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Ibridi, frammentati, superficiali ed euforici: ai personaggi di Sion Sono possiamo riferire, pur con la dovuta flessibilità, la maggior parte dei caratteri fondanti del postmoderno così come Gianni Canova li riassume nell’apertura del suo L’alieno e il pipistrello.1 Desolati e buffi come quelli dei fratelli Coen, ambigui e smarriti come i quelli di David Lynch, kitsch quanto quelli di Quentin Tarantino eppure disperati, agitati come in un film di Andrzej Żuławski, questi fantocci (perché tali sono) vengono spesso colti in percorsi di crescita emotiva e psicologica che come vedremo sembrano portare alle estreme conseguenze, se non addirittura stravolgere, il loro stesso statuto ontologico. I personaggi del regista nipponico, almeno superficialmente, vivono all’infinito il travaglio dell’auto-affermazione, alla disperata ricerca di un’identità che ancora devono comprendere del tutto.

Non è errato sostenere che l’opera del regista si focalizzi su una costante critica alla società giapponese. La maggior parte dei suoi film si basa infatti, come nota Tomasi, su un conflitto tra collettività, masse e individualità2 (tra soggetti vessati e collettività vessanti, tra cui famiglie disfunzionali, sette religiose o gruppi di individui, community digitali o istituzioni) che spinge a riconoscervi il rigetto di tutti quei sistemi di valori, e manifestazioni od occultamenti degli stessi, propri della società nipponica.3 Parallelamente, le modalità di questi racconti ci invitano a leggerli da una prospettiva differente: il loro stile «aggressivamente innaturale»,4 abbinato all’esasperante superficialità di forme, gesti e vicende, rende queste sagome delle macchiette e le loro disavventure delle parate grottesche, implausibili e sovraesposte. Il cinema di Sono è attraversato da traiettorie di semplificazione e di esteriorizzazione: il suo è un dominio di forme instupidite, volgari, che fanno pensare tanto alle icone del fumetto quanto a quelle pubblicitarie – le vediamo urlare di gioia o di dolore, gettarsi con naturalezza in coreografie improbabili, dimenarsi come marionette e rotolarsi nel fango, oppure ancora correre come bambini. La ricerca di sé intrapresa dai protagonisti allora diventa non solo il tentativo di un soggetto di fuoriuscire dalle varie “gabbie del significato” della collettività, ma anche, e questa sarà la nostra prospettiva, un percorso che mira a eccedere dalle modalità stesse attraverso cui queste immagini sono costrette a mostrarsi: un tentativo, paradossale, di rinunciare alla loro stessa immaginalità. Il pressoché costante riferimento alla società giapponese si trasforma in uno strumento retorico, se vogliamo metaforico, teso a speculare su alcune tra le più nucleiche tensioni e discussioni che alimentano il dibattito e la percezione delle immagini contemporanee.

Nel corso dell’episodio vedremo come questo cinema arrivi a teorizzare processi alternativi di costruzione e dissoluzione del sé e rifletta in ultima istanza sulla possibilità stessa delle immagini di sintetizzare l’umano, di trascinarlo all’interno del dominio dell’immagine. Mi soffermerò di volta in volta su alcune delle traiettorie di semplificazione ed esteriorizzazione di cui si è fatta menzione poco sopra. Anzitutto, noterò come il discorso sull’identità dei personaggi non faccia che passare per piani coesistenti e incompossibili di realtà, memoria e coscienza, frammentando il problema dell’io secondo le dinamiche di omogeneizzazione dello spazio e presentificazione del tempo proprie del postmoderno;5 poi prenderò in considerazione il transito dalla costruzione alla dissoluzione dell’identità, riflettendo sul modo in cui all’estetica dei vari personaggi si leghino criticità del visivo come la polarizzazione dello sguardo o la passività dell’immagine; quindi mi addentrerò nell’uso del linguaggio, della parola e della voce in quanto discorso parallelo a quello della visione; infine considererò alcune modalità stilistiche, spaziali e temporali dei vari film del regista, rintracciando nell’umanità frustrata e strabordante di questo cinema il rimando, centrifugo, a un dominio altro, paradossalmente situato al di fuori dell’immagine filmica.

Brevi note sulla trascrizione.

Nel corso dell’episodio si farà ampio ricorso a titoli di film in lingua giapponese. Di questi verranno citate, dove possibile, le versioni note al pubblico italiano, cioè quelle distribuite internazionalmente in inglese. Sempre alla versione internazionale si farà riferimento per le citazioni di dialoghi, frasi o parole estrapolate dai film. Per tutti quei titoli che non sono stati trasposti in inglese, così come nel caso di riferimenti precisi a espressioni, radici etimologiche o assonanze in lingua giapponese, si utilizzerà invece il sistema di trascrizione Hepburn. Anche per i nomi di persona si seguirà la distribuzione internazionale, anteponendo il nome al cognome.

Immagini riflesse in specchi frantumati: personaggi in cerca di identità.

Come gran parte del cinema postmoderno, quello di Sion Sono è ossessionato dalla labilità quanto dalla frammentazione dell’identità personale.

