Nel 1967, Steven Spielberg era un giovane studente svogliato, residente in California, con una grande passione per il cinema e una manciata di cortometraggi amatoriali alle spalle. Più che frequentare le lezioni del suo college di Long Beach, però, il giovane Steven preferiva intrufolarsi furtivamente nel dedalo cunicolare degli studios della Universal.
Chissà cosa ne sarebbe stato della sua carriera e della sua vita se uno di quei giorni non avesse per caso incontrato un brillante studente di cinema della University of Southern California di nome George Lucas.

amblin logo

Il logo della Amblin Entertainment, la compagnai di produzione fondata da Steven Spielberg prende il nome da uno dei suoi film amatoriali.

Facciamo ora un salto avanti nel tempo di dieci anni. Più precisamente, all’estate del 1977.
Spielberg e Lucas stanno trascorrendo una vacanza insieme sotto il sole delle Hawaii. Il primo, dopo aver (involontariamente) rivoluzionato il concetto di blockbuster con Lo squalo [Jaws, 1975]1, sta aspettando l’approdo in sala della sua ultima fatica, Incontri ravvicinati del terzo tipo [Close Encounters of the Third Kind, 1977]. Il secondo, invece, si sta godendo l’inaspettato successo che, nonostante le sconsiderate predizioni dell’amico Brian De Palma, sta riscuotendo la sua fantasticheria epico-avventurosa-cavalleresca ambientata in un inedito medioevo ipertecnologico dall’anonimo e semplicissimo titolo di Guerre stellari [Star Wars, 1977]2.
È proprio in questa circostanza, mentre i due stavano apprestandosi a diventare i nuovi mogol del cinema hollywoodiano, che Lucas parlò a Spielberg di un vecchio progetto, alla cui sceneggiatura avrebbe in seguito messo mano il talentuoso Lawrence Kasdan e destinato ad essere diretto da un altro giovane emergente come Philip Kaufman (co-autore del soggetto). Si trattava della storia – ambientata al crepuscolo degli anni Trenta – di un archeologo-avventuriero cooptato dal governo americano per ritrovare la gloriosa Arca dell’Alleanza dove erano riposte le tavole dei Dieci Comandamenti. Compito tanto più impervio e complicato, dato che alla ricerca dell’Arca s’era industriato anche un manipolo di SS in missione segreta per conto del Führer, coadiuvate per giunta da un archeologo francese privo di scrupoli.
Al protagonista di questo Gunga Din3 fantastico e immaginifico, Lucas aveva curiosamente affibbiato il nome del proprio cane: Indiana.

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Le locandina originali de Lo squalo e di Guerre stellari: i due primi, grandi successi di Spielberg e Lucas giunsero del tutto sorprendenti e inaspettati a sbancare il botteghino delle estati del 1975 e del 1977.

Spielberg, dal canto suo, s’innamorò subito di una tale bolgia fanta-picaresca in cui i comics d’avventura degli anni ’30 (quelli nati sulla scorta di Tarzan e di Buck Rogers) s’amalgamavano all’anti-storicismo grandioso e spettacolare dei kolossal di David Lean (non a caso Spielberg ha più volte citato Lawrence d’Arabia [Lawrence of Arabia, 1962] tra i suoi film preferiti), dove il misticismo superficiale e visionario delle “astounding stories” di SF degli anni ’40 e ’50 si mescolava agli stilemi dell’horror di Val Lewton e di quello, teratologico, della Universal.
Il resto, come si suol dire, è storia. La defezione di Kaufman (per dedicarsi alla travagliata produzione di un adattamento di Tom Wolfe, Uomini veri [The Right Stuff, 1983]: passò quasi inosservato, ma è un capolavoro) diede il via libera ad uno Spielberg ritrovatosi, com’era già successo con Lo squalo, alla guida di un progetto pensato da e per altri eppure intimamente personale. Così, una volta sfrondata la dettagliatissima sceneggiatura di Lawrence Kasdan (che, nello stesso anno de I predatori e grazie all’intermediazione di Lucas, avrebbe esordito alla regia con il fondamentale Brivido caldo [Body Heat, 1981]), Lucas avviò una produzione da 20 milioni di dollari mentre Spielberg predispose un piano di lavorazione talmente meticoloso da permettere alla Paramount e alla Lucasfilm di risparmiare sul budget previsto4.
Uscito il 12 giugno del 1981 nelle sale statunitensi con il titolo I predatori dell’arca perduta [Raiders of the Lost Ark], il film avrebbe rastrellato 250 milioni di dollari nel solo territorio patrio mentre il nome del suo protagonista, Indiana Jones (interpretato da Harrison Ford5), sarebbe entrato indelebilmente nell’aggrovigliato tessuto dell’immaginario collettivo.

