Una sera a cena, qualche anno fa, qualcuno chiede a ognuno di noi di indicare, in ordine di importanza, i nostri argomenti preferiti in tutta la storia universale. «I dinosauri!» esclamai io. Aggiungendo subito: «L’Egitto. Tutankhamen. Le mummie!» […] E ancora oggi la mia opinione resta la stessa: i dinosauri e Tutankhamen. Non ho ancora deciso che cosa potrebbe venire al terzo posto. Forse la Luna. Oppure Marte. Ce la fanno quasi. Ma lo stegosauro viene al primo posto. Forse perché sta sotto i nostri piedi. Possiamo vedere e toccare le ossa che giacciono davanti a noi, insieme con le uova, da tempo calcificate, da cui sgusciarono fuori diecimila milioni di mattine fa. La Luna e Marte sono assolutamente reali, ma soltanto una manciata di uomini ha messo piede sulla prima e soltanto le telecamere delle sonde spaziali hanno sbirciato il secondo. Quando calpesteremo il suono di entrambi, come certamente accadrà, forse quei mondi raggiungeranno Tutankhamen e gli pterodattili sul filo di lana del traguardo.
– Ray Bradbury1
BENVENUTI ALL’ISOLA CHE (NON) C’È
[…] l’Isla Nublar, la cui forma ricordava una lacrima rovesciata […].
– Michael Crichton2
Oltre a essere stato uno dei maggiori successi economici di Steven Spielberg – che a fronte di un costo di 63 milioni di dollari ne incassò 9203, lasciando alle spalle l’insuccesso di Hook – Capitan Uncino [Hook, 1992] –, Jurassic Park [id., 1993] ha rappresentato appieno l’idea spielberghiana di cinema come viaggio meraviglioso attraverso il fantastico. Come ha scritto Franco La Polla (che sul film ha sempre avanzato non poche riserve), «Jurassic Park figura come l’idea ultima e determinante dell’entertainment in termini spielberghiani»4. In ciò, la scelta del romanziere e sceneggiatore Michael Crichton5 di ambientare gran parte della storia nell’immaginaria isola Nublar, nei pressi del Costa Rica, è la scintilla che permette al regista di imbastire un vero e proprio «parco di divertimenti che si pone come una sorta di mondo autonomo, di universo strutturato […]»6. Un luogo meraviglioso e inquietante, a metà strada tra Disneyland e l’Isola che non c’è, in cui si realizza il sogno del magnate John Hammond (Richard Attenborough) di riportare in vita i dinosauri. E dove Spielberg può far vivere ai suoi personaggi (e a noi spettatori) la gioia e il pericolo di «un’avventura iniziata 65 milioni di anni fa.»
La locandina originale del film.
Come forse mai prima di allora, Spielberg ha utilizzato ogni mezzo tecnologico a sua disposizione per creare un senso di immersione totale nella rappresentazione cinematografica, rivolgendosi a un pubblico indifferenziato di grandi e bambini che si poteva ugualmente identificare con il professor Alan Grant (Sam Neil) e la paleobotanica Ellie Sattler (Laura Dern), o con i piccoli Tim (Joseph Mazzello) e Lex (Ariana Richards). Uno spettacolo tipicamente «postmoderno», nell’accezione utilizzata dallo studioso Laurent Jullier7, per un pubblico che poteva vivere sulla sua pelle l’esperienza di vedere sul grande schermo un animale mitico e reale quale il dinosauro: una specie che, come suggerisce Bradbury nel testo citato, ha il potere di affascinare l’adulto e il bambino riconducendo a un immaginario tanto fantastico (il drago) quanto scientifico (la paleontologia). Lo spettacolo postmoderno di Spielberg mantiene dunque la promessa (anche commerciale) di mostrare al pubblico un’«attrazione» che desidera vedere, facendo letteralmente specchiare lo spettatore nei volti di Grant ed Ellie. Come afferma Jullier, «il pubblico ha il diritto al controcampo sul viso estasiato dei due protagonisti del film».8
La meraviglia negli occhi di Grant, Ellie, e del pubblico di Spielberg.
