Che il cinema affronti casi di temporalità frastagliate e soggettive, atte a sconvolgere la linearità del racconto, non è di certo una novità. Dal noir hollywoodiano al cinema d’autore degli anni Sessanta in poi, il «tempo cinematografico» si è fatto di volta in volta sempre più malleabile, subendo riscritture spesso radicali e sperimentali. Viceversa, il tempo in qualità di «soggetto» è stato forse preso in minor considerazione – pensiamo ad esempio a casi di fantascienza mutuati da un classico della letteratura quale La macchina del tempo di H. G. Wells. Le variazioni su tematiche “temporali” sono state comunque vaste e diversificate. Esiste però un caso che mi piacerebbe prendere brevemente in considerazione in queste righe, e che ritengo di incredibile attualità: si tratta del paradosso temporale.
La macchina del tempo [The Time Machine, 1960] di George Pal.
Com’è noto, il paradosso temporale consiste nella collisione fra temporalità contrastanti e incompossibili – spesso maturate proprio nel corso di un viaggio nel tempo – che, per logica, si dovrebbero annullare vicendevolmente. Si tratta di un tema che attraversa trasversalmente la storia del cinema, e che ha interessato da vicino alcuni grandi autori di ieri e di oggi: da René Clair a Chris Marker, da Alain Resnais a Robert Zemeckis, fino a James Cameron con i suoi seminali Terminator. Come nota Paolo Marocco, si tratta di un soggetto dai forti connotati metalinguistici per la capacità di legarsi indissolubilmente alla visione cinematografica: «Il cinema è stretto parente dei viaggi temporali: a ogni visione sembra quasi che l’immagine compia un viaggio temporale per ritornare identica ogni volta che la proiezione ricomincia […].»1 Una materia, questa, che non poteva non suscitare l’interesse di molti grandi registi. Pensiamo, fra i tanti, ad Alfred Hitchcock, che su di un vertiginoso paradosso ha realizzato il proprio capolavoro.
Nell’immagine, una scena di Terminator 2 – Il giorno del giudizio [Terminator 2: Judgment Day, 1991]. Nel film, diretto da James Cameron, il replicante T-1000 torna indietro nel tempo per “terminare” Sarah Connor, e così modificare il futuro.
Madeleine, ne La donna che visse due volte [Vertigo, 1958], sconvolge il povero Scottie indicando, sulla linea del tronco tagliato nel parco delle sequoie, la data di nascita e quella di morte (!). Una quarantina di anni più tardi, Terry Gilliam ne L’esercito delle dodici scimmie [Twelve Monkies, 1996] omaggerà il film di Hitchcock con una pellicola incentrata proprio sui viaggi temporali.
Ma è in tempi più recenti che il tema del paradosso temporale sembra essersi radicato in maniera strutturale e diffusa – nonché inevitabilmente «mainstream» –, con volontà ed esisti spesso differenti. Thomas Elsaesser, ad esempio, ha brillantemente evidenziato l’aspetto ludico che contraddistingue i plot di molti film contemporanei, americani e non, basati proprio su temporalità bizzarre e “stratificate”. Lo studioso li ha definiti “mind-games film”, sorta di risposta cinematografica nei confronti di una nuova tipologia di spettatore, spesso distratto e in crisi2. Alla complessità «filosofica» dei film modernisti degli anni Sessanta viene sostituito un ingranaggio più definito: da “risolvere” e con il quale giocare. Una tendenza oggi molto diffusa, e che coinvolge i film più disparati, molti dei quali hanno al centro proprio il tema del paradosso.
A far tornare d’interesse questa tematica, nei primi anni Duemila, ci aveva pensato un piccolo film indipendente che avrebbe poi trovato un largo successo sul mercato home video: Donnie Darko [id., 2001], diretto da Richard Kelly. Il film era caratterizzato da un plot che si “avvolgeva” letteralmente su se stesso; una storia d’amore “vintage” ambientata negli anni Ottanta, che avrebbe prodotto un fiume di interpretazioni ed analisi.
Nel film di Richard Kelly, Donnie (Jake Gyllenhaal) probabilmente muore a causa di un motore d’aereo che si schianta sulla sua casa. Forse poteva salvarsi, avendo la possibilità di vedere il futuro, eppure si sacrifica per salvare la ragazza che ama. Ma questa è solo una delle interpretazione di un film che lascia aperti più interrogativi.
Al film di Kelly sono seguiti numerosi titoli, spesso molto diversi fra loro. C’è chi come Doug Liman ha provato a trasferire la «forma paradossale» del videogame al cinema – in Edge of Tomorrow – Senza domani [Edge of Tomorrow, 2014], il personaggio interpretato da Tom Cruise, ogni qual volta muore, ricomincia sempre dal medesimo istante, proprio come accade nella maggior parte dei videogiochi3 – oppure chi si è cimentato in plot sempre più cerebrali («complex script» li definisce Elsaesser) alla ricerca del paradosso più improbabile – pensiamo all’estenuante Predestination [id., 2014] diretto dai fratelli Spierig. E ancora, chi come J. J. Abrams ha trasferito il tema del tempo e dei paradossi nella serialità televisiva (Lost).
Quello che emerge, osservando molti di questi film con un po’ di distacco, è soprattutto la meccanicità che contraddistingue gli script, spesso dagli esiti finali poco riusciti (pensiamo a Looper – In fuga dal passato [Looper, 2012] di Rian Johnson, oppure al mediocre blockbuster Next [id., 2007] di Lee Tamahori).
In Predestination, lo stesso personaggio, andando avanti e indietro nel tempo, riesce (consapevolmente?) a creare una fittissima rete di cause ed effetti che diventano la sua stessa condizione di esistenza.
In questo variegato panorama esistono comunque registi ed autori che hanno approfondito il tema in maniera ben più consapevole, e con esiti di maggiore pregnanza: bastino su tutti i nomi di Christopher Nolan e dello sceneggiatore Charlie Kaufman; oppure, in tempi più recenti, Denis Villeneuve con Arrival [id., 2016].
Volevo però soffermarmi su di un film d’animazione che ha riscosso un incredibile successo l’anno scorso, e che presenta un caso di paradosso temporale davvero interessante, nonché strettamente legato all’attualità: Your Name [Kimi no na wa, 2016]. Il suo autore, Makoto Shinkai, è sicuramente uno dei nomi più interessanti e personali nel panorama dell’anime contemporaneo. I suoi film, infatti, si distinguono per una coerenza tematica e stilistica davvero uniche. Il suo è un cinema di distanze, da sempre interessato a raccontare storie di affetti, mancati e lontani – probabilmente, non si sono mai visti tanti campi vuoti nel cinema d’animazione. Your Name ripropone fedelmente questi temi4, e, al contempo, li supera, trovando loro una nuova collocazione. I due protagonisti del film, Mitsuha e Taki, si amano, ma non possono incontrarsi. Questo, perché vivono in due epoche differenti. Per di più, la giovane Mitsuha è morta a causa della collisione di una cometa sulla Terra che ha distrutto il paese in cui viveva.
I due protagonisti di Your Name si sfiorano, come fantasmi, per un istante, ai piedi del cratere: talmente immateriali da sembrar loro stessi scaturire dal bagliore del sole, al tramonto.
In questo film ricco di inventiva (e sentimento), trovo di particolare interesse il paradosso proposto. Credo infatti che individui, con grande forza, una condizione di bruciante attualità. La distanza che separa i due personaggi non è semplicemente «spaziale», come già accadeva nei precedenti film del regista: è anche temporale. Mitsuha e Taki sono figure profondamente immateriali, veri e propri fantasmi senza un corpo – entrano rispettivamente l’uno in quello dell’altro –; eppure, per quanto impossibile, cercano in tutti i modi di trovare un contatto. Non potrebbe essere allora, quella proposta da Your Name, una sorta di metafora (paradossale) degli incontri e delle relazioni scaturite dai social network, che dislocano gli individui nello spazio e nel tempo? Non c’è qualcosa di altrettanto paradossale in questa nuova forma di comunicazione, che Your Name metaforizza in maniera così sublime?
Ecco, più che un ennesimo caso di mind-games film, Your Name mostra, con grande sensibilità, come spazio e tempo nell’era di internet vengano profondamente rivisitati; e come ciò condizioni nel profondo le nostre stesse relazioni, sociali e sentimentali. È d’altronde, quello del web, un luogo dove le tracce che lasciamo continuano ad esistere: esse possono anche essere lette ad anni di distanza. Un po’ come Mitsuha, che non c’è più, eppure c’è ancora.
D’altronde, come sosteneva Alain Resnais in riferimento al cinema: «Voi credete che sia un passato. Io ho l’impressione che si tratti di una specie di eterno presente.»
NOTE
1. P. Marocco, Vertigo. La donna che visse due volte, Le Mani, Genova, 2003, p. 40.
2. T. Elsaesser, “The Mind-game Film”, in W. Buckland (a cura di), Puzzle Films – Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Oxford: Wiley-Blackwell, 2009, pp. 13-41.
3. Non possiamo ovviamente non pensare anche alla bellissima commedia metafisica diretta da Harold Ramis, Ricomincio da capo [Groundhog Day, 1993] diretto da Harold Ramis.
4. A volte, anche in maniera didascalica: le scene del tramonto di Your Name sono le stesse del suo primo lungometraggio, Oltre le nuvole, il luogo promessoci [Kumo no mukō, yakusoku no basho, 2004].