Lo sperimentale Keiko desu kedo [1997],6 come nota efficacemente Tomasi,7 contiene già in nuce quelle che diventeranno vere e proprie fissazioni per la produzione del regista. La protagonista abita uno spazio chiuso, dai colori sgargianti, ed è l’unica interprete del film per tutta la sua durata. La vediamo scrivere e cancellare più volte su uno stesso foglio “io”,8 sbrigare mansioni ripetitive, parlare di alcuni ricordi, talvolta travestirsi per registrare dei video-diari. Tutte  azioni che appaiono scollegate l’una dall’altra, come se diverse Keiko abitassero diverse scene, mentre la sola voce narrante cerca di dare coerenza all’identità della protagonista attraverso il flusso di coscienza. Nel cinema di Sono l’identità appare fluida: tanto il fruitore quanto i personaggi vi si muovono attorno, nel tentativo disperato di ricostruirla o di svelarla prima che il tempo a disposizione si esaurisca.9 La sagoma che si vede a schermo rimanda al dominio delle immagini sintetiche così come ce lo descrive Mario Costa ne Il sublime tecnologico:

[…] non può essere compresa dall’immaginazione nella sua unità poiché essendo il suo molteplice tendenzialmente infinito, viene colto solo parzialmente con la consapevolezza che esso si estende ancora oltre ciò che viene attualmente appreso: l’immaginazione cioè apprende l’immagine sintetica, ma non la comprende per la tendenziale infinità della sua essenza.10

È un’immagine di sintesi proteiforme,11 specchio di una soggettività che nel contemporaneo è sempre più frammentaria e discontinua, come se ne trovano negli abissi angosciosi dello Strade Perdute [Lost Highway, Lynch, 1997] o nei vorticosi sbandamenti di Possession [id., Żuławski, 1981].

Identità proteiforme: in Keiko desu kedo vediamo la protagonista interpretare ruoli diversi di continuo.
Quando i percorsi narrativi si distendono e linearizzano, la ricerca dell’identità si rende più esplicita ma produce risultati altrettanto angoscianti. È il caso di Into a Dream [2005], che si avvicina al paradigma lynchiano come al Vanilla Sky [2001] di Cameron Crowe e sparpaglia il protagonista tra il sonno e la veglia, costringendolo infine a correre disperato e senza alcuna risposta circa la vera natura della propria personalità o dei propri trascorsi; di Love Exposure [2008], che nella sua durata strabordante confonde i propri personaggi tra un’infinità di ordini di definizione, dallo spirituale al materico, dalla sanità alla follia, dall’eterosessualità al travestitismo, dall’erotico al pornografico, lasciando come unica risposta possibile non tanto la ricompensa identitaria, quanto piuttosto la relazione amorosa intesa come ultima deriva (e dissoluzione, come vedremo) del sé; oppure ancora di Why Don’t You Play in Hell? [2013], che basa la propria ambiguità sulla confusione tra reale e finzionale, riflettendo esplicitamente sul mezzo cinematografico. Tutti questi film sono accomunati da modalità analoghe: dai flussi di coscienza fuoricampo che imbizzarriscono la narrazione alle varie confusioni visive e concettuali tra personaggi con lo stesso volto, o in bilico tra più sistemi di riferimento, allo spaesamento caotico di spazi e tempi. In tutti, per di più, lo smarrimento esistenziale porta a dei risvolti tragici. In Guilty of Romance [2011] Izumi e Mitsuko seguono l’una le tracce dell’altra nel tentativo di raggiungere un fantomatico “Castello” kafkiano, luogo proibito che custodisce la vera essenza delle cose,12 e finiscono col morire orrendamente o col perdere la bussola, allo sbando di una prostituzione ripetuta con meccanicità esasperante. Una simile sorte attende Noriko, protagonista di Antiporno [2016], che dopo aver scoperto la sua vera identità e alla fine di un lungo delirio si dimena in un mare di fanghiglia, gridando fino allo spasmo. Destino ben più feroce è invece quello di Mitsuko e Taeko, che in Strange Circus [2005] si addentrano in un vero e proprio labirinto della mente privo di uscite.

Spesso l’identità è al centro di percorsi narrativi di ricostruzione e indagine. Nell’immagine, Strange Circus.

Questi ultimi in particolare, mind-game movies che «[consistono] nel trascinare lo spettatore nel mondo del protagonista, e ciò in un modo che sarebbe impossibile se la narrazione guadagnasse distanza, o contestualizzasse per esempio l’eroe attraverso le sue condizioni spirituali e corporee»,13 sono entrambi divisi in due parti, ciascuna incentrata su una “diversa” protagonista (sulla scia di quanto accadeva per Fred Madison e Pete Dayton in Strade Perdute), e raccontano la storia di un rimosso traumatico destinato a ripercuotersi in modo devastante sui personaggi coinvolti. La loro struttura eleva a potenza la deriva esistenziale e ontologica di queste sagome: il sogno si mescola alla veglia, la realtà alla finzione e il passato al presente, fino al punto in cui anche la stessa persona non arriva ad avere due facce differenti.14 Lo spettatore segue le protagoniste nel viaggio alla riscoperta di un passato e di un’identità perduti, assieme a loro cercando di riunire dei frammenti sparsi per spazio-tempi diversi, inconciliabili. Aderendo ai propri personaggi, il cinema di Sono si frantuma in una moltitudine di piani alternativi, alla ricerca di una risposta che, come nel caso di Strange Circus, viene sottratta proprio sul finire.