Jurassic Park è stato accompagnato da un’imponente campagna pubblicitaria, nonché dalla massiccia diffusione commerciale dei suoi contenuti. Pratica, questa, che si riflette anche all’interno del film, e che, come nota sempre Jullier9, fa parte delle strategie del cinema postmoderno. Il logo che figura sulla locandina promozionale di Jurassic Park, ad esempio, è riprodotto incessantemente nel corso del film, comparendo sugli elmetti degli uomini addetti alla sicurezza e sulle fiancate delle auto usate per visitare il parco. Così come l’interno del centro visitatori (che ha l’aspetto di un vero e proprio villaggio turistico) è letteralmente stipato di materiale ludico e promozionale, pronto per la sua distribuzione (anche al di fuori dal film).
Il logo del film.
Il centro visitatori.
Materiale destinato alla vendita.
Spettacolarità e (auto)promozione fanno dunque parte della natura del Jurassic Park – tanto del film quanto del parco ideato da Hammond. Elementi, questi, che, secondo i detrattori, metterebbero in crisi la fluidità del racconto. «Spesso si dice che la coerenza narrativa del blockbuster sia stata indebolita dall’enfasi posta sul sensazionalismo», afferma Geoff King. «La scena spettacolare è vista come elemento di distrazione o interruzione. La nostra attenzione all’evoluzione della storia si arresta mentre ci soffermiamo a contemplare con stupore/divertimento/orrore la ricchezza meramente sensoriale dell’esperienza audiovisiva: gli effetti speciali del dinosauri nei film di Jurassic Park, l’affondamento del Titanic, le trasformazioni di essere alieni, esplosioni o distruzioni quasi apocalittiche della terra.»10 Dunque, nell’esperienza cinematografica del blockbuster, e di Jurassic Park nello specifico, la componente spettacolare (e ludica) ha il sopravvento su quella narrativa: parafrasando, guardare il film è un po’ come visitare un parco dei divertimenti. Un’attitudine non certo estranea al cinema di Steven Spielberg. Come non pensare, ad esempio, a Indiana Jones e il tempio maledetto [Indiana Jones and the Temple of Doom, 1984], in cui il celeberrimo eroe creato da George Lucas si avventura in uno spazio molto simile a quello di un luna park. Oppure, in maniera meno diretta, può ricondurre a film quali 1941 – Allarme a Hollywood [1941, 1979] o al già citato Hook – Capitan Uncino, dove la fantasiosa e caotica messa in scena si allontana da qualsiasi pretesa di verosimiglianza, per sconfinare nel paradossale e nel fantastico.
L’isola che non c’è in Hook – Capitan Uncino.
L’isola di Jurassic Park, dunque, racchiude in sé una parte del cinema di Spielberg; ma anche del cinema tout court. Il richiamo principale, suggerito dal professor Malcolm (Jeff Goldblum) all’inizio dell’escursione all’interno del parco, è a King Kong [id., Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, 1933], rievocato dall’imponente portone che separa la zona visitatori da quella abitata dai dinosauri.
Il richiamo a King Kong si farà ancora più marcato nel successivo Il mondo perduto – Jurassic Park [The Lost World: Jurassic Park, 1997], in cui il destino del t-rex non sarà molto dissimile da quello del celebre gorilla – trasferito a forza nella metropoli -; e con esiti altrettanto infausti.
