Laissez bronzer les cadavres: contemplazione ed estasi dell’oro
Dopo Amer [id., 2009] e L’étrange couleur des larmes de ton corps [id., 2013], Hélène Cattet e Bruno Forzani tornano con un nuovo abbagliante film, Laissez bronzer les cadavres [id., 2017], presentato alla 70esima edizione del Festival di Locarno. Il cinema della coppia belga segue probabilmente un iter ben preciso, e se i detrattori potrebbero considerare queste opere soltanto come banali omaggi a tanto cinema del passato, quello da cui lo spettatore viene travolto è indubbiamente un sovraccarico di stimoli innanzitutto visivi. Lo straripante scorrere di immagini, colori, allucinazioni porta infatti a una contemplazione esasperata.
Laissez bronzer les cadavres (tratto dall’omonimo romanzo di Jean Patrick Manchette e Jean-Pierre Bastid) si apre con un bagliore accecante di un raggio di sole; seguono i dettagli (quasi un leitmotiv di Cattet e Forzani) degli occhi dei protagonisti e poi il titolo, intervallato da spari e sangue.
Ancora occhi che si chiudono e lo sguardo minaccioso tipico dei duellanti dei western. Siamo nel sud della Francia arida e fiammeggiante; una banda di rapinatori capeggiati da una donna fatale attende su un eremo il passaggio di un furgone blindato che trasporta lingotti di valore inestimabile.
La rapina diventa massacro, è l’estasi dell’oro.
Questa volta è dunque il western il genere di riferimento? Se con Amer e L’étrange couleur des larmes de ton corps (rifiuto categorico nel riportare il titolo italiano con cui è stato distrIbuito, NdR) la trinità del giallo/horror italiano Fulci-Bava-Argento era il primo rimando stilistico a cui pensare, con questo film i registi ci illudono di rimaneggiare, ancora una volta, quello che fece splendere tanto cinema nostrano – in primis pensiamo a Sergio Leone, e poi, ancora, a Enzo G. Castellari, Sergio Corbucci, Giulio Questi, Sergio Sollima e molti altri. Ci “illudono” perché sarebbe troppo facile ridurre la poetica della coppia belga a un mero un esercizio stilistico ben architettato, un pastiche di generi volto alla venerazione e all’omaggio di quel cinema ormai morto e sepolto. Cattet e Forzani, piuttosto, creano opere di contemplazione in cui essere risucchiati, travolti e alla fine risputati fuori. Un sostanza di rara reperibilità che lascia qualche strascico – gli spagnoli direbbero resaca.
Ci troviamo di fronte a un cinema lisergico che non può essere raccontato; le trame sono semplici ma si aggrovigliano attraverso labirinti allucinati, con lunghe digressioni. Cattet e Forzani creano un’esperienza che deve essere vissuta. Probabilmente, se fossimo stati in un paese anglosassone, il termine experienced avrebbe dato più colore e sfumature a questa considerazione.
Ma torniamo al punto. Sia Amer che L’étrange couleur des larmes de ton corps sono film che non possono essere narrati ma, come gli stessi registi hanno affermato in un’intervista1 , utilizzano quel vocabolario del genere (in particolare giallo italiano, pulp, horror anni ‘70) per raccontare una personalissima storia. Laissez bronzer les cadavres, come dicevamo sopra, è un polar (stando alle definizioni riportate dal coproduttore francese2) ma l’operazione dei registi è ancora una volta quella di scomporre i tasselli del genere e riposizionarli in un contesto differente, accostando diversi elementi. Il film è tutto incentrato su una rapina finita male e, soprattutto, su una donna che inizialmente è a capo della gang di balordi.
Se i caratteri di base di un noir e di un poliziesco sono, in genere, l’ambiente metropolitano, lo stile hard boiled di scuola americana come Raymond Chandler e Dashiell Hammett, la figura della dark lady, causa dei problemi dell’antieroe incarnato dall’investigatore geniale e squattrinato, nonché una serie di cliché che hanno reso celebre il genere, nel film di Cattet e Forzani questi costrutti sembrano essere rimescolati.
Non ci troviamo di fronte a un western, né ad un polar, come suggerito dalla stessa produzione: la metropoli è solo un ricordo lontano, siamo infatti in un ambiente arido e deserto, e la donna ammaliatrice è più maliarda che fatale; di western rimangono soltanto pochi elementi, come il paesaggio e alcuni aspetti della regia: i primissimi piani, i dettagli ripetuti, dagli occhi alle labbra, dalla pelle dei giubbotti dei poliziotti agli intarsi degli stivali da cowboy: puro feticismo ludico.
Qual è allora l’intento dei registi? Non certo il pirotecnico e orgasmico funerale del genere da parte di autori come Tarantino, Rodriguez e fratelli Coen, né il citazionismo esasperato e fine a se stesso.
In maniera provocatoria e forse un po’ paradossale diremo che, probabilmente, quello di Cattet e Forzani è un cinema che ha molta vicinanza con il cosiddetto cinema delle attrazioni degli inizi del ‘900, con quel desiderio di mostrare e di illudere. Tom Gunning nel suo saggio The Cinema of attraction: Early Film, Is Spectator and the Avant-Garde nel definire questo momento della settima arte si riferisce proprio a quel cinema che «si basa essenzialmente sulla qualità celebrata da Léger: la sua abilità nel mostrare qualcosa»3. Questo va in netto contrasto con il cinema narrativo, optando per un seduzione smodata. La direzione di Laisser bronzer les cadavres4 infatti va proprio verso “un’attrazione che sottopone lo spettatore a un impatto sensuale e psicologico.”
Non è forse un caso che l’oro diventi il tema principale del film: tutto ruota intorno alla sete di accaparrarsi il prezioso metallo, che sfocia nella teatrale sparatoria/battaglia della seconda parte del film. L’oro compare in tutte le sue forme e accezioni: una sequenza abbacinante vede il corpo di una donna in controluce – in una silhouette che avrebbe adorato Jess Franco – far scorrere la sua pioggia dorata sulla testa dell’uomo schiavizzato, il quale, con avidità, riceve il prezioso liquido, prostrato alla sua dea.
Ancora una volta, l’attrazione e la seduzione hanno la meglio su di una narrazione quasi assente, solo strumento per un’opera di evasione.
Dopo qualche minuto dall’inizio del film vediamo una donna nuda (le fattezze farebbero pensare alla protagonista ma questo resta volutamente ambiguo) che viene cosparsa da una polvere dorata. È una scena molto suggestiva, visivamente potente, e che, con un azzardato paragone e per qualche analogia, potremmo mettere a confronto con la celebre sequenza dell’incoronazione Ivan il Terribile [Ivan Groznyj, 1944] analizzata da Roland Barthes. Nel film di Ėjzenštejn, Barthes individua i tre livelli di significato osservando in particolare la scena in cui lo zar Ivan IV viene investito da una pioggia di monete d’oro: il primo significato è quello informativo che concerne tutto ciò che si può vedere nel fotogramma: gli attori, i costumi, quello che effettivamente sta accadendo; segue il secondo livello, quello simbolico, che si riferisce alla simbologia dell’elemento dell’oro e a tutto quello che ne consegue; infine un terzo livello, detto il terzo senso, quello a cui non si riesce a dare un nome ma che lo spettatore – in quel caso Barthes – non riesce a smettere di pensare. Questo senso sfugge al linguaggio, alla classificazione eppure è lì, ostinato e ottuso, contrariamente al simbolico, che è ovvio.5 Il terzo senso è la curvatura del naso dell’attore, nelle sue imperfezioni facciali, difetti quasi impercettibili ma che sono lì davanti a noi: non possiamo fare a meno di notarli ed esserne ossessionati. Nella scena di Laissez bronzer les cadavres citata poco sopra, dopo i due livelli facilmente esprimibili, si passa a questo livello ottuso, quel senso indefinito e indefinibile che è lì, presente, più ostinato che mai: è nei seni sfioriti della donna, nelle striature della pelle, nelle mani ruvide degli uomini che la toccano.
Lo spettatore, domato, schiavizzato, imbambolato dalle prime allucinazioni del film, ne esce tormentato.
Queste analisi portano a definire il film in questione, e un po’ tutto il cinema di Cattet e Forzani, come una donna-fattucchiera che circuisce la sua preda e tende a portarlo alla contemplazione estatica, a sedarlo. L’oro, vero motore del film, con tutta la sua simbologia, è causa di peccati capitali, di avidità, di sangue che sgorga. Nel turbinio di quella battaglia mossa dalla cupidigia, quando ormai tutto è perduto, la protagonista, interpretata da una ossuta e letale Elina Löwensohn, inala dell’etere dietilico e inizia il suo viaggio. Ci si vuole perdere con e dentro Laissez bronzer les cadavres.
Il film si svolge in una giornata, l’azione è scandita dalle ore che si rincorrono e culminano nella carneficina, mentre la colonna sonora (sono presenti alcuni brani di Ennio Morricone – chi altri sennò?) rende questa orchestra di sangue e oro onirica, accaldata e drogata. Ripensando infine al film mi viene in mente il poeta febbrile Dino Campana e un estratto di quell’infinita sorgente che sono I Canti Orfici:
“Era intanto calato il tramonto ed avvolgeva del suo oro il luogo commosso dai ricordi e pareva consacrarlo. La voce della Ruffiana si era fatta man mano più dolce, e la sua testa di sacerdotessa orientale compiaceva a pose languenti. La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno misterioso. E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita. Ma la sera scendeva messaggio d’oro dei brividi freschi della notte.”6
Piccola morte, piacere, oblio, rapimento, ebbrezza: lasciate che i film possano provocare tutto questo.
NOTE
1. http://birthmoviesdeath.com/2017/10/09/fnc2017-interview-let-the-corpses-tans-helene-cattet-and-bruno-forzani
2. http://www.nocturno.it/laissez-bronzer-les-cadavres-il-trailer/
3.T. Gunning, The Cinema of Attraction: Early Film, Is Spectator and the Avant-Garde, p. 58, in T. Elsaesser, A. Barker (a cura di), Early cinema: space, frame, narrative, BFI Publishing, London, 1990.
4. Ttitolo oltre che, citando quel modo di incasellare certo cinema, è anche già gioco di parole attraente e perverso.
5. R. Barthes, L’obvie et l’obtus. Essais critiques III, Paris, Seuil, 1982, 35.
6. D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, Torino, Einaudi, 2014.