Tra i grandi registi del cinema americano, Paul Schrader è stato e continua ad essere il più ineffabile. Anche quando squadernava sul tavolo da lavoro un capolavoro dietro l’altro – Tuta blu [Blue Collar, 1978], Hardcore [id., 1979], American Gigolo [id., 1980], Il bacio della pantera [Cat People, 1982] e Mishima: una vita in quattro capitoli [Mishima: A Life in Four Chapters, 1985] sono i suoi primi cinque lungometraggi – il suo operato si è sempre contraddistinto per un’apparente discontinuità di formule, generi, stile. Difficile ingabbiarlo nel reticolato di una politique des auteurs sempre troppo pronta ad attribuire etichette sulla base di un generico continuum estetico-linguistico (per cui, ecco il capestro di moduli critici quali l’escapismo disimpegnato e postmoderno di Lucas e Spielberg, la frammentazione di io, mondo e linguaggio di Altman, il titanismo magniloquente di Coppola e Cimino, il voyeurismo hitchcockiano e citazionista di De Palma ecc.). Solo in tempi più recenti, Schrader ha raggiunto il crisma di autore a pieno titolo, ma più per una pur sacrosanta assonanza tematica – confortata tanto dalla lettura del suo saggio Il trascendente nel cinema (tradotto in italiano solo nel 2002)1 quanto dalle reminiscenze della sua attività di sceneggiatore (Scorsese, De Palma, Pollack…) – che per una piena comprensione estetica. Eppure, man mano che la tela cangiante, in stato di inquietudine perpetua, della sua opera va arricchendosi di nuovi momenti, appare sempre più chiaro come l’incostanza e la mutevolezza della sua indagine d’autore siano esse stesse parte di un progetto teso a scandagliare la realtà a partire dalle sue possibilità di rappresentazione. La ricerca di una spiritualità trascendente si verifica attraverso la messa in scena della finitezza, della concretezza (il sex appeal degli oggetti in American Gigolo, la mutazione teriomorfa de Il bacio della pantera, la catena di montaggio in Tuta blu, la forza degli elementi in Affliction [id., 1997] – solo per fare alcuni esempi), dell’immanenza (basti pensare a The Canyons [id., 2013] e alla sua rappresentazione di un modo talmente chiuso nel proprio guscio da sembrare estraneo a qualunque forma di divenire) all’insegna di una sorta di materialismo laico che solo attraverso la lesione, la menomazione, la “messa in scena” del corpo sconfina in una sorta di metafisica del sacro2.

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In questo contesto, inquadrato all’interno di una filmografia così “instabile”, First Reformed [id., 2017] assume una rilevanza particolare. Sorta di rimeditazione de Il diario di un curato di campagna – il romanzo di Bernanos prima ancora del film di Bresson3 – filtrato attraverso la lente di un’austera educazione calvinista ridiscussa per tramite dell’individualismo di Emerson e dell’“esistenzialismo politico” di Melville, l’ultimo lavoro del regista de Lo spacciatore [Light Sleeper, 1992] getta una nuova luce su tutto il lavoro di Schrader e, in particolare, illumina a ritroso i suoi film di questo decennio. Ne si può dare una conferma quasi didascalica. In una scena del film, infatti, il reverendo Jeffers (interpretato, con curiosa scelta di casting, dal comico Cedric the Entertainer) lamenta un mondo che, per le nuove generazioni, risulta designificato dalla proliferazione di una tecnologia alienante, dall’iperviolenza, dalla pornografia e dall’onnipresenza della rappresentazione di una morte sempre più svuotata del proprio senso profondo. Si tratta, programmaticamente, dei soggetti affrontati nelle precedenti tre opere: la«consistenza evanescente»4 (seconda la bella definizione di Sebastiano Lombardo) dell’umanità fantasmatica e residuale di The Canyons, la continua procrastinazione della morte nell’abiurato Il nemico invisibile [Dying of the Light, 2014] (la cui originale partizione “cubista” è stata sconfessata dalla cecità di una produzione che ha imposto a Schrader un rimontaggio “lineare”), la violenza post-pulp di Cane mangia cane [Dog Eat Dog, 2016].

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Alla luce di First Reformed, difatti, appare ora trasparente il filo conduttore che lega l’ultima produzione schraderiana: la disperata ricerca del sacro come unica soluzione possibile all’insensatezza del mondo, alla prigione del nichilismo, «al disincanto e alla frantumazione della nostra immagine del mondo» determinata,«sul piano storico-sociale, (d)ai processi di secolarizzazione e di razionalizzazione»5. In ultima istanza: la ricerca del sacro non si configura semplicemente come paradigma morale o rotta verso cui orientare il proprio agire etico. Il sacro si definisce anche e soprattutto come strumento indispensabile per ridare significato al piano della realtà (terreno sul quale si è mosso, in tempi recenti, anche il suo vecchio sodale Scorsese con lo stupefacente Silence [id., 2016]).

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Se proviamo a rifarci alla riflessione di Umberto Galimberti6 secondo cui il “sacro” è ciò che è “indifferenziato” e quindi passibile di infinite significazioni possibili, ecco che il sacro ci apparirà come un tentativo di offrire un nuovo volto alla realtà in quanto terreno aperto per essere continuamente ri-significato.
Ed è proprio la continua ricerca di un senso il motivo conduttore di questo requiem. Protagonista è il reverendo Toller (interpretato da un Ethan Hawke alla sua migliore performance di sempre, preferito, sul filo del rasoio, a due attori superiori ma più “nevrotici” come Jake Gyllenhaal e Oscar Isaac), ministro protestante ed ex-cappellano militare, passato attraverso la perdita di un figlio e presumibilmente affetto da un cancro allo stomaco, dominato – come quasi tutti i grandi anti-eroi schraderiani – da pulsioni autodistruttive (dall’alcool alle tentazioni suicidarie) frutto dell’impossibilità di riconoscere il proprio posto nel mondo. Decisivo si rivelerà l’incontro con una coppia, l’amore di lei e il suicidio di lui (aspirante ecoterrorista), spinta propulsiva per trasformare la negazione della vita (e del senso) in un nuovo imperativo morale.

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Tutta la vita di Toller si profila proprio come una continua ricerca di senso in un mondo completamente desacralizzato, in cui anche la sua chiesa First Reformed di Snowbridge (ai confini col Canada) è diventata ormai una meta turistica più che un luogo di culto, chiusa nella rete dei grandi interessi corporativistici. La sua crisi esistenziale e spirituale si traduce in una ricerca inappagata di ricomposizione del caos (il diario prima compilato e poi strappato, le frustranti discussioni teologiche con il reverendo Jeffers). Eppure, per uscire dalla gabbia dell’inazione e contrarre quello che lo stesso Schrader ha definito «the virus of a meaningful life»7 è necessario il suicidio di un suo parrocchiano che, per Toller, è – come sostiene, ancora una volta, il regista – una sorta di «figlio surrogato».

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Il suo tentativo di interpretare il lato oscuro del reale si scontra però con la mancata certezza di un destino. Il ritorno a Dio avviene attraverso un riconoscimento della sacralità dell’immanente, mentre il “virus di una vita significativa” prende ambiguamente corpo come progetto terroristico. La distruzione e la catarsi: la tentazione dell’annullamento nichilistico. Più specificamente, secondo una matrice gnostico-melvilliana, la tentazione di «un nichilismo esistenzialistio […] che mediante la annihilatio mundi opera un radicale isolamento dell’anima al fine di ottenere la salvezza e il ricongiugimento con Dio».8
Il gesto del singolo si rivela necessario per superare l’orizzonte del dominio del nulla nella realtà. Una prospettiva quasi cristologica che, più che all’onnipresente Travis Bickle di Taxi Driver [id., Martin Scorsese, 1976], apparenta il reverendo Toller di First Reformed al protagonista di un grande e purtroppo sottostimato film sceneggiato da Schrader negli anni Settanta: Rolling Thunder [id., John Flynn, 1977].

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Ma come superare l’ambiguità di una pulsione all’autodissoluzione che si trasforma in fondamentalismo? Non basta più, come ai tempi di American Gigolo, il riconoscimento salvifico – bressoniano – della grazia. Ancora una volta, il sacro raggiunge la concretezza di una dimensione materiale e tangibilie, manifestandosi attraverso la riscoperta dell’amore terreno. L’amore carnale, in questo senso, supera la sua condizione di surrogato dell’amore spirituale per diventare contemporaneamente strumento di riscatto personale e antidoto alla “malattia” del mondo (di cui la malattia del protagonista è una sorta di succedaneo).

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Attraverso una sorta di rituale mistico-trascendente – quasi suggellando il sogno di Mishima d’imprigionare nella forma il flusso “energetico” della vita – Toller e Mary (due nomi probabilmente non casuali: se l’ascendenza biblica del secondo è più scontata, il primo rimanda evidentemente al noto scrittore e rivoluzionario tedesco morto suicida Ernst Toller9) trovano una sorta di riconciliazione tra l’uomo e il mondo attraverso il contatto dei corpi.

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Più espressionista (il suo è un cinema denso di simboli che riscrivono la superficie del reale per ritrovare la profondità di un’indagine spirituale) che barocco, Schrader sonda il mistero dell’animo umano superando qualunque determinismo di natura autobiografica e religiosa. La fede diventa apertura all’imprevisto, alla riscrittura di se stessi come gesto rivoluzionario necessario per abbracciare il mondo. Non distruggerlo.

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In First Reformed convergono, originando una sorta di dialettica problematica, molte delle ossessioni di Schrader: la dimensione della religione e quella della scienza («il cancro non è una malattia così pericolosa come una volta» – dice il medico durante la visita a Toller), il corpo violato dalla sofferenza e una trascendenza raggiungibile attraverso l’azione e il silenzio (torniamo, ancora una volta, ad American Gigolo, vero e proprio testo archetipico del cinema schraderiano).

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Il punto d’Archimede di tutte queste spinte centrifughe è, come sempre per l’autore di Cortesie per gli ospiti [The Comfort of Strangers, 1990], la forma (in fondo vale quanto diceva Lukács: lo statuto formale diventa statuto “politico”). Non più imbevuta della patina sexual chic degli anni Ottanta e Novanta (sarebbe interessante rileggere Le due verità – Forever Mine [Forever Mine, 1999] come uno dei primi testimoni pre-digitali di una crisi dell’immaginario erotico certificata dal passaggio dal sex appeal del corpo a quello traslucido dell’immagine, ben prima di The Canyons]). Senza nemmeno l’evanescenza quasi didascalica di The Canyons. Piuttosto una forma cartesiana e apollinea, di ascendenza quasi dreyeriana per lo strenuo rigore architettonico-geometrico. Segnata da un inusuale ricorso al 4:3 che, come afferma il regista, permette di riscrivere la portata della presenza del corpo all’interno dell’immagine.

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In questo modo, Schrader racconta di una realtà asfissiante e claustrofobica. Un mondo trasformato in prigione in cui il pastore protestante si aggira come un fantasma tra le rovine, alla ricerca di un atto eversivo (eversione, beninteso, come frutto della manifestazione di un dubbio) che ridoni un senso all’esistente.
Come il Bruno Dumont del coevo (e straordinario) Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc [id., 2017], il grande autore americano s’interroga sulla necessità di riscrivere le forme di racconto del sacro (filtrato da una prospettiva mistico-eretica in Dumont, trascendentalista-emersoniana in Schrader). E lo fa con un’opera rigorosa e concretissima capace, all’improvviso, di deflagrare e aprirsi al metafisico, all’astratto, all’irraccontabile.
Strenua difesa della caducità della vita di fronte all’imperscrutabilità dell’eterno.

Pietà di sé, infinita pena e angoscia
di chi adora il – quaggiù – e spera e dispera
di un altro… (Chi osa dire un altro mondo?).

Eugenio Montale

NOTE

1. Per una riflessione più compiuta dell’influenza del saggio sul trascendente all’interno del processo di creazione mitopoietica di Schrader si consiglia la lettura dell’analisi di American Gigolo, a cura di Sebastiano Lombardo, contenuta su queste pagine. 

2. Per approfondire la funzione del corpo all’interno del cinema di Schrader, si rimanda alla lettura dell’articolo Hard/core: di corpi e uomini, spazi e superfici nel cinema di Paul Schrader, presente su queste pagine. 

3. Il riferimento è a Il diario di un curato di campagna [Le Journal d’un curé de campagne, Robert Bresson, 1951]. Bresson, insieme a Carl Theodor Dreyer e Yasujirō Ozu, è uno dei tre cineasti presi in esame da Schrader nel suo saggio sul trascendente. L’analisi de Il diario di un curato di campagna è proprio una delle parti più illuminanti dell’intero testo. 

4. S. Lombardo, The Canyons, Lo Specchio Scuro  

5. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari, 1999, p. 173   

6. Intervento di Umberto Galimberti sul concetto di sacro, reperibile qui: http://www.asia.it/adon.pl?act=doc&doc=404      

7. Intervista rilasciata a S. Prokopy per Slashfilm. Reperibile qui: http://www.asia.it/adon.pl?act=doc&doc=404
Tutti i riferimenti a dichiarazioni del regista presenti in questo articolo sono tratte dall’intervista presente al link qui sopra.   

8. F. Volpi, Op. cit., p. 123 

9. Il primo a notarlo è stato Aldo Spiniello su Sentieri Selvaggihttp://www.sentieriselvaggi.it/venezia74-first-reformed-di-paul-schrader/