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L’affiche originale de I predatori dell’arca perduta sbandierava il ritorno sul grande schermo della “grande avventura”

Balziamo nuovamente avanti, questa volta di quarant’anni. All’oggi. Il 2018.
Indiana Jones non è solo diventato un’icona dell’immaginario popolare, un nome, un corpo, un’idea, un archetipo, un mito riconoscibile e transgenerazionale, ben presente anche a chi non abbia mai visto nemmeno uno dei capitoli dedicati alla sua storia. Si è altresì trasformato in una sorta di brand, di franchising, di oggetto di culto da rivisitare e serializzare, da parodiare e ipermedializzare. Ad una saga cinematografica che conta di tre fra sequel e prequel (il migliore di tutti è il secondo: Indiana Jones e l’ultima crociata [Indiana Jones and the Last Crusade, 1989]) più uno in produzione (possibile data d’uscita, ad oggi, è il 2020] si è aggiunto uno spin-off nelle forme di una serie televisiva che ne esplora la giovinezza altrettanto scanzonata e avventurosa: Le avventure del giovane Indiana Jones [The Young Indiana Jones Chronicles, creata da George Lucas, 1992-96]. Per non parlare poi della pletora inesauribile di parodie e succedanei.
Insomma, I predatori dell’arca perduta (da intendersi come campione di un intero sistema mitopoietico) non solo è oramai vestigia inviolabile del repertorio di prodotti e simboli dell’immaginario, ma è diventato esso stesso modello, schema, traccia, nume ispiratore. Un prototipo da imitare, magari da tradurre attraverso nuovi linguaggi, ricatapultandolo all’indietro (prontamente, nel 1981, ne venne tratta un’edizione a fumetti scritta da Walter Simonson e disegnata da John Buscema) o proiettandolo in avanti (nel 1982 ne uscì un videogame arcade per Atari).
Ma è sempre stato così?