La memoria, la coscienza o lo sguardo della macchina da presa non riescono più a fungere da filtri legittimanti15 per questi racconti: la ricerca dell’identità attraversa uno spazio che non favorisce alcun tipo di orientamento16 e si svolge in un tempo non lineare, che è impossibile suddividere in momenti precedenti o successivi. In tutto ciò l’io diventa sintetico, con le conseguenze iconografiche del caso: la proliferazione di doppi speculari dei protagonisti, di scene che vedono un personaggio travestirsi o assumere il ruolo di un altro, o di sequenze che ruotano attorno a specchi e riflessi.

Le maschere, i doppi, gli altri diventano per i protagonisti tramiti imprescindibili per la conquista di una propria identità. Accade spesso che questi racconti si focalizzino proprio sul contatto tra queste sagome e il loro opposto: ci si avvicina al sé solo diventando un riflesso.

Dalla maschera alla vertigine, ovvero dalla società al deserto.

In Guilty of Romance, appena dopo aver scoperto che il suo corpo può essere oggetto di desiderio altrui, Izumi si osserva a lungo nuda allo specchio. La scena mostra uno dei suoi primi passi verso l’emancipazione e la consapevolezza di sé (la protagonista è come un bambino per la prima volta dinnanzi al proprio corpo) e, se messa in prospettiva alla spirale discendente che la porterà a naufragare nel mondo della prostituzione, funge da spartiacque per l’intero film: dall’una e dall’altra parte dello specchio sembrano esserci due persone differenti. Una, in semi-soggettiva (il cui corpo visibile è parziale e sfocato) è la Izumi che lo spettatore ha conosciuto nella prima parte del racconto, donna estremamente insicura e schiva, sottomessa all’autorità del marito, l’altra (il cui corpo è totalmente nudo e visibile) è la Izumi che imparerà a conoscere andando avanti, cioè una donna man mano più cosciente della propria libertà. Se l’esperienza dello specchiarsi produce e costruisce l’identità di chi si specchia,17 l’atto di guardare il proprio riflesso diventa il tentativo d’incontrarsi, di definirsi o di conoscersi: come se lo sguardo, incontrandosi nel proprio volto, potesse scorgere qualcosa che l’immagine stessa proibisce.18

Crisi di identità e immagini allo specchio in Guilty of Romance.

L’incontro con l’altro-sé, l’attraversamento dello specchio che Guilty of Romance esplicita e ribadisce così efficacemente, è una delle tappe fisse che i viaggi di questi protagonisti condividono. In Noriko’s Dinner Table le sorelle Noriko e Yuka Shimabara abbandonano la propria famiglia per diventare parte di diverse “famiglie in affitto”, assumendo il ruolo di parenti deceduti di alcuni clienti per procurarsi da vivere; in Love Exposure il protagonista Yu Honda conosce l’amore della sua vita e riesce ad avvicinarvisi soltanto travestito da Miss Scorpion;19 in Himizu [2011] Sumida trova la forza per espiare le proprie colpe solo smarrendosi nella città come un giustiziere senza volto; nei succitati Antiporno e Guilty of Romance ci si riconosce (o ci si perde) solo attraverso la prostituzione o la pornografia; infine in Strange Circus e Why Don’t You Play in Hell? è il filtro dell’opera di finzione (romanzo o film) che fa da tramite per l’accettazione di un trascorso rimosso o per la realizzazione di un sogno. In tutti questi casi è l’uso di una maschera, lo sprofondamento in un’altra immagine (spesso contraddistinta da elementi visivi definiti – come i costumi e le parrucche di Keiko) che consente a queste sagome di proseguire nella scoperta di sé.

A ben vedere, l’ingresso nell’alterità non ha però finalità costruttive, non riesce a strutturare nulla: è anzi dissolutivo. Si entra nello specchio per annullare ciò che si è stati, senza perseguire una ricostruzione del sé. Più che sull’analisi dei singoli racconti ci soffermiamo su un dialogo da Noriko’s Dinner Table, il lungometraggio che tra tutti esplicita maggiormente, a livello narrativo, il processo che ci interessa.

«Chi sei tu? […] Il mondo è così pieno di menzogne che le persone non riescono a giocare il loro ruolo in modo convincente. Falliscono come mariti, mogli, padri, madri, figli […] l’unico modo per scoprire cosa possiamo essere davvero è mentire apertamente, perseguire il vuoto. Sentire il deserto, fare esperienza della solitudine. Sentilo. Sopravvivi al deserto. Questo è il tuo compito.»20

La parabola del “Circolo del Suicidio”, di cui citiamo gli obbiettivi così come vengono spiegati a uno dei protagonisti del film, aiuta a fare chiarezza non solo su quanto detto finora, ma anche più in esteso sul modo in cui i personaggi di Sono vengono formulati e caratterizzati a priori del loro percorso di crescita. Risulta chiaro come il raggiungimento del deserto, un’ideale frontiera al di là della società delle immagini, punti di per sé al vuoto piuttosto che a una maturità o metamorfosi personale. L’impatto con l’alterità non coincide con l’acquisizione di un nuovo orizzonte identitario, piuttosto entrando nello specchio ci si esercita a dissolvere il proprio io. Tornando all’esempio di Izumi in Guilty of Romance, da una parte all’altra dello specchio troviamo due maschere: la Izumi moglie, remissiva, impacciata e insoddisfatta (sfocata, quasi fuori dal campo  visivo), e la Izumi prostituta, disinvolta e determinata; il superamento di entrambe avviene però nella chiusura del film, quando Izumi è un corpo ridotto a mansioni ripetute fino all’estremo, e la cui identità sembra completamente dissolta (“trascinata nel deserto”, per usare il lessico di Noriko’s Dinner Table).

