Ri-mediazione dello sguardo e alcune sue conseguenze
Happy End [id., 2017] si apre con una serie di inquadrature prese da uno smartphone: immagini dal formato rigorosamente verticale, registrate da dispositivi mobili e finalizzate alla condivisione, forti di un impietoso andamento documentario che ancora una volta il cinema di Haneke delega alle proprie monadi espressive, alle proprie mediazioni.1 Su di esse scorrono delle linee di testo che fanno da commento come durante una trasmissione dal vivo di qualche social network: non ci è dato di sapere, per ora, chi stia scrivendo o meno queste parole.
Osserviamo quindi l’inquadratura di un cantiere edile. Stranamente spanciata, grandangolare, ecco: in alto a destra c’è una stringa numerica. È una camera di sicurezza che riprende l’operato degli addetti ai lavori, immortalando per caso un incidente. Se le riprese che precedono il titolo sono esplicitamente “mediate” dall’interfaccia che ce le presenta (radicalmente non canonica da un punto di vista retorico e narrativo cinematografico) questa fornisce invece un ambiguo raccordo tra il dominio della registrazione (della mediazione appunto) e quello, fantasmatico, della visione cinematografica classica: se non ci fossero quei piccoli numeri a fornire un indizio, o se l’audio non fosse parzialmente extra-diegetico, sembrerebbe di rivivere il trauma di Niente da nascondere [Caché, 2005].2 Di trovarsi cioè dinnanzi a un’immagine della quale non possiamo conoscere l’identità e nella quale non possiamo che smarrirci, dalla quale veniamo sopraffatti, impossibilitati a trovare uno sguardo che in essa aderisca al nostro. La continuità tra le prime inquadrature e quella del cantiere è squisitamente concettuale: nelle prime siamo consci di avere a che fare con una mediazione, ma ci viene nascosto il soggetto mediante (il primo fautore dello sguardo, chi sta registrando e commentando) nella seconda scopriamo di trovarci dinnanzi a un altro sguardo mediato soltanto col giusto spirito di osservazione – ancora una volta l’identità della visione, nel momento in cui si compie mostrando o meno la propria mediazione, viene sottratta. Lo spettatore guarda, ma non sa cosa sta guardando. Ma soprattutto: lo spettatore vede ma non sa chi sta vedendo assieme a lui. Non sa di chi siano gli “occhi” attraverso cui conosce la realtà filmica.
Immagini colte in una crisi di identità. Sopra: Happy End. Sotto: Niente da nascondere.
Scrive a tal proposito Leonardo Gandini in Fuori di sé:
“Nel cinema contemporaneo si fa strada una tendenza a parlare di alterità da un punto di vista non soltanto tematico, ma anche narrativo e stilistico. (…) [Essa si manifesta] come una forma di riflessione sulla ambiguità che caratterizza le immagini, la loro origine e la loro identità. È in questo modo che il cinema prende gradualmente dimestichezza con l’idea che – per affrontare propriamente il tema dell’alterità, per parlare dell’altro – è necessario farsi a sua volta altro, ovvero mettere costantemente in discussione la propria identità estetica.”3
È in questo senso che l’avvento dei nuovi media nell’opera di Haneke, esemplificato dai numerosi cellulari e desktop che compaiono in Happy End, diviene una riflessione sul cinema e sulle immagini proprio uscendo dalla superficie dello schermo e passando, in modo estremamente significativo, per l’esperienza spettatoriale. Se Niente da nascondere “fa della questione dell’identità l’anello di congiunzione fra racconto e messa in scena da una parte, personaggi e spettatori dall’altra”, rendendo noi fruitori “costantemente dipendenti da immagini di cui non conosciamo la natura nella stessa misura in cui il personaggio ne ignora l’origine”,4 Happy End si muove su una linea direttrice parallela. Nel film la “precarietà del senso”5 della visione è chiamata a ridimensionarsi nel momento in cui l’immagine viene posta al centro di uno scambio comunicativo ben chiaro: capiamo che i filmati da cellulare non sono altro che espedienti per passare il tempo di chi li registra6 e al tempo stesso che la registrazione sul cantiere viene trasmessa da uno schermo che il responsabile dei lavori (un altro dei protagonisti) sta tenendo d’occhio. Non è il senso delle visioni a essere ambiguo, semmai sono i soggetti dello “sguardo mediato”, i frutori/fautori di queste immagini a nascondersi. E sembra che il nascondimento dei soggetti coinvolti sia una costante dell’universo mediale di Happy End, il quale viene insistentemente osservato in quanto dominio visivo in cui operano forze trascendenti ma nascoste, demiurghi invisibili che restano (come noi che guardiamo) al di qua dello schermo.
Un esempio lampante in tal senso viene offerto dalle numerose conversazioni telefoniche o telematiche che costellano il racconto. Nel primo caso, vediamo e sentiamo sempre un solo interlocutore mentre dell’altro non ci è reso alcunché; nel secondo spesso non ci è dato di vedere nessuno, il desktop di un portatile totalizza la visione. In tutti i casi la visione mediale basa tutta la sua ambiguità sulla sottrazione di uno o di entrambi i soggetti che la rendono possibile.
Un chiaro esempio di come i media in Happy End facciano da pretesto alla discussione sull’identità della visione cinematografica. In una delle scene iniziali assistiamo a una telefonata che coinvolge un interlocutore che non conosciamo. Vediamo le immagini di un telegiornale sentendo la sua voce dialogare col silenzio. In questo primo momento entrambi gli interlocutori della telefonata ci vengono nascosti. Dunque arriva il controcampo che disvela il volto dell’uomo che parla: rimane avvolta nel mistero l’identità di chi, dall’altra parte della cornetta, stia dialogando con lui. Se in prima istanza ci era impossibile capire chi stesse parlando a chi, adesso siamo a conoscenza di una sagoma che a ben vedere continua a non darci indizi di senso sullo scambio in cui è coinvolta: ancora questo personaggio è svincolