corpo del bambino è anche un corpo che viene presentato (e visto, dalla madre) come mostruoso: quando mangia la plastica, secerne un liquido bianco che fa pensare a quello acido de La mosca. Mangia furtivamente, nascondendosi alla vista come una creatura che ha paura di essere predata. La madre stessa lo definisce come una creazione, come se non fosse un essere umano. Sembra quindi chiaro, a partire da questo e dalla proliferazione di personaggi e organizzazioni che vogliono ‘resistere’ alla trasformazione dei corpi, che il corpo stesso sia ormai qualcosa con cui difficilmente gli esseri umani vogliono scendere a patti. Avendo perso le sue funzioni primarie – piacere, dolore, nutrimento – è come se il corpo fosse diventato identico al mondo che abita e agli spazi che lo circondano: è lasciato alla deriva. Tutto il film ruota attorno alla difficile scesa a patti della carne e delle sue trasformazioni.
Qua, ancora più che nel rapporto con gli spazi, Crimes of the Future si pone in ottica trascendentale, forse addirittura aiutandoci a reinterpretare, retroattivamente, la lettura che Cronenberg ha sempre offerto del corpo. Nel film, il corpo è evidentemente una gabbia cui si è condannati. In questo, la sua somiglianza con lo spazio circostante è ancora più evidente: i personaggi sono prigionieri delle inquadrature, dell’oscurità e in ultima analisi anche della loro stessa carne. Come l’ambiente in rovina, il corpo è l’unica possibilità è ‘casa dell’essere’, e proprio per questo diventa la prima (e definitiva) prigione dell’uomo.
Nel corpo del futuro, la lacerazione diventa erogena.
Il film è ossessionato dal corpo e al tempo stesso ne racconta, oltre che la mutazione, la lesione. Il corpo sembra consentire di provare ancora qualcosa solo quando viene ferito. La chirurgia diventa non solo una performance artistica, ma anche una nuova forma di sessualità. Soltanto rompendo la prigione, tagliandola, aprendola a forza i protagonisti riescono a sentire di nuovo qualcosa, e più nello specifico piacere. Questo, significativamente, non può che avvenire tramite l’uso della tecnologia.
Lacerare il corpo per provare di nuovo piacere: il ruolo di vecchie tecnologie viene ridefinito.
Per Cronenberg un mondo al di fuori del corpo e della tecnologia è impossibile – ma dall’inizio alla fine in Crimes of the Future i personaggi cercano di combinare le due cose per imporre la propria volontà sulla carne, sia come atto di resistenza, sovversione, o come tentativo di trascendenza. Siamo di nuovo, in modo sorprendentemente esplicito, nel campo dello stile trascendentale. Se in ottica trascendentale il mondo sensibile è limitante, il corpo è una prigione – e diventarne consapevoli non può che condurre all’autolesionismo. «Quando il corpo viene visto come prigione, la tendenza naturale è l’auto-mortificazione» scrive Schrader9: nello stile trascendentale, la libertà dell’anima diventa libertà dal corpo, sul corpo, attraverso il corpo. Come nota Alberto Libera a proposito di Hardcore [id., Paul Schrader, 1979], anche qui la carne viene trasformata in un insieme di segni, una superficie attraverso cui riscrivere il rapporto tra io e mondo (tra uomo e spazio): «lo stesso impulso all’automutilazione e all’autolesionismo ha cessato di assolvere ad una funzione auto-medicante e si è trasformato in mera performance di un corpo inteso come pura possibilità» scrive Libera, «scrivere il/sul proprio corpo significa riesplorarne le potenzialità e contemporaneamente cercare di riattivare il rapporto con uno spazio che non si riesce più ad abitare». Crimes of the Future sembra favorire una interpretazione letterale di queste parole: il mondo è al collasso, è letteralmente inabitabile, e il protagonista cerca nella mutilazione del corpo – che ne diventa riappropriazione, ridefinizione e risignificazione – la risposta al proprio impasse esistenziale.
Non sembra allora del tutto fuori luogo rileggere la riflessione sul corpo di Crimes of the Future in un’ottica trascendentale. Come nota Schrader, la rappresentazione della finitezza è generalmente precondizione per la ricerca del trascendentale: come nello stile trascendentale, nel film l’attenzione morbosa per il corpo è «all’insegna di una sorta di materialismo laico che solo attraverso la lesione, la menomazione, la ‘messa in scena’ del corpo sconfina in una sorta di metafisica del sacro» (scrive di nuovo Libera a proposito di First Reformed). Crimes of the Future è sì ossessionato dalla presenza del corpo, inteso come fulcro fenomenologico e prima tecnologia del sé, ma al contempo sembra essere alla ricerca disperata di una possibilità ulteriore, che solo la trasgressione e menomazione della carne possano suggerire – ovvero la possibilità del trascendente. Questo coincide, a ben vedere, con la ricerca del senso ultimo dell’esistenza quanto della carne stessa. Il che ci porta a un altro nucleo tematico di Crimes of the Future: la mutilazione come performance artistica, e la performance artistica come costruzione (o meglio: ‘evocazione’) del senso.
Il corpo come prigione e la mortificazione della carne in First Reformed.
La performance
Oltre che un film sul corpo, Crimes of the Future è evidentemente un film sull’arte. Più che dare risposte o definizioni, il film rigetta di netto un approccio analitico al concetto di arte e si concentra piuttosto sul far proliferare domande e ambiguità. Non è chiaro, per esempio, in che cosa consista l’‘arte’ di Saul nello specifico (è la generazione spontanea di nuovi organi? È la pratica del tatuarli? La chirurgia e la rimozione? Oppure ancora la registrazione di tutto il processo?) né chi sia il vero artista (Saul? Il suo corpo? La sua partner, Caprice, che effettua le operazioni vere e proprie?), né per quale motivo si tratti di arte (è la resistenza alla deriva del corpo a essere artistica? Oppure è la trasformazione stessa? E che cosa distingue, a questo punto, ciò che è artificiale da ciò che invece è naturale?). Quel che è certo è che tutte le performance artistiche presenti passano per il medium del corpo, sia che venga arricchito artificialmente di nuovi pezzi (il ballerino con le orecchie aggiuntive), sia che venga modificato (la modella che si taglia il viso) sia che invece venga apertamente mutilato (nel caso di Saul). L’arte, nel mondo del futuro descritto da Cronenberg, è un’azione effettuata sul corpo o a partire dal corpo.
Due sono poi le caratteristiche essenziali per la definizione di performance artistica in Crimes of the Future, ed entrambe sembrano prese in prestito dalla definizione essenzialista di Arthur Danto10. La prima è l’intenzionalità (nel film Wippett la chiama «the question of will»): sia quello che sia, la performance artistica viene riconosciuta nel momento in cui si identifica una intenzionalità. Alcuni sono convinti che sia Saul a imporre il proprio volere sul corpo, producendo (forse inconsciamente) i nuovi organi e poi trasformandoli in arte («He takes the rebellion of his own body and seizes control of it. Shapes it, tattoos it, displays it, creates theatre out of it» spiega Timlin), altri pensano invece che l’intenzionalità alla base delle performance sia quella di Caprice, che effettivamente tatua, registra e asporta gli organi di Saul («looks to me as Caprice is the artist, Tenser is just a glorified organ donor»).
Al tempo stesso, alcuni si chiedono che cosa il suo corpo voglia dire producendo tutti quei nuovi organi (interpretando la carne di Saul come vera artista e Saul come medium?). A ben vedere, infatti, la seconda proprietà che definisce l’arte nel film è proprio il significato, o meglio ciò che Danto chiama aboutness: le performance in Crimes of the Future sono ‘a-proposito-di-qualcosa’, è cioè necessario interpretarle in quanto metafore per coglierle in quanto opere d’arte. Di questo si parla svariate volte nel corso del film. Le tecnologie utilizzate dal protagonista sono in grado, dice, di ‘estrapolare significato’ dai suoi organi. E il significato è anche al centro dell’impatto che hanno le sue performance: «it has meaning, very potent meaning, and many many people respond to it» dice Timlin. La riflessione sul significato ha esiti paradossali: se è vero che la performance produce dei significati nuovi, sembra che in parte estrapoli anche dei significati già presenti nei nuovi organi nati spontaneamente. In altre parole, si arriva a questionare la distinzione stessa tra artificiale e naturale: se l’opera d’arte è definita dall’intenzionalità di un autore, che significato può avere un organo? E se un organo ha un significato, come distinguere ancora tra opera d’arte e oggetto naturale?
È anche a partire da questi nuclei tematici che viene da leggere Crimes of the Future in chiave trascendentale. La ricerca trascendentale, per definizione, si volge a ciò che è altro dai sensi, ma anche da ciò che è determinabile razionalmente – quindi da significati, definizioni e determinazioni linguistiche. In altre parole, e qua mi rifaccio all’intervento di Umberto Galimberti sul sacro citato anche da Alberto Libera a proposito di First Reformed, la ricerca trascendentale mira a ciò che è indifferenziato, e che trascende quindi l’attribuzione di significati univoci propria del nostro linguaggio. Il sacro, in quanto indifferenziato, è passibile per Galimberti di infinite significazioni possibili – la ricerca del sacro si muove allora, oltre il dato sensibile e i significati attuali (linguisticamente, culturalmente definiti), verso una ri-significazione del reale. In questo, Crimes of the Future sembra seguire lo stile trascendentale con una certa precisione: se il corpo è l’unica realtà possibile (che è una costante del cinema di Cronenberg quanto del suo pensiero, e che torna in forma di slogan ripetuto dai televisori – «body is reality»), allora una sua ri-significazione attraverso la performance artistica sembra porsi proprio nell’ottica della scoperta di un senso ultimo dell’esistenza al di là del significato nominale – prospettiva della ricerca trascendentale. Il processo che porta la ‘nuova carne’ di Crimes of the Future a diventare arte (o a venir trasformata in arte) ruota tutto attorno alla ricerca di un senso, inteso non come nuova prigione del significato, ma come indifferenziazione e compossibilità di tutti i significati.
La ricerca di Saul non è orientata a fornire delle risposte. Le sue performance mirano a ri-significare la carne, ovvero a riscoprirne la dimensione sacra, attraverso la menomazione. Questo diventa ancora più significativo se messo in prospettiva del sottotesto politico del film. In Crimes of the Future, i corpi in trasformazione vengono tenuti sotto controllo da governi, poteri forti, e corpi di polizia. Si parla dei corpi come di entità insurrezionali e delle loro trasformazioni come di atti sovversivi. Qual è il ruolo dell’arte di Saul in un mondo in cui l’evoluzione incontrollata viene temuta e addirittura soppressa da tutte queste organizzazioni? Auto-mutilandosi, Saul riafferma forse una qualche dimensione originaria della carne, facendo il gioco dei potenti che osteggiano la sua evoluzione? La ricerca del protagonista sembra prescindere da dinamiche simili. Anche quando accetta di effettuare l’autopsia sul bambino, Saul sembra disinteressato alle implicazioni politiche della sua scelta. La sua arte, voglio dire, non è politica: è sacra. Il tentativo di imporre una propria volontà sul corpo in continua trasformazione non rispecchia il conservatorismo delle organizzazioni per cui lavora in segreto, è piuttosto il tentativo di ridare un senso alla materia, di rompere la prigione del corpo, e di ri-significare la carne nel tentativo di evocare una dimensione altra dell’esperienza, dell’io, quindi del corpo stesso.
Il risultato ultimo di questo processo è uno dei finali più significativi di tutto il cinema di Cronenberg.
Il finale
L’evoluzione del corpo, spesso presentata nei termini di una tecnologizzazione, è da sempre accolta con sospetto in Cronenberg. Sebbene tutto Crimes of the Future sia accompagnato dallo stesso sospetto, il finale sembra invece suggerire una prospettiva diversa.
Alla fine del film si scopre che, malgrado gli sforzi di governi e organizzazioni più o meno segrete di tenere sotto controllo l’evoluzione dei corpi, la produzione spontanea di nuovi organi è in grado di portare a una mutazione genetica che si mantenga di generazione in generazione. E non una mutazione qualsiasi: la chiave per sopravvivere in un mondo degradato e inospitale – ovvero la capacità di nutrirsi di plastica. La scoperta finale getta una nuova luce su tutto il racconto: le tecnologie della LifeFormWare, atte a limitare per esempio i dolori durante il pasto o ad allietare il sonno, si svelano tecnologie di controllo, atte a prevenire l’evoluzione del corpo e costringere gli umani alla loro vecchia forma (e alle loro vecchie abitudini). Mangiare cibo normale è doloroso e si può fare soltanto con l’ausilio di una macchina. Mangiare plastica invece è indolore. Volendo riflettere sul ruolo della tecnologia nel film, abbiamo quindi due scenari e ruoli diversi: in uno, la tecnologia è finalizzata al controllo e previene l’evoluzione del corpo; nell’altro, ci si emancipa dalle tecnologie di controllo, ma si accetta una tecnologizzazione forse ben più pervasiva: si consuma cioè un nutrimento che è tecnologizzato a monte (la plastica) e ulteriormente trattato tecnologicamente per essere reso commestibile (i macchinari che producono le barrette). La tecnologia, nel secondo scenario, non è più un apparato di controllo – ma viene accettata come precondizione dello stare al mondo.