I protagonisti di Sono cercano di liberarsi dal sé, ivi compreso dal modo stesso in cui esistono al mondo: non solo dal proprio ruolo diegetico, ma più in generale dal loro essere-immagini filmico. Si torna alla superficialità ed euforia accennate in apertura, caratteri che adesso possiamo riferire con maggiore chiarezza ai personaggi che popolano questo cinema. Fioccano al suo interno una moltitudine di archetipi quanto di icone, semplificazioni oppure stereotipi: ogni inquadratura ospita marionette eccitate, una pletora di rappresentazioni iconemiche,21 tópoi fumettistici o popolari (su tutti il più ricorrente, la scolaretta in uniforme), esasperazioni recitative o gestuali che, sfociando in una sarabanda straniante, danno a queste visioni lo statuto proprio del pastiche postmoderno: allo sbando identitario e narrativo corrisponde anche un preciso registro visivo.

Yu come Miss Scorpion: alla ricerca di un’identità, il protagonista si trasforma in un’icona contraddistinta da elementi visivi riconoscibili, che rimandano al suo status di maschera. 

Ciò si rende ancor più evidente nei vari episodi che hanno come protagoniste delle donne, al centro di una gran parte dei film del regista. Per definirle non sarebbe errato utilizzare alcune parole di Laura Mulvey: questo cinema dà forma a un immaginario dominato dallo squilibrio sessuale, in cui «il piacere di guardare è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile», e in cui l’influenza dello sguardo «proietta la propria fantasia» sulle figure femminili. Così le protagoniste «vengono simultaneamente guardate e mostrate», i loro corpi «significano il desiderio maschile e ne trattengono lo sguardo», «congelando il flusso di azioni in momenti di contemplazione erotica».22 La reificazione della donna raggiunge a tratti degli eccessi significativi – si vedano la gratuità orgiastica dei corpi semi-nudi che affollano le strade sul finale di The Virgin Psychics [2015], l’insistenza maniacale sulle forme di Izumi in Guilty of Romance, il ricorso plastico e ossessivo a posture erotiche in Antiporno, più in generale la ricorrenza di figure femminili prosperose e sessualmente connotate, anche laddove non si direbbe necessario (Cold Fish [2010]).

La ridondanza dell’immagine erotica trasforma l’esteriorità femminile in una perfetta metafora dell’immagine contemporanea per Sono, al cui interno si dispiega il percorso per l’auto-affermazione di cui abbiamo parlato finora. I protagonisti e le protagoniste di questi film cercano disperatamente di liberarsi dal registro visivo imposto dalla loro stessa natura: dall’idiozia, dalla superficialità, dalla sovraesposizione tonale, dalla gestualità iperbolica, dalla riconoscibilità iconemica, dalla desiderabilità erotica. La loro disperazione, sempre fuori scala, è tanto più forte quanto più si rendono conto che l’unica via di fuga è rappresentata dall’annichilimento: fintanto che sono immagini, fintanto che esistono, non possono rinunciare alla propria prigionia – esemplificativo in tal senso il lancinante finale di Antiporno, la cui protagonista, messa in parallelo col rettile all’interno della bottiglia, striscia disperatamente in un mare di fango, dicendosi bloccata in una latrina dalla quale non può uscire.

Tra gli aspetti più controversi della filmografia del regista, l’erotizzazione del corpo femminile a fini di exploitation. A volte con una scarsa o nulla corrispondenza sul piano tematico o contenutistico (nell’immagine sopra: The Virgin Psychics). Altre volte, invece, con il preciso intento di ridurre a immagine il corpo femminile, entro evidenti dinamiche di male gaze. In questo modo, il corpo delle protagoniste diventa una gabbia ulteriore: sono prigioniere dello stereotipo cui i loro abiti, gesti e storie rimandano così come della loro fisicità e del loro essere, all’interno dell’immagine, degli oggetti-di-sguardo (sotto: Tag e Antiporno).

Segni, parole, voci. Nella gabbia del significato.

Parallelamente al discorso visivo, il cinema di Sono porta avanti una riflessione sul linguaggio che è doveroso prendere in considerazione e che si basa su tre direttrici fondamentali: il segno, la parola e la voce.

La prima funge spesso da barriera significazionale: è il caso di Strange Circus, in cui i kanji della scrittrice non sono che un modo di proibirsi di elaborare quanto ha vissuto, trasformandolo in un racconto di fantasia; oppure dello stesso Guilty of Romance, in cui uno dei personaggi più importanti (il padre di Mitsuko) viene mostrato soltanto fuori-fuoco, al di là del titolo di un libro inquadrato in primo piano – indice dell’importanza emotiva che, nella mente della giovane, quello stesso libro si destinerà ad avere, obliterando e incorporando lo spettro del padre; o ancora dei vari luoghi del piacere del quartiere Shibuya, che ci vengono presentati tramite degli scatti di montaggio che ingrandiscono insegne e regolamenti, di fatto sovrascrivendo la necessità di inquadrare uno spazio o le attività che si svolgono al suo interno. Visivamente, l’insistenza sul segno interdice la possibilità di superarlo, e di mostrare cosa esso nasconda: il rimosso di una scrittrice, un rapporto incestuoso, la prostituzione nascosta alla luce del sole. Concettualmente, la sua rigidità e falsità vanno a confluire in una più ampia riflessione sulla parola e sul suo significato.