Ma non è l’unica suggestione proveniente dall’immaginario fantastico del cinema statunitense degli anni Trenta. Il tema dell’isola fantastica e insidiosa, su ispirazione dall’Isola misteriosa di Jules Verne, ricorre in alcuni importanti film del periodo, come La pericolosa partita [The Most Dangerous Game, Irving Pichel, Ernest B. Schoedsack, 1932] e L’isola delle anime perdute [Island of Lost Souls, Erle C. Kenton, 1932], quest’ultimo ispirato al L’isola del dottor Moreau di H. G. Wells. È soprattutto questo esempio che ci può interessare per la nostra analisi, in quanto ricorre non soltanto il tema dell’isola infestata da esseri fantastici, ma anche quello del mad doctor. D’altronde, il dottor Moreau, che realizza i suoi mostri in un’isola solitaria, è poi così diverso da John Hammond, che col suo potere economico «gioca» con l’evoluzione e la genetica?
L’arrivo all’isola Nublar.
Un “assortito” gruppo di avventurieri, pronto allo sbarco sull’isola misteriosa.
Una curiosità: su di banco di lavoro nella sala controllo compare l’immagine del celebre fisico Robert Oppenheimer. Forse un riferimento alle possibili conseguenze delle scoperte scientifiche operate dal team di Hammond.
IL REGISTA E IL SOGNATORE: SPIELBERG E HAMMOND
Durante la trasposizione del romanzo in film alcuni personaggi vengono parzialmente modificati, mentre altri restano sostanzialmente uguali. L’Alan Grant interpretato da Sam Neil, ad esempio, rimane fedele ai caratteri tracciati dall’autore di Congo.
Grant aveva la cattedra di paleontologia all’Università di Denver ed era una delle massime autorità nel settore, ma non si era mai sentito a proprio agio nei rapporti sociali che richiedevano una certa etichetta. Si considerava un “lavoratore sul campo”, e sapeva che tutte le ricerche significative nella paleontologia venivano svolte direttamente nei siti. Grant non amava gli accademici, i curatori di musei e quelli che lui definiva “i cacciatori di dinosauri intorno a un tavolino da té”. E faceva del suo meglio per distinguersi da quelli sia nell’abbigliamento sia nel comportamento, arrivando persino a tenere lezione in jeans e scarpe da tennis.11
Si nota fin da subito come il Grant descritto nel romanzo rispecchi quello del film. Forse perché perfetto come eroe del cinema spielberghiano: d’altronde, la figura del paleontologo-esploratore delineata da Crichton non si discosta poi molto da quella di Indiana Jones nella sua duplice personalità di fine studioso e intraprendente avventuriero. Non stupisce quindi che l’interpretazione (e il vestiario) di Sam Neil riprendano quelli di Harrison Ford nella celebre saga degli anni Ottanta. La sua battuta d’apertura, poi, non lascia spazio a equivoci: quell’«io li odio i computer» non può che ricordare il mantra di Indy: «io li odio i serpenti».
Il professor Grant.
Ad altri personaggi, invece, è riservata una sorte diversa. L’identità dei due bambini, ad esempio, è sostanzialmente scambiata: il Tim del libro diventa la Lex del film in quanto più grande ed esperta di computer: sarà infatti lei a sbloccare il sistema di controllo dell’isola. Ma se questa scelta risulta piuttosto ininfluente all’economia del film, la riscrittura più importante è riservata al magnate John Hammond. Il personaggio del libro, come quello del film, è sì seducente e dai toni affabili, ma anche viscido e con ben pochi rimorsi per le sue azioni. Se Grant non percepisce immediatamente il lato oscuro del personaggio, sottovalutando il pericolo ma al contempo prefigurando alcune caratteristiche dell’Hammond cinematografico («È sinistro quanto Walt Disney» afferma12), in un dialogo tra Ross (personaggio poi scomparso nel film) e Gennaro si dice che: «È un sognatore potenzialmente pericoloso»13 Non stupisce che la sua sorte nel romanzo sarà brutale – verrà difatti divorato da alcuni piccoli procompsognati: i cosiddetti “spazzini dell’isola”. Nel film, invece, Hammond, che ha i tratti rassicuranti dell’attore e regista Attenborough, è simpatico e bonariamente spaccone fin dalla sua prima apparizione, quando irrompe nella zona degli scavi dove lavorano Grant e Suttler. Certo non ammette repliche, ed è sicuramente manipolatorio, ma rispetto all’Hammond del romanzo non c’è doppiezza nelle sue azioni, ma solo utopia. E, soprattutto, alla fine della storia capirà i suoi errori e si imporrà per salvare i propri nipoti.