Nell’ultima scena, Saul si arrende e accetta di mangiare la plastica. Nel momento in cui lo fa, Caprice corre a riprendere il tutto con uno dei dispositivi normalmente utilizzati per le loro esibizioni. Per quanto non venga esplicitato, sembra quindi che questa ultima performance erediti il significato e gli obbiettivi dell’autopsia sul bambino morto che è al centro di molti sviluppi narrativi del film.
Da un punto di vista stilistico è fondamentale notare come inquadratura e gestualità ricordino la Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer (La passione di Giovanna d’Arco [La passion de Jeanne d’Arc, 1928]). In particolare, l’ultima inquadratura riprende il capolavoro di Dreyer non solo nell’uso del bianco e nero, ma anche e soprattutto nel recupero dell’iconografia cristiana della santità. Saul Tenser, preso frontalmente, guarda al cielo e versa una lacrima in un’espressione che è al tempo stesso smorfia di martirio e di estasi, nella tipica confusione legata alla rappresentazione della santità11. Al posto della corona di spine che la donna indossa in segno di scherno, dietro la testa di Saul si intravede il poggiatesta di ossa della sedia della LifeFormWare su cui stava cercando di mangiare cibo tradizionale fino a pochi momenti prima. Non è facile determinare se questo sia un finale positivo o meno. La lacrima del protagonista è di piacere e di dolore al contempo e il suo mezzo sorriso estatico potrebbe indicare che si è arreso o che stia in qualche modo ascendendo, abbracciando la sua nuova natura. In questo senso, questa conclusione nella sua ambiguità riconcilia, o meglio sintetizza, visioni del mondo opposte.
Non solo nel finale si incontrano, e come già detto svelano, molte delle tematiche del film. Soprattutto, esso si rifà chiaramente a rappresentazioni, iconografie e tradizioni che rimandano all’esperienza di un oltre, del sacro. Più esplicitamente che in ogni altro aspetto del film il finale ci consegna Crimes of the Future come rimodulazione dello stile trascendentale. Come il prete de Il diario di un curato di campagna [Journal d’un curé de campagne, 1951] di Robert Bresson, dopo un processo di progressiva mortificazione della carne Saul «si arrende alla volontà di Dio»12. In Bresson il corpo è la prigione, la mortificazione è ri-significazione, la morte è liberazione. In Crimes of the Future, il passo finale resta invece indeterminato: non è chiaro se Saul sopravviva all’ingestione della plastica o meno, e quindi se la sua estasi sia per la morte imminente o perché realizzi di essere in grado di nutrirsi di materiali incommestibili.
Malgrado questo, la scena mostra chiaramente un’«azione decisiva»13 (mangiare la plastica) in cui culmina quello stato di disparità tra io e mondo su cui il cinema trascendentale si sofferma – «un moment decisif», utilizzando le parole di Jean Semolue. Tale momento cruciale, che sublima la disparità e ci mostra il protagonista finalmente in grado di cogliere la dimensione trascendente dell’esistenza, si sostanzia per di più nel «miracolo delle lacrime» proprio come in Dreyer o in Ozu.14 È il momento in cui, per rifarci ai tre momenti dello stile trascendentale per Schrader, Crimes of the Future passa dalla rappresentazione della disparità a quella della stasi. In altre parole, Saul accetta la sua stessa natura, trascendendo il conflitto io-mondo. Scrive l’autore:
La stasi è il prodotto finale dello stile trascendentale […]. Ci sono un prima e un dopo definiti, un periodo di disparità e uno di stasi, e in mezzo un momento culminante della disparità, un’azione decisiva, che innesca l’espressione del trascendente […]. L’azione decisiva non risolve la disparità, ma la congela nella stasi. Per la mente che trascende, uomo e natura sono bloccati in un conflitto eterno, ma sono paradossalmente la stessa cosa. In Ozu, come nello Zen, […] l’uomo è di nuovo tutt’uno con la natura, ma senza tristezza.15
Mangiando la plastica Saul accetta la sua nuova carne e resta letteralmente bloccato in quella «stasi completa, o movimento congelato, [che] è il marchio dell’arte religiosa in ogni cultura esistente»16. La sua è un’azione decisiva che «esprime l’intima unità di tutte le cose»17: che muoia o che sopravviva, Saul ha trasceso il conflitto tra io e mondo (significativamente: l’impossibilità stessa di nutrirsi) e quindi, una volta per tutte nel cinema di Cronenberg, tra artificiale e naturale. Malgrado Crimes of the Future non sia esclusivamente concentrato sul trascendente [come molti altri film di cui parla Schrader, op. cit., 52], il rimando allo stile trascendentale dà all’immaginario del regista canadese uno slancio inedito.