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Alla sua uscita, il film non fu certamente accolto da un coro unanime di lodi indirizzate ai due nuovi svengali del cinema nordamericano. In patria, così come in Italia (ma non in Francia: i critici francesi si dimostrarono i più svegli anche qui), non pochi si levarono contro l’infantilismo disimpegnato dei due tecnocrati6. Non furono apprezzati la natura industriale, di puro entertainment, del film, il presunto anonimato di un cinema che pesca a piene mani dal passato senza nessuna apertura al presente (di contro, qualcuno vide in Indiana Jones la reproba incarnazione dell’individualismo edonista dell’allora nascente era reaganiana7), la passione di due adolescenti mai cresciuti che si baloccano in una sarabanda di trovate acciuffate di peso dall’allegro bazar della loro memoria di cinefili e consumatori. E, certo, nel film convivono ovvi echi di Edgar Rice Burroughs e dei serials a puntate divorati dai giovani Spielberg e Lucas, di Sentieri selvaggi [The Searchers, John Ford, 1956] (l’incipit…) e I tre della croce del sud [Donovan’s Reef, John Ford, 1963] (e vogliamo una buona volta ribadire la centralità di questo film, non solo all’interno dell’itinerario fordiano?), delle battles of sexes dei film di Howard Hawks (fonte lapalissiana delle schermaglie tra Indiana e la bella Marion Crane), di Michael Powell e di Raoul Walsh8. E poi: i peplum di Cottafavi (amatissimi da Lucas9) e i fumetti di Corto malese, il mito degli Argonauti e le Le miniere del re salomone o il Il prigioniero di Zenda. E, ancora, ricordi di James Fenimore Cooper, di Stevenson, di Conan Doyle (La tragedia del Korosko: sempre dimenticato quando si snocciolano i padri putativi de I predatori) e dei due Dumas. Senza dimenticare alcuni saporosi riferimenti meno ovvi: Franco La Polla10, per esempio, ha individuato una parentela diretta con Il mattino dei maghi, un saggio di carattere occultistico pubblicato da Louis Pauwels e Jacques Bergier (per quel che riguarda le risonanze mitiche e biblico-religiose allungate con una spruzzata di esoterismo da strip a fumetti) mentre Beniamino Placido11, su Repubblica, ha ravvisato una citazione diretta da Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain per la scena in cui Indy accoppa un berbero sacripante che fa volteggiare la scimitarra come Orlando la Durlindana.

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L’elenco è poco più che compilativo e chiaramente impossibilitato ad esaurire la copiosa gamma di referenti, modelli o paradigmi cui si sono rifatti, per caso o per desiderio, Lucas e Spielberg. Quanto conta esaminare, però, è come il senso dell’operazione lucas/spielberghiana non risieda in un movimento all’indietro, ripiegato su un passato mitico e irripetibile, bensì in una sorta di proiezione in avanti. Verso il futuro, verso quei nuovi mondi dell’immagine e dell’immaginario elaborati forse con l’estasi combinatoria, il piacere innocente del bambino che si diverte a smontare e rimontare il proprio parchi giochi ma anche con la consapevolezza del cineasta che si guarda alle spalle per poi tracciare nuove prospettive (massimo grado di autocoscienza che Lucas aveva già testimoniato facendo iniziare un film di fantascienza con la scritta «Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana»).
Sotto tale versante, può essere d’aiuto convocare anche in questa sede Alberto Arbasino e un suo noto articolo uscito su Repubblica nel luglio del 1981:12

Lucas e Spielberg […] si pongono ostinatamente, programmaticamente, allo stesso livello del cinema d’avventure più kitsch […] e ne rielaborano i temi e ne rimontano le strutture, con […] creatività passionale […] elevando i generi già considerati “bassi” con una sapienza critica e tecnica senza precedenti.

Se parlare di «elevazione dei generi» in un momento segnato dalla parificazione epistemica di cultura cosiddetta “alta” ed espressioni “basse” (si era in piena postmodernità) può oggi insospettire, il merito di Arbasino è comunque doppio. Da una parte (e chi ha letto Fratelli d’Italia non può rimanerne sorpreso), nel sottolineare in diretta l’arditezza di un’operazione che rimastica brandelli d’immaginario in nome di una nuova realtà-spettacolo; dall’altra, nel marcarne il portato innovativo.
Rivisto con la coscienza storica del dopo, I predatori dell’arca perduta infatti si configura, insieme a Guerre stellari, come una sorta di momento incipitario di una nuova stagione che ribalta i rapporti tra immaginario e realtà. Fin dall’apertura, il film magnifica il mito lucas/spielberghiano di un «Cinema che è la Realtà, l’unica possibile, culmine di una quest iniziatica che, in ultima analisi, finisce per coincidere con la vita stessa» (Arecco)13.

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Nell’apertura del film, il monte dello storico bumper della Paramount dissolve lentamente nella cima andina alla cui ombra si svolge l’intero prologo del film, mentre Indiana Jones fa il suo ingresso spalle alla cinepresa come Dorothy Jordan nell’impareggiato opening di Sentieri selvaggi.

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Sopra: I predatori dell’arca perduta
Sotto: Sentieri selvaggi
Non è forse un caso che il film si apra con un riferimento cinematografico al mito del searcher e della quest (assai ben individuato da Arecco come cardine dell’universo mitopoietico della pellicola) rappresentato dal capolavoro fordiano, il cui titolo originale è proprio The Searchers.

La sequenza iniziale del film, in cui Indiana, tra mille peripezie, recupera un antichissimo idolo totemico dorato per poi esserne saccheggiato dall’eterno rivale Belloq, è già di per se stessa un manifesto programmatico. Tanto più che il nostro più insigne studioso spielberghiano, il summenzionato Franco La Polla, è stato portato a scrivere, forse con un sovrappiù d’enfasi, che «In un certo senso, dopo questa sequenza il film è già finito: esso ripete, e in modo più diluito, le stesse informazioni che abbiamo già avuto.»14
Ambientato in un luogo eccezionale, fantastico, lontano dalle maglie dell’ordinario, il prologo, che pare tratto di peso da un film avventuroso degli anni Trenta (dal già citato Gunga Din a I lancieri del Bengala [The Lives of a Bengal Lancer, Henry Hathaway, 1935]), pone già in essere la prosopopea del catalogo. L’enciclopedizzazione di un immaginario che è oramai intertestuale, il trionfo del verosimile e del meraviglioso sul vero, la sovrapposizione della Realtà del Cinema alla Realtà dei Fatti. Così, tra dardi avvelenati, antiche spelonche pietrose, aracnidi minacciosi, scheletri, liane di rami intrecciati, ingegnose trappole mortali e gigantesche pietre rotolanti, ecco dispiegarsi tutto il campionario mitico ed extratemporale (ed è genialmente puntuale l’idea lucasiana del protagonista-archeologo) dell’avventura e della quête.

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Un exordium che segna anche il punto di congiunzione tra due campi di forze, l’incontro tra le visioni d’autore di Spielberg e di Lucas (e sgombriamo il campo dall’equivoco di cui si è per troppo tempo abusato: Spielberg e Lucas sono due cineasti profondamente differenti, non un corpo autoriale bifronte). Se l’espediente tanto “illumimistico” quanto “romantico” del catalogo, del repertorio, dell’inventario borgesiano è tutto di Lucas, il processo di dinamizzazione e di continuo rimontaggio dello spazio è completamente di Spielberg. In Lucas, intellettuale ludens e coltissimo autisticamente chiuso nell’utopia di riscrivere il mondo con i mezzi (anche tecnologici) offerti dalla Settima Arte, lo spazio (o, a voler esser pignoli, lo spazio-mondo) è un involucro cartesiano al cui interno i corpi si dispongo prospetticamente in rapporto di dipendenza, se non di subordinazione. In Spielberg, invece, lo spazio si costruisce dinamicamente attraverso l’interdipendenza con i corpi che lo abitano. La Polla parla a tal proposito di kinema spielberghiano, riprendendo proprio la radice greca kinesis, «movimento». Ed è stato lo stesso La Polla ad individuare come topos visuale eminentemente spielberghiano, attivo fin da Duel [id., 1971] e Sugarland Express [The Sugarland Express, 1974], l’improvvisa intrusione dei corpi in una porzione di spazio («l’attesa della violazione dello spazio»15), un movimento improvviso capace di donare un nuovo significato ad entrambi (più che il minaccioso incedere lineare dello squalo, l’esempio più significativo è l’inaspettato levarsi al cielo di una plenitudine di indici in una breve scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo). Non è un caso che il finale si costruisca proprio partendo dalla detonazione cartoonesca dei corpi; il loro accartocciarsi, deformarsi, enfiarsi ed esplodere come nello Scanners [id., 1981] di David Cronenberg, curiosamente uscito nello stesso anno.
I predatori dell’arca perduta – così come capiterà nei successivi L’impero del sole [Empire of the Sun, 1987], Jurassic Park [id., 1993] e Lincoln [id., 2012] – si fonda visivamente sulla dialettica della presenza e dell’assenza dei corpi nello spazio. In altre parole: sul continuo sovvertimento, pienamente spielberghiano, degli equilibri tra i corpi e lo spazio (è qui che si manifesta il controcato orrorifico del film: in fondo, per non essere sopraffatti dal potere dell’Arca è sufficiente… non guardare).

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Ambientato, come già successo per Incontri ravvicinati del terzo tipo, in una sorta di set nel set, il finale de I predatori dell’arca perduta inscena uno spettacolo dell’orrore cui è possibile resistere solo negando il proprio sguardo. Se però nel film del ’77 si trattava di rimediare all’irrappresentabile (la meraviglia, il sense of wonder, l’ignoto), qui è l’eccesso di rappresentazione (la sciarada grottesca di trucchi ed effetti con cui vengono raffigurate le forze mortali sprigionate dall’Arca) ad imporre, inevitabilmente, l’interruzione dell’atto del vedere.

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Curiosamente, nei momenti-chiave del film (l’incipit in cui appare solo di spalle: solo dopo qualche minuti Spielberg inserisce un close-up del suo volto; il primo incontro con la bella Marion – riportato nel fotogramma qui sopra – in cui si manifesta in qualità d’ombra gigantesca scolpita dal fuoco e proiettata sulla parete; il finale, dove è Jones stesso a negare il proprio sguardo) Indiana Jones appare quasi come figura parziale e incompleta, rilanciando continuamente la dialettica tra presenza e assenza dei corpi nello spazio che è cuore di molto cinema spielberghiano.

Per questo, gli annosi discorsi sulla paternità autoriale de I predatori risultano oziosi. Il film non appartiene più ad uno o all’altro. È contemporaneamente un film di Lucas e di Spielberg. La «paziente collezione di figurine rare»16 sarebbe risultata impossibile per il solo Spielberg, così come l’esuberante bolgia avventurosa che reinventa continuamente le coordinate dello spazio (ripensiamo alla celeberrima sottimpressione della mappa al campo lunghissimo di un aereo che procede nello spazio più vasto e inidentificabile possibile: il cielo) sarebbe stata impensabile per Lucas.
In sintesi, Raiders of the Lost Ark è il risultato di un doppio binario concettuale il cui esito è la riconfigurazione dell’immaginario attraverso la tensione del movimento. Il processo che in Guerre stellari era già dato, qui si visualizza in fieri. Un cammino che fagocita tutto, l’”alto” e il “basso”, il “serio” (i nazisti, l’Arca dell’Alleanza) e il “faceto” (i materiali kitsch dell’avventura), in nome di «un viaggio tutto mentale (che) […] lambendo i bordi di una cangiante “storia dell’occhio” […] (si trasforma in un’)epopea cinetico-retinica – che è ancora storia del cinema nel cinema e col cinema.»17

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Non stupisce che, in ossequio all’intoccabile distinzione adorniana tra “arte seria” e “arte leggera”18, il film abbia pagato lo scotto critico dell’assenza di un sistema di valori in cui inscriverlo che non sia il puro piacere dell’avventura, del récit, del roman picaresque stilizzato e barocco. E certamente sarebbe pretestuoso attribuire una qualche profondità d’elaborazione alla neigung mistico/fideistica che lo pervade. Visto e considerato, poi, che questo è proprio l’orizzonte di maggiore attrito tra le due visioni d’autore, terreno di scontro irrisolto tra il sentimento junghiano della Ricerca di cui Lucas è campione (dal maestro Yoda all’apparato mistico-trascendentale della Forza di Star Wars) e l’assillo spielberghiano della Rivelazione.

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A tal proposito è fondamentale rilevare come Indiana Jones ricavi l’esatta ubicazione dell’Arca dell’Alleanza in una sequenza (che pare uscita da quel La donna eterna [She, Lansing C. Holden e Irving Pichel] prodotto dal Merian C. Cooper patrigno di King Kong), dove, fantasma in piena luce (nessuno dell’équipe guidata dalle SS è in grado di vederlo), un raggio di luce – guardacaso in tutto e per tutto simile al fulgore emanato dal proiettore cinematografico – diventa il deus ex machina di un’epifania che nemmeno DeMille avrebbe mai potuto immaginare.

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Si aggiunga, poi, che lo stesso spirito d’avventura, ne I predatori, non vive d’altro che dell’estasi del piacere purovisibilista, dell’energia, del dinamismo, dell’ebbrezza, dell’incantesimo della forma (la potenza teorico/metalinguistica del film è, come detto, tutta nelle sue forme visibili), non condivide certo la medesima tensione metafisica e allucinatoria di un capolavoro assoluto e maledetto come il di poco precedente Il salario della paura [Sorcerer, William Friedkin, 1977].

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L’espediente romanzesco del raddoppiamento e della ripetizione (di temi, stilemi e situazioni) si ritorva ben presente anche ne I predatori: lo scontro della taverna nepalese (ritratto nei primo tre fotogrammi) si fonda sul perno visivo del fuoco. Lo stesso fuoco che ritornerà al termine della celebre scazzottata con l’energumeno nazista (quarto fotogramma).

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Il 70mm in formato 2.35:1 esalta gli spazi della grande avventura, cui Spielberg, attraverso la continua tensione dei corpi in movimento, dona un dinamismo forse mai sperimentato prima nella storia del cinema.

Eppure, quanto conta rilevare de I predatori dell’arca perduta, al di là dell’evidente perfezione della macchina spettacolare (magistrale anche quando ricorre all’ellissi: Spielberg non fa vedere come Indy abbia potuto raggiungere la misteriosa Isola dell’Egeo, in cui avrà luogo il redde rationem conclusivo, nascosto e, contemporaneamente, in piena vista, a bordo di un sommergibile tedesco) risiede da un’altra parte. Nella fiducia, nata dalla consapevolezza post-Nouvelle Vague per cui l’autore è finalmente parte attiva di un processo storico e dinamico, accordata alla possibilità del cinema di poter riscrivere la Realtà. Crearla ex novo o re-invertarla (come porterà alle estreme conseguenze il Quentin Tarantino di Bastardi senza gloria [Inglourious Basterds, 2009]: forse, da questo punto di vista, l’ultimo vero capolavoro postmoderno).

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In questo senso, I predatori è un vero e proprio momento nella storia del cinema. Segna un punto di non ritorno. È l’opera che certifica la trasformazione dell’immaginario in un enorme magazzino19 a cui ognuno è libero di accedere a propria immagine e misura, emporio mentale in cui scavare con la passione dell’archeologo che rivitalizza ogni manufatto riportato alla luce. Lontano, come invece si è più volte pensato, dal rischio della museificazione, dalla tentazione – che è stata postmoderna, certamente, ma forse più filosofica che pienamente cinematografica – di comporre il carme in morte della Storia e delle Grandi Narrazioni. Piuttosto, come detto, si è trattato di scrivere il presente (e, senza saperlo, il futuro) a partire dal passato.
In fondo, la più bella testimonianza del lascito de I predatori dell’arca perduta si ritrova negli sforzi congiunti di un gruppo di adolescenti votatisi, tra il 1982 e il 1989, a produrne un remake shot-by-shot con i pochi mezzi tech-friendly allora a disposizione20. Senza alcun interesse per la continuità e la verosimiglianza (i giovani attori avevano età e aspetto differenti a seconda della scena!), ma con la pertinace e ostinata passione di riscrivere a propria misura una porzione fondamentale del proprio immaginario (la storia è raccontata del documentario Raiders!: The Story of the Greatest Fan Film Ever Made [id., Jeremy Coon e Tim Skousen, 2015], passato da noi su Netflix).

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Un fotogramma del fan film Raiders of the Lost Ark: The Adaptation

Non stupirà per niente, allora, sapere che l’operazione ha commosso tanto Lucas quanto Spielberg. D’altro canto, la scena finale del film, in cui l’Arca dell’Alleanza, già imballata e sigillata all’interno di una cassa di legno, viene impilata insieme a mille altre uguali contenute in un enorme magazzino – nascosta eppure alla portata di tutti, come Indy a bordo del sommergibile tedesco – non è solamente una beffarda stoccata all’ottusità del potere burocratico (da Sugarland Express a 1941 – Allarme a Hollywood [1941, 1979] fino a Incontri ravvicinati, questo sì un vero leitmotiv spielberghiano). È, soprattutto, la testimonianza più limpida di come, nella selva aspra e forte dell’immaginario, il molteplice e la ripetizione non siano mai, semplicemente, una replicazione dell’identico.
Quell’Arca, fantasma pronto a prendere corpo, lì nascosta tra i reperti dell’immaginario, sarà sempre pronta a lasciare il proprio deposito per essere corteggiata da infiniti, nuovi racconti.

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NOTE

1. Film la cui lavorazione fu invero assai più complessa e travagliata di quanto la trionfale marcia al botteghino lascerebbe supporre. 

2. La storia, al solito, non è chiara fin dagli inizi. Avendo sposato la cupa profezia depalmiana, Spielberg e Lucas erano talmente convinti dell’insuccesso di Guerre stellari e Incontri ravvicinati da riservarsi ciascuno una piccola percentuale sugli incassi globali del film dell’altro.

Guerre stellari è ora conosciuto come Star Wars – Episodio IV: Una nuova speranza [Star Wars – Episode IV: A New Hope

3. Riferimento al film Gunga Din [id., 1939] diretto da George Stevens e prodotto dalla RKO, a partire da un romanzo di Rudyard Kipling sceneggiato dal grande Ben Hecht. 

4. Si vedano le dichiarazioni di Spielberg contenute in V. Caprara, Steven Spielberg, Gremese, Roma, 1997, pp-44-45 

5. In verità, la scelta iniziale della produzione era ricaduta su Tom Selleck. 

6. Si può rintracciare un campionario di questi interventi nel testo di Caprara summenzionato 

7. Bello, aitante, intraprendente, Jones non si fa problemi a scoperchiare antiche tombe contenenti idoli sacri o ad ammazzare con disinvoltura un rodomonte berbero che impugna la scimitarra 

8. Entrambi autori di una meravigliosa versione de Il ladro di Bagdad. In ordine cronologico: Il ladro di Bagdad [The Thief of Bagdad, Raoul Walsh, 1924] e Il ladro di Bagdad [The Thief of Bagdad, Ludwig Berger, Michael Powell e Tim Whelan, 1940] 

9. come si legge della strepitosa monografia che Sergio Arecco ha dedicato all’autore di Guerre stellari 

10. cfr. F. La Polla, Steven Spielberg, Il Castoro, Milano, 1995 

11. cit. in V. Caprara, op. cit. 

12. S. Arecco, George Lucas, Il Castoro, Milano, 1995, p.98 

13. Ibidem, p. 102 

14. F. La Polla, op. cit., p. 82 

15. Ibidem, p.55 

16. vedi nota 13 

17. S. Arecco, op. cit., p.99 

18. cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1997, p. 143 

19. cfr. con il nostro editoriale «Una lunga, gelida teoria di stelle spente»: schegge di un immaginario privato  

20. Il film è visibile a questo link: https://archive.org/details/RaidersOfTheLostArkTheAdaptationVhsripXvid