L’entrata in scena di Hammond.
Nel finale, a differenza del romanzo, il personaggio mostra tutta la sua fragilità e umanità.
John Hammond di Attenborough è dunque una figura tipicamente spielberghiana. Scrive Valerio Caprara: «Il parco è la creazione d’una specie di miliardario infantile e bonaccione, John Hammond (Richard Attenborough, alter ego di Spielberg?), che ha fondato questa Disnayland non solo nel terzo mondo, ma per di più in una isola totalmente isolata […].»14 Dalla citazione di Caprara possiamo cogliere due elementi importanti: il legame di Hammond con la figura di Walt Disney (già suggerito nel romanzo di Michael Crichton) e con il regista Steven Spielberg. Innanzitutto, il rapporto con il creatore di Mickey Mouse è quello più immediato, anche per via dei numerosi riferimenti a Disneyland di cui abbiamo già avuto modo di parlare. Ma nel film è presente anche un’interessante sequenza (assente nel romanzo) che rievoca in qualche modo l’universo disneyano. Dopo l’arrivo al Jurassic Park, a Grant e compagni è presentato un filmato in cui viene spiegato loro come gli ingegneri della InGen siano riusciti a ricreare i dinosauri. Spielberg, anziché ricorrere alle complessità scientifiche del romanzo, ripiega su un breve film a tecnica mista in cui animazione, riprese dal vero e interazione con il pubblico si fondono per uno scopo ludico e divulgativo. Vengono subito in mente gli esperimenti «ibridi» di Fantasia [id., Ben Sharpsteen (e Walt Disney), Samuel Armstrong, James Algar, Bill Roberts, Hamilton Luske, Thornton Hee, Wilfred Jackson, 1940] o I tre caballeros [The Three Caballeros, Norman Ferguson (e Walt Disney), 1944], dove tecniche di animazione diverse si incontrano con i live-actions (il direttore d’orchestra Deems Taylor che spiega al pubblico le caratteristiche della musica, con le note che prendono vita; Paperino che corteggia Aurora Miranda per le vie di Bahia).
Hammond, che interagisce in maniera ingenua con tecnologie che poco conosce ma di cui vuole rivendicarne la paternità (come degli animali creati nei laboratori), ricorda davvero Disney: il grande ideatore di un mondo in cui, per sua stessa ammissione, negli anni si era ritrovato a fare sempre meno, ma per il quale si riteneva indispensabile «come un’ape operaia».15.Ma la sequenza più emblematica che vede protagonista Hammond è quella del racconto della sua carriera alla dottoressa Suttler, nella sala per i rinfreschi del centro visitatori. Prima di analizzarla, consideriamo come Crichton racconta il passato dell’uomo nel romanzo.
Hammond era un tipo brillante, un vero uomo di spettacolo, e, nel 1983, era solito portarsi appresso un elefantino in gabbia. L’elefante era alto venticinque centimetri e lungo trenta, ed era perfettamente proporzionato, seppure dotato di zanne rudimentali. Hammond non mancava di portare l’animale con sé quando si trattava di raccogliere denaro. […] Quando parlava dell’elefante, Hammond sorvolava su molti particolari. Sebbene stesse per fondare una società di ingegneria genetica, Hammond, tanto per dirne una, non precisava che quell’elefante non era frutto di procedure genetiche.»16
All’espediente dell’elefantino-nano, Spielberg sostituisce l’idea – invero geniale – del circo delle pulci raccontato a Ellie. È forse l’aggiunta più importante in sede di sceneggiatura, in quanto esemplifica il desiderio dell’uomo di proporre al pubblico uno spettacolo che, un tempo, era solo fittizio (le pulci che non c’erano “ma il pubblico le vedeva”) e che ora vorrebbe reale (la creazione di dinosauri estinti da milioni di anni).
Hammond racconta a Ellie il suo passato.
Eppure, Ellie gli fa notare che “è ancora un circo delle pulci”: un riferimento, forse, al lavoro «illusionistico» dello stesso Spielberg, che, attraverso l’unione di disparati effetti speciali (modellini, animatronics, motion-capture, effetti digitali, ecc.), ha ricreato la meraviglia di un parco di dinosauri.
Proprio sul tema dello sguardo, del visibile e dell’invisibile vogliamo concludere la nostra analisi al film.
Una scena metacinematografica in cui sul velociraptor è proiettata l’immagine di un codice dei computer, e che sembra rievocare la natura in parte digitale dei mostri che abitano l’isola Nublar
IL FUORI-CAMPO. UN VIAGGIO DAL GIORNO ALLA NOTTE
Come anticipato nel primo capitolo, per creare attesa e suscitare desiderio Spielberg lascia per buona parte del film i dinosauri in fuori-campo. L’incipit di Jurassic Park è in questo esemplare.
Rielaborando alcuni topoi del cinema spielberghiano – in particolar modo, da I predatori dell’arca perduta [Raiders of the Lost Ark, 1981] e Lo squalo [Jaws, 1975] –, Jurassic Park inizia con il trasporto di un misterioso container. Al suo interno è ospitato un essere celato alla vista dei personaggi e dello spettatore. Nella breve sequenza, l’occhio della macchina da presa coincide sovente con le rapide soggettive dell’animale, che tenta di scagliarsi contro gli addetti alla sicurezza; intanto, fuori, la tensione inizia a salire. La sequenza si concluderà tragicamente.
L’incipit di Jurassic Park.
Si tratta di un’ennesima variazione del film rispetto al romanzo. Spielberg e gli sceneggiatori infatti, dopo aver tagliato una parte introduttiva troppo «horror» per essere portata sullo schermo (nel romanzo, un gruppo di dinosauri fuggiti dall’isola attaccano alcuni bambini nelle loro culle), focalizzano subito l’attenzione su di un pericolo nascosto alla vista; e con una strategia di messa in scena molto simile a quella utilizzata ne Lo squalo. Scrive Franco La Polla sul capolavoro del ’75:
La prima idea originale, e squisitamente cinematografica, è quella di non mostrare l’animale per gran parte del film. I titoli di testa si aprono con una soggettiva dello squalo (presumibilmente) che si aggira sul fondo marino accompagnato da una musica a toni bassissimi che da quel momento sarà il correlativo sonoro di un’immagine che tende a “celarsi” il più possibile. Il massimo che ci è concesso di vedere (più avanti nella narrazione) è una pinna, peraltro anticipata da un’altra che è falsa. Che cosa succede sott’acqua? Possiamo facilmente immaginarlo, ma non sappiamo dove e quando (e se è per questo non sappiamo esattamente nemmeno come). Che si vuole di più per creare suspance?17
Jurassic Park recupera a piene mani il lavoro sulla suspance elaborato nello Squalo. D’altronde, dal film del 1975 è ripreso anche il personaggio del capitano Quint (il cacciatore di squali interpretato da Robert Shaw), che “ritorna” nei panni del guardiano Muldoon (Bob Peck). Basti ricordare la sua entrata in scena durante la prima visita di Grant e compagni alla gabbia dei velociraptor, e al racconto enfatico dell’uomo riguardo alla crudeltà della femmina di raptor.
Muldoon.