Guilty of Romance è forse il film del regista che più esplicitamente presenta una riflessione sulle parole, sul significato e sul segno grafico. Sopra, il testo di Kafka viene messo a fuoco al posto del padre di Mitsuko. Sotto, le insegne vengono inquadrate al posto delle attività e degli edifici.

La gabbia delle parole. Dall’alto: Cold Fish, Antiporno, Himizu.

Dal punto di vista linguistico, non sembra errato riferire alle opere del regista nipponico quanto scritto da Deleuze e Guattari circa il cinema di Godard. In entrambi «troviamo un’accumulazione di avverbi e congiunzioni stereotipate che formano la base di ogni frase – una strana povertà di linguaggio; […] che collega direttamente la parola all’immagine».23 In Sono il linguaggio appare consapevolmente impoverito, ripetitivo, didascalico ed elementare, più che mai quando si passa dal parlato al poetico, o dal colloquiale al declamatorio: qui lo slogan assume primaria importanza.24 Il Giapponese semplificato e contaminato da frequenti intrusioni anglofone raggiunge la massima estraniazione, trasformandosi in una cantilena psicotica: enunciati ripetuti fino allo spasmo, esclamati oppure gridati con foga crescente, la cui esasperazione tonale blocca quasi la macchina da presa in una contemplazione esterrefatta, come nel caso del monologo di Yoko in Love Exposure. L’ossessivo impiego di medesime parole o strutture sintattiche sovrappone la riflessione sulle immagini a quella sulla lingua, che viene piegata dallo slogan alla stessa tortura cui sono sottoposti, a livello visivo, i suoi enunciatori. Come loro, lo slogan viene deformato dalla reiterazione fino a che non perde, esausto, qualsiasi significato. La lingua si riduce a stereotipi, quasi a mantra: si ricordano in particolare le canzoni di Into a Dream o Suicide Club [id., Sono, 2002], la lettera ai Corinzi o i motti di Love Exposure, le poesie di Guilty of Romance e Himizu o le strazianti grida che chiudono la corsa di quest’ultimo. Si compone di parole senza corpo, come suggerisce la stessa Mitsuko:

«le parole non ti aiuteranno a capire […] sono superficiali […] le vere parole hanno sostanza, ognuna di loro ce l’ha. Hanno un corpo […], è una questione di corpo. Il significato di una parola è il suo corpo […] Se non conosci il significato delle lacrime, sono solo acqua che ti scorre via dagli occhi.»25

Allo stesso tempo l’insistenza sulla voce cerca di svincolare il linguaggio dalla scrittura, annullando la fissità grafica (non a caso visiva) nel dinamismo proprio del suono, contraddistinto rispetto al segno da transitorietà e precarietà.26 Il corpo delle parole somiglia allora a quello vocalico di cui scrive Connor nel suo La voce come medium:27 si trova al di là del loro significato nominale, deterritorializzato28 al punto da ridursi a una serie di suoni inarticolati. Non sorprende allora che le grida dei personaggi, talvolta, siano così eccessive da strozzargli la voce in gola.

Registri alternativi di spazi e tempi filmici: la ferocia della finzione e l’incanto del reale.

Questa ricerca del divenire trova un corrispettivo nei registri e nelle modalità di enunciazione del cinema di Sono. Esso alterna episodi contraddistinti da montaggi frenetici, virtuosismi barocchi, colori e musiche aggressivi (Toyko Tribe [2014], Why Don’t You Play in Hell?) ad altri decisamente più raccolti, quasi minimali nella messinscena, nelle tonalità radiose, nei contrappunti musicali o nella recitazione (Be Sure to Share [2009], Balloon Club, Afterwards [2006]), ad altri infine ibridi, che passano da un registro all’altro evidenziandone l’eterogeneità (The Land of Hope [2012], la serie Tokyo Vampire Hotel [2017]). Se alcuni stilemi restano costanti, su tutti l’uso di telecamere a spalla, montaggio e fotografia strutturano invece modalità filmiche alternative: una frammentaria e innaturale, immolata a un’opprimente artificialità pronta a sfociare nel kitsch, l’altra invece docile, commisurata ad ambienti domestici o intimi. Tokyo Vampire Hotel è forse l’opera che più compiutamente riflette sullo scarto tra le due, passando da una all’altra e fornendoci l’occasione di individuarne significative implicazioni tematiche.