Nei precedenti episodi della filmografia del regista il trascendente viene sistematicamente negato. EXistenZ, tra gli altri, rende più esplicito che mai questo processo. Nel momento in cui si scopre che realtà e finzione sono tutti parte di un meta-videogioco, TransCendenZ, ogni fuoriuscita dal mondo virtuale si svela portare soltanto a una virtualità ulteriore, rendendo di fatto impossibile distinguere tra realtà e finzione (e quindi tra naturale e artificiale). In eXistenZ, come nella gran parte della produzione di Cronenberg, fuoriuscire dalla gabbia tecnologica è impossibile se non attraverso atti violenti di autodistruzione, spesso anch’essi riassorbiti e neutralizzati dal flusso tecnologico. Crimes of the Future invece si conclude con un’estasi, ben più permissiva in termini di interpretazione rispetto, per esempio, al colpo di pistola non sparato che chiude Cosmopolis [id., 2012]. Di nuovo, non è detto che Saul muoia dopo aver ingerito la plastica. In Crimes of the Future, un nuovo corpo e una nuova esistenza sono possibili e la morte o la distruzione non sono le uniche via d’uscita. Il subentrare dei titoli di coda è più che significativo da questo punto di vista: come è proprio dello stile trascendentale, «l’Invisibile viene evocato e non rappresentato»18.
Un ultimo elemento su cui occorre riflettere a proposito del finale è la cornice meta-testuale, e cioè sul fatto che lo sguardo estatico di Saul ci viene mostrato in una delle pochissime inquadrature-dentro-l’inquadratura di tutto il film. Qualcosa di simile avviene anche in Dreyer, in cui lo sguardo di Giovanna d’Arco ci è mostrato tramite la soggettiva di uno dei suoi aguzzini (che la guardava facendo il verso del cannocchiale con la mano). Qua al posto delle mani c’è un dispositivo tecnologico di registrazione.
Il bianco e nero, che rende opaca la mediazione tecnologica in atto e chiarisce che stiamo vedendo il registrato di Caprice, non può che invitare a una considerazione ulteriore del ruolo della tecnologia in questa rimodulazione dello stile trascendentale. L’immagine che ‘risolve’ le tensioni del film, ovvero l’azione decisiva che trascende le infinite contraddizioni dell’esperienza umana (naturale/artificiale; io/mondo) e le mostra «come qualcosa di unitario, permanente, trascendente»19, è per l’appunto un’immagine-nell’immagine, un’immagine registrata. Come se soltanto la tecnologia e uno sguardo artificiale potessero cogliere il trascendente. Non solo: lo sguardo tecnologico del registratore di Caprice non è soltanto artificiale, è anche artistico – l’estasi di Saul è anche una performance. In questo Crimes of the Future sembra riaffermare la forza stessa dell’arte trascendentale. Esprimere il trascendente è possibile solo attraverso arte e tecnologia, e così l’estasi in cui le contraddizioni dell’esistenza vengono a unificarsi non può che essere un’immagine doppiamente filtrata: in prima istanza tecnologica, in seconda istanza performata.
NOTE
1. Schrader, P. (1972) Transcendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer, Da Capo Press, New York.
2. Malgrado alcuni concetti saranno di volta in volta introdotti lungo il testo, una lettura del volume di Schrader è comunque consigliata per comprendere appieno alcuni passaggi di questo articolo.
3. Trigg, D. (2011) The Return of the New Flesh: Body Memory in David Cronenberg’s The Fly, Film-Philosophy, 15(1), 82-98.
4. David Cronenberg in un’intervista alla CBC Radio.
5. Schrader, P., op. cit., 68.
6. Idem, 88-89.
7. Idem, 66.
8. Ibid.
9. Idem, 89.
10. Danto, A. (1981) The Transfiguration of the Commonplace, trad. it. 2008.
11. Si veda a tal proposito Lino, M. (2014) Le urgenze del visivo maschile: retoriche del male gaze nella cultura dello snuff e dell’hard-core tra cinema e letteratura, Between, 4(7); già citato scrivendo di Nymphomaniac [id., Lars von Trier, 2013].
12. Schrader, P., op. cit., 89.
13. Idem, 42.
14. Idem, 51.
15. Ibid.
16. Idem, 49.
17. Idem, 51.
18. Ayfre, A. (1960) Cinema et Ia Foi Chretienne, Paris: Librairie Artheme Fayard, 85, in Schrader, P., op. cit., 111.
19. Schrader, P., op. cit., 51.