Se, come dicevamo, il “mostro” è inizialmente nascosto alla vista (il tour in auto si conclude con l’assenza dei dilofosauri e del tirannosauro), le cose cambiano radicalmente nella seconda parte. Lo sguardo verso il fuori-campo, che avrebbe dovuto portare alla «meraviglia» (i brontosauri visti inizialmente), si trasformerà in orrore. Ora, è interessante notare come il crollo della situazione innescato dal tradimento di Dennis Nedry (Wayne Knight), che manomette i sistemi di sicurezza per trafugare dei campioni di DNA, è accompagnato dal passaggio fondamentale dal giorno alla notte: da una prima parte diurna, in cui i dinosauri non si mostrano, si accede a una seconda dove gli animali più pericolosi (il t-rex, il dilofosauro, i velociraptor), inizialmente invisibili all’occhio, si mostrano in tutto il loro potenziale pericolo.
Il giorno e l’assenza dei dinosauri.
La notte e la comparsa dei “mostri”.
La celeberrima scena del tirannosauro, che sfonda la rete di recinzione assalendo il gruppo di visitatori, è altresì emblematica. Si tratta infatti del primo scontro fra i personaggi e un dinosauro; si svolge di notte ed è preannunciata dal sapiente uso del sonoro e del visivo: tutti passaggi che Spielberg orchestra filmicamente per intensificare la tensione a livello sensoriale. Non solo l’espediente del bicchiere d’acqua mosso dalle vibrazioni causate dai movimenti del mostro è perfetto nel riunire sonoro e visivo, ma anche l’escamotage del binocolo a raggi infrarossi, utilizzato maldestramente da Tim per distinguere i movimenti del dinosauro nell’oscurità, rimarca la centralità che i sensi hanno nell’intera sequenza. Non sarà un caso che, per sfuggire alla furia del dinosauro, Grant, Malcolm e i ragazzi cercheranno di sfruttare le difficoltà visive del mostro restando completamente immobili (espediente che non potranno replicare con i più minacciosi velociraptor nell’ultima parte della loro avventura).
L’esperienza “sensoriale” di Jurassic Park.
Sfuggire alla vista: l’attacco dei velociraptor. Di nuovo, Spielberg gioca sapientemente sulla suspance dettata da campi, controcampi, visivo e sonoro.
L’entrata nel campo visivo del dinosauro è dunque accompagnata dall’arrivo della notte: la luminosità del sogno di Hammond, che voleva mostrare senza pericolo i suoi dinosauri dietro una teca di vetro, si infrange in un incubo che attraversa la notte del Jurassic Park, mettendo in pericolo i suoi visitatori. Alla rivolta della natura i nostri eroi riusciranno a salvarsi in extremis, ma, per un istante, i dinosauri saranno tornati a dominare la Terra.
NOTE
1. Ray Bradbury, Dinosauri, Interno Giallo, Milano, 1991, pp. 17-19.
2. Michael Crichton, Jurassic Park, Euroclub, Bergamo, 1991, p. 70.
3. Cifra poi arrivata a circa 1,1 miliardi di dollari grazie alle successive riedizioni e al mercato estero.
4. Franco La Polla, Steven Spielberg, Il Castoro Cinema, Milano, 1995, p. 119.
5. Spielberg acquisì i diritti del romanzo omonimo di Chricton quando lo stesso era ancora in corso di stesura. Il regista ha poi voluto il romanziere come sceneggiatore del film, affiancandolo al suo collaboratore di fiducia David Koepp. Ciò dimostra l’acceso interesse di Spielberg per l’operazione fin dall’inizio: quasi un desiderio di farla sua.
6. F. La Polla, Op. cit., p. 119.
7. Laurent Juiller, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino, 2006.
8. Ivi., p. 23.
9. Idem.
10. Geoff King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster, Einaudi, Torino, 2004, p. 224.
11. M. Crichton, Op. cit., p. 52.
12. Ivi., p. 58.
13. Ivi., p. 67.
14. Valerio Caprara, Steven Spielberg, Gremese, Roma, 1998, p. 107.
15. Oreste De Fornari, Walt Disney, L’Unità-Il Castoro Cinema, Milano, 1995, p. 8.
16. M. Chricton, Op. cit., p. 77.
17. F. La Polla, Op. cit., p. 52.