Se le prime sette puntate della serie si vestono di un impasto visivo fatto di campiture piatte e carrellate, di caotiche scene corali e improbabili fontane di sangue, di effetti computerizzati low-budget e di costumi plastificati o oggetti di scena posticci, l’ottava si apre in modo estremamente distensivo: musica ridotta al minimo o del tutto assente, dialoghi sommessi, luci e colori tenui, angoli di ripresa non arditi, prevalenza del parlato sull’azione. Si inaugura così la virata intimista del racconto che traspone ritmo, visualità e narrazione in un dominio radicalmente distinto da quello visto in precedenza. Si focalizza l’attenzione (prima colta in un delirio di gesti iperbolici) su realtà o simboli del quotidiano: la tavola imbandita, la preparazione del cibo, l’organizzazione della dispensa – il protagonista di questi ultimi episodi è non a caso un cuoco. Dopo il frastuono iper-semiotizzato della prima parte è come se il tempo tornasse a scorrere e lo spazio si rendesse di nuovo abitabile, riconoscibile. Il tentativo è quello di spogliarsi dai registri sgargianti del cinema postmoderno, provando a recuperare un divenire che, in uno scenario di rovine e simulacri, sembrava perduto per sempre. In quest’ottica ricorrono qui alcune delle fissazioni iconografiche di Sono: quella dello scorrere del tempo nel quadrante di un orologio (già in Keiko desu kedo, Cold Fish, The Whispering Star [2015]) e quella del paesaggio innevato, o della neve che cade (già in Keiko desu kedo, Utsushimi – The Real Body [2000], Noriko’s Dinner Table, Tag [2015], Antiporno). Quest’ultima trova finalmente una formulazione narrativa: la sentiamo definire da Manami, una delle protagoniste, come sintomo della caducità delle cose – cadendo, posandosi e sciogliendosi sotto i piedi dei personaggi, la neve dimostra loro che là fuori qualcosa ancora diviene, ancora nasce soltanto per poi scomparire.

Camminare nella neve: sopra, Tag, sotto, Keiko desu kedo.

L’altro-sé, la voce, il tempo, la neve; traiettorie per uno stesso deserto, per un divenire impossibile: non sono sagome spogliate dalla propria idiozia a smarrirsi nella nevicata o ad abitare gli spazi disomogenei di queste visioni, piuttosto gli stessi stereotipi di sempre – scolarette in divisa, improbabili eroine armate di katana, ragazzine vestite di abiti sgargianti. Più che dare risposta all’esigenza di dissoluzione, l’alternanza di registri visivi ne cementa l’impossibilità: per quanto lo spazio si raccolga, il tempo si linearizzi, i frantumi si ricompattino o i racconti si distendano, i fantocci al loro interno restano contraddistinti dalla medesima idiozia di sempre. Il finale di Tokyo Vampire Hotel è esemplificativo: usciti finalmente dalla coloratissima gabbia abitata da fantasmi e vampiri che ha fatto da ambientazione alla serie, i protagonisti si ritrovano in riva a un mare dai colori insaturi, illuminato dal sole. Il loro viaggio però non finisce qui: si rimettono subito in moto per raggiungere l’orizzonte, e superarlo. La scena è squisitamente teorica: pur essendo sfuggite al delirio postmoderno, efficacemente simbolizzato dallo spazio dell’Hotel, queste immagini non possono fermarsi, devono spingersi ancora oltre. Radicalizzazione, stilizzazione ed esasperazione del visivo e del narrativo non sono tutto e soltanto ciò che le imprigiona: piuttosto, sembra che nel loro bisogno di «spingersi oltre» vogliano rinunciare alla loro stessa fissità immaginale. Sono, per metterla alla maniera di William Mitchell, delle «pseudo-persone», «soggetti subalterni» che bramano un corpo:29 vogliono divenire, cioè invecchiare e morire, fare a meno della loro autonomia temporale, rinunciando al desiderio di contrastare l’ineluttabile scorrere del tempo alla base di una loro ontologia.30

Il controcampo impossibile: per un’umanità al di là delle immagini.

Utsushimi, parola di scarso uso nel Giapponese corrente, indica un corpo presente e transitorio, precario: qualcosa di caduco, protetto da un involucro esteriore transeunte. Utsushimi – The Real Body è non a caso un «film sul corpo umano»31 che ruota attorno all’ideazione di un corpo finzionale, quello cinematografico, con lo scopo di riflettere però su quel nucleo ineffabile e celato dall’esteriorità che è «il vero valore delle cose». Il lungometraggio suggerisce che il principio di realtà soggiacente alla produzione e alla fruizione immaginali sia un vuoto: similmente al wu (propriamente il nulla, il non-essere) del Tao Te Ching,32 principale testo cinese della scuola Daojia attribuito a Laozi,33 il senso ultimo di queste visioni sta nella loro cavità, in ciò che sta dentro, al di là del simulacro della forma. Proprio a partire da questa riflessione, l’opera di Sono affrescherà un cosmo di involucri cangianti, forsennatamente spinti a cercare se stessi eppure costretti a non trovarsi mai: la dissoluzione ultima del sé, in un cinema che si definisce come dittatura della forma, non può che essere una rinuncia alla forma stessa.

Di qui il moto costante, insaziabile, che spinge verso i confini della rappresentazione, spesso ri-enunciato nelle corse a perdifiato dei protagonisti. «Mi è sempre piaciuto correre […], quando corro dimentico tutto ciò che mi dà il tormento. […] Credo di aver corso da sempre. […] A, B, C, D, eccetera…»:34 quasi tutti i personaggi di Sono, prima o poi, iniziano a correre. Da un punto all’altro (“A, B, C, D”), poi senza una meta precisa (“eccetera”), fino ai confini del mondo. Si precipita per esempio fuori dalla sua stanza la Keiko di Keiko desu kedo, mentre Into a Dream si chiude con Mutsugoro che corre a perdifiato nella notte. Corrono all’infinito Shin e i suoi amici in Hazard [2005], spesso inseguiti dalla polizia, e nel finale di Love Exposure Yu Honda invece scappa senza voltarsi indietro dalle guardie del manicomio, mentre raggiunge l’auto nella quale Yoko sta venendo portata altrove. È una corsa simbolica quella di Sumida e Chazawa, che in Himizu si lasciano alle spalle lo spazio della catastrofe (l’abitazione quasi affondata, spettro del disastro di Fukushima) al grido comune di «Sumida, non arrenderti!»; come del resto quella della detective Kazuko in Guilty of Romance, che cerca disperatamente di raggiungere il camion dei netturbini per liberarsi dell’immondizia (si troverà poi dinnanzi al fantomatico Castello kafkiano, l’abitazione di Mitsuko). In Why Don’t You Play in Hell il regista Hirata, con le bobine del suo grande capolavoro, si trascinerà per le strade notturne fino a esaurire le forze (e fino a non incontrare lo stesso Sion Sono e la sua troupe), per le protagoniste di Tag la corsa sarà invece alternativamente disperata (nella prima sequenza) o gioiosa (quando si riuniranno).

Costante propositiva di queste corse è la carrellata all’indietro, inframezzata solo in alcuni casi da statici campi lunghi o lunghissimi (Guilty of Romance): i protagonisti si muovono verso la macchina da presa, che arretra. Che parta da uno spazio che si vuole abbandonare, da una gabbia dalla quale si è finalmente usciti, o che sia priva di un punto d’origine, la corsa è in questi casi sempre direzionata a un altrove, a una meta non data: è al contempo la fuga da uno stato di cose opprimente (il nucleo familiare, l’ospedale psichiatrico, il focolaio domestico) e un modo per sentirsi vivi (quando si corre in gruppo, o nella neve). Queste sagome si spingono verso i confini dell’immagine, come se da un momento all’altro potessero fuoriuscire dai limiti dello schermo. Lasciandosi alle spalle gli spazi del proprio mondo, i propri trascorsi e racconti, i protagonisti del cinema di Sono cercano di liberarsi dalla propria forma. Allo spazio diegetico si sovrappone allora lo spazio della fruizione, e il moto a ritroso della macchina da presa sembra proibire quel controcampo che mostrerebbe il confine del mondo – al di là del quale, per assurdo, c’è il pubblico. È significativa l’impossibilità dello sguardo di catapultarsi alle spalle dei personaggi, osservando il cammino che li attende piuttosto che quello che hanno già percorso, e ci rimanda al finale di Tokyo Vampire Hotel citato in chiusura del paragrafo precedente: la dissoluzione, la “linea dell’orizzonte” al di là del mare, non può materialmente profilarsi all’interno della visione proprio perché si trova al di fuori. Queste corse sono destinate cioè a non concludersi, vengono spezzate dai titoli di coda: per i protagonisti la meta ultima è proprio la fine della forma, il vuoto del buio dello schermo.

Conclusioni.

I personaggi di Sion Sono, troppo umani per essere immagini, sono lo specchio di un’umanità trascinata entro i confini dello schermo (o degli schermi) e assillata dalla necessità di uscirne. Visto nel suo insieme, il cinema del regista sembra ruotare attorno alla possibilità stessa del visivo di sintetizzare l’umano, se non il reale tutto. Alla stringenza che vincola l’uomo al desiderio delle immagini,35 confluita in una contemporaneità che sempre più spinge il soggetto a frammentarsi e fare ingresso nelle stesse (vedi la crescente rilevanza delle immagini-mondo virtuali),36 Sono fa subentrare un impedimento sostanziale: l’uomo può concepire le immagini, ma le immagini non riescono a concepire l’uomo. Alla ricerca di qualcosa che non possono essere, queste pseudo-persone non fanno altro che agognare l’obliterazione, attratte dalla loro fine come le falene di Didi-Huberman.37 L’unico sollievo possibile da questa incommensurabilità di uomo e immagine il fruitore la trova a film finito, quando lo schermo si abbuia e il frastuono finisce. A queste sagome invece non viene mai concesso.

I protagonisti che corrono vengono sistematicamente ripresi con delle carrellate all’indietro, escludendo l’orizzonte verso cui si muovono dal visibile. Nell’immagine, Himizu.

NOTE

1. Canova muove i passi per un quadro sinottico a partire dall’opera di Jameson (F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it., Garzanti, Milano 1989) in G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2000, pp. 9-13.

2. D. Tomasi, Mi chiamo Sono, ma…, in Il signore del caos. Il cinema di Sono Sion, a cura di D. Tomasi, F. Picollo, CaratteriMobili, Bari 2013.

3. Fatto più evidente che mai nel momento in cui i film si ambientano in precisi contesti di riferimento: si vedano Himizu (2011) o The Land of Hope (2012), incentrati sulle vite di alcune famiglie coinvolte nel disastro di Fukushima Dai-ichi, Cold Fish (2010), ispirato a un macabro caso di cronaca, oppure Antiporno (2016), che dialoga esplicitamente con lo spettatore sulla percezione della donna in Giappone.

4. Utilizziamo qui, non a caso, l’espressione con cui Maitland McDonagh si riferisce al cinema di Dario Argento, (M. McDonagh, Broken Mirrors / Broken Minds: in the Dark Dreams of Dario Argento, Sun Tavern Fields, Londra 1991, p. 29), cui quello di Sono rimanda esplicitamente in più occasioni (Strange Circus (2005), Antiporno (2016), Tokyo Vampire Hotel (2017).

5. G. Canova, L’alieno e il pipistrello, cit., pp. 9-13.

6. “Sono io, Keiko” la traduzione italiana del titolo.

7. D. Tomasi, Mi chiamo Sono ma…, cit., p. 12.

8. “Watashi” in giapponese.

9. Il film ribadisce il fattore temporale fin dall’inizio, scandendo costantemente l’azione tramite il rimando iconografico a orologi e ticchettii. Dopo la prima inquadratura, al titolo segue la dichiarazione della durata complessiva dell’opera.

10. M. Costa, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi 1998, p. 74.

11. Il lessico è di nuovo preso da Canova, in G. Canova, L’alieno e il pipistrello, cit., pp. 23 sgg.

12. Nonché, appunto, la posta in gioco del percorso di auto-affermazione di entrambe, ovvero la loro identità quanto il loro rapporto con la propria immagine di donne. Di questo e di altre tematiche vicine parleremo più avanti nel corso del testo.

13. Thomas Elsaesser, Malte Hagener, Teoria del film, Einaudi, Torino 2009, pp. 173-174.

14. In questo soprattutto Antiporno, come in parte Guilty of Romance prima di lui, ripercorre il tema del doppio seguendo sia le orme di Mulholland Drive [id., Lynch,  2001] sia quelle di Persona [id., Bergman, 1966].

15. La postmodernità viene definita proprio come era della delegittimazione, Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul  sapere, tr. it., Feltrinelli Editore, Milano 1981.

16. L’estetica delle scenografie, sia nel caso di Strange Circus che di Antiporno, ma anche in altri episodi come il già citato Keiko desu kedo o Tokyo Vampire Hotel (2017), è spesso barocca ed eccessiva, contraddistinta da cromatismi netti e campiture piatte.

17. Cfr. F. Vercellone, Il futuro dell’immagine, il Mulino, Bologna 2017, pp. 91, 95; e A. Vitteritti, Identità e competenze, Guerini e Associati, Milano 2005, p. 55.

18. Numerose le scene che, nel cinema di Sono, riprendono protagonisti allo specchio. In tutti questi casi è come se il guardarsi, talvolta ossessivo (Mitsuko in Guilty of Romance, Noriko in Antiporno), fosse teso a proiettare la traiettoria dello sguardo di chi si specchia oltre i limiti dell’immagine resa dalla superficie riflettente. Scrutandosi, queste sagome cercano di vedere cosa si celi al di là delle loro sembianze (Strange Circus).

19. Il costume è una citazione a Female Prisoner #701: Scorpion (Itō, 1972).

20. Traduzione basata sulla versione inglese del film.

21. Maldonado definisce l’iconema come una parte parte pragmaticamente o semanticamente privilegiata di un oggetto, tale da fornirne con l’ammontare minimo di informazioni il massimo della riconoscibilità. Cfr. T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1993.

22. L. Mulvey, Visual Pleasure in Narrative Cinema, in Film Theory and Criticism: Introductory Readings, a cura di L. Braudy, M. Cohen, Oxford University Press, New York 1999, pp. 809, 833-844.

23. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka: Toward a Minor Literature, University of Minnesota Press, Minneapolis 1986, p. 23, traduzione mia.

24. Un suo corrispettivo è senz’altro la ricorrenza dei motivi musicali, di cui un’elencazione porterebbe lontano.

25. Dialogo tradotto dalla versione internazionale del film.

26. Cfr. W.  J: Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, tr. it., Il Mulino, Bologna 2014, e S. Connor, La voce come medium. La storia culturale del ventriloquio, tr. it., Luca Sossella Editore, Bologna 2007.

27. Ibidem.

28. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka, Toward a Minor Literature, cit.

29. W. J. T. Mitchell, What do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, The University of Chicago Press, Chicago 2004. Cfr. William J. T. Mitchell, What do Pictures Really Want?, in “The MIT Press Journal”, Vol. 77 (1996), pp. 71-82.

30. Cfr. A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.

31. Lo si legge nei primi minuti del film.

32. Laozi, Tao Te Ching. Il libro della via e della virtù, tr. it., Mimesis, Milano 2017.

33. «[…] s’impasta l’argilla per fare un vaso / e nel suo non-essere si ha l’utilità del vaso […] Perciò l’essere costituisce l’oggetto / e il non-essere costituisce l’utilità», ivi, cap. 11.

34. Dal flusso di coscienza iniziale di Keiko, protagonista di Utsushimi – The Real Body.

35. Cfr. H. Belting, Antropologia delle immagini, tr. It., Carocci Editore, Roma 2013.

36. Cfr. R. Eugeni, L’immagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale, Fata Morgana, 8, 2009, pp. 170-171.

37. G. Didi-Huberman, L’immagine brucia, in Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, tr. it., Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, pp. 241-271.