«Il mio inferno sono io.
L’unica via d’uscita, l’unica mia speranza,
è l’altro».
Antoine d’Agata1
Presentato in anteprima nella sezione MaXXI del Festival di Roma 2013, Atlas [id., 2013] è il secondo lungometraggio del fotografo francese Antoine d’Agata: a metà strada fra la finzione e il documentario, è una sorta di diario autobiografico, il racconto di un viaggio con protagonista un’umanità sull’orlo del baratro (prostitute, tossicodipendenti e malati di Aids). Come nel suo primo lungometraggio, Aka Ana [id., 2008], d’Agata (il suo doppio finzionale, A.) figura anche lui tra i disperati, a sottolineare l’assenza di qualsiasi intento moralistico da parte dell’autore. L’universo che d’Agata racconta per blocchi separati e apparentemente autonomi, infatti, gli appartiene profondamente: «l’atlante – scrive Cristina Piccino, facendo riferimento al titolo del film – è dunque una geografia alla prima persona, scritta sul corpo»2.
D’Agata trasferisce le immagini del proprio universo fotografico direttamente sul grande schermo, ma lo spettatore sbaglierebbe nel giudicare Atlas come un collage di immagini fisse slegate fra loro, di fotografie accostate al montaggio: le singole inquadrature e gli altri elementi filmici sono fortemente connessi. Atlas, infatti, è un’opera prettamente cinematografica. Innanzitutto, d’Agata irrobustisce il film con un tessuto sonoro elaboratissimo, fatto di canti dei lavoratori e delle prostitute, melodie, ritornelli. Le voci fuori campo assorbono la narrazione, e contano più per la musicalità della lingua (spagnola, inglese, africana, iugoslava) che per ciò che dicono (a parte il monologo finale, i testi sono stati scritti dagli attanti). Il corpo del film viene così attraversato da forze contrapposte, che lo dinamizzano: le voci over e il campo sonoro stratificato invitano lo spettatore a immergersi dentro il film; le immagini, elaborate, studiate, vere e proprie “fotografie in movimento”, invitano alla contemplazione museale, alla presa di coscienza.
Come altri artisti visuali passati di recente dietro la macchina da presa (McQueen, Neshat), e al contrario di Weerasethakul e Grandrieux (al quale l’autore di Atlas può essere avvicinato solo superficialmente), d’Agata utilizza uno stratificato apparato visivo per informare lo spettatore, per catturarne l’attenzione e costringerlo a guardare immagini che altrimenti, senza il filtro della patina fotografica, non saprebbe né vorrebbe sostenere. Allo stesso tempo, la scelta di pulire le immagini, estetizzarle, non funziona solo come processo di distanziamento dal profilmico: è anche un gesto che annulla lo scandalo dei corpi in scena, e che restituisce agli attanti (che, bisogna ricordarlo, sono davvero prostitute, tossicodipendenti, ecc.) la dignità e la purezza che circostanze sciagurate hanno negato loro agli occhi della cosiddetta normalità. Da qui la potente sostanza etica di Atlas, scambiata erroneamente dai più per malsano voyeurismo. In Atlas, le immagini di sesso e violenza non sono mai morbose: rispetto al film di esordio, l’allucinato Aka Ana, d’Agata fa a meno dei primi piani pornografici nelle sequenze di sesso (il fotografo francese ha però confessato nell’intervista rilasciata alla nostra rivista che è stata la produzione ARTE ad imporgli un approccio meno esplicito3), negando qualsiasi piacere voyeurista, ed è anche per questo che «ciò che altrove, nella cronaca, appare miserabile perché sotto giudizio, qui diviene commuovente pensiero sul corpo e sul suo spazio nell’inquadratura»4. Le prostitute del film di d’Agata sono, di fatto, delle martiri.
Come succede spesso nell’opera fotografica di d’Agata, il reale soggetto di Atlas è la relazione intima che si viene a creare tra l’autore francese e le ragazze riprese nel film. Come in una sorta di journal du tournage5, in Atlas d’Agata esplicita il processo che presiede alla realizzazione delle proprie fotografie, in un cortocircuito vertiginoso tra libertà narrativa (tra cui spicca l’ispirazione letteraria del Bataille di Madama Edwarda) e autobiografia, fiction e documentario. Chi sono le donne che d’Agata riprende? Quale rapporto le lega al fotografo? Sono domande, queste, che rimangono senza risposta, almeno fino alla sequenza finale di Atlas, quando la struttura narrativa pensata dall’autore improvvisamente si svela e si spiega, e il rapporto dicotomico tra finzione e realtà trova una forma compiuta. In filigrana, infatti, prende forma un dialogo a due, tra il regista e una donna fotografata e amata in passato. Lui, d’Agata, è rimasto in una stanza d’albergo; lei è partita. Il film pone lo spettatore davanti a un bivio. D’Agata sembra interrogare il proprio universo poetico, il proprio ruolo di produttore e consumatore di immagini: perché “vedere tutto”, quando potrebbe essere meglio vedere un po’ di meno? Perché sprofondare nell’oscurità, piuttosto che abbracciare la luce?
L’ultimo segmento narrativo di Atlas contrappone elementi antitetici: interni ed esterni, luce e oscurità, primi piani (o piani medi) e campi lunghissimi. Il campo e il fuori campo, un eccesso e una mancanza di visibilità.
Dunque Atlas segna, almeno apparentemente, una progressione nell’universo poetico del fotografo-regista francese. Messo a confronto con la sua copia speculare Aka Ana, si nota immediatamente come il percorso filmico dell’autore francese, alla ricerca di un’impossibile purezza nelle immagini carnali, dell’approvazione della vita fin dentro alla morte, alla maniera dell’amato Bataille, sia andato depurandosi dalle deformazioni baconiane del suo lavoro extracinematografico. I corpi sono sempre al centro dell’inquadratura, ma senza la febbricitante follia delle sue opere precedenti. Il mondo diurno, invece, totalmente assente in Aka Ana, in Atlas è soltanto una presenza fantasmatica, un miraggio: è un’immagine ipnotica del mare, un campo lungo delle case, un piano fuori fuoco di un porto visto attraverso una finestra, una donna folgorata da un fascio di luce.
Ma la principale differenza rispetto al precedente Aka Ana, che finiva nel nero, è che il percorso tracciato da Atlas va dall’oscurità alla luce. Il regista interroga i limiti del visibile, ed esplicita le contraddizioni (e i pericoli) del suo metodo di lavoro. L‘ultimo segmento di Atlas, il più ispirato e toccante, è da questo punto di vista esemplare: protagonista è una donna di lingua inglese la cui voce fuori campo chiama direttamente in causa il regista, lo interroga e accusa; alla fine del film, la macchina da presa segue la donna mentre lei si allontana, immersa nella nebbia. D’Agata non riesce a inquadrarla.
A sinistra: il finale di Atlas. A destra: l’ultima sequenza di Aka Ana.
«Per sopravvivere bisogna fuggire», dice la donna: lei è scappata dal fotografo, d’Agata continua la sua vita di eccessi e disperazione. In risposta alle inquadrature-celle, agli interni soffocanti, ai primi piani febbrili, alle immagini nitidissime e oscene, all’eccesso di sguardo a cui sembrava essersi condannato per sempre il fotografo-regista, l’ultimo segmento di Atlas propone di uscire fuori, darsi alla luce del giorno, sfuggire all’inquadratura. Sottrarsi all’occhio cine-fotografico, e abbracciare il vuoto.
L’ultima sequenza di Atlas è ambientata in esterno. C’è la nebbia, e lo schermo si riempie di un bianco accecante. «È talmente luminoso qui. Cosa fare di tutta questa luce?».
NOTE
1. « Mon infer à moi c’est moi. / Ma seul issue, mon seul espoir / c’est l’autre » da The Cambodian Room: Situations with Antoine d’Agata [id., 2009], un film di Tommaso Lusena e Giuseppe Schillaci.
2. Cristina Piccino, Se la paura di cadere diventa puro cinema, in «Il Manifesto», 17 novembre 2013, https://ilmanifesto.it/se-la-paura-di-cadere-diventa-puro-cinema/.
3. Cfr. Antoine d’Agata, in Lorenzo Baldassari (a cura di), «Quello che mi interessa è la vita, questa posizione in cui tutto è possibile, niente è proibito»: Intervista con Antoine d’Agata, Lo Specchio Scuro, https://specchioscuro.it/interview-antoine-dagata-intervista-antoine-dagata.
4. Cristina Piccino, op. cit.
5. Cfr. Antoine d’Agata, in Lorenzo Baldassari (a cura di), «Quello che mi interessa è la vita, questa posizione in cui tutto è possibile, niente è proibito»: Intervista con Antoine d’Agata, Lo Specchio Scuro, https://specchioscuro.it/interview-antoine-dagata-intervista-antoine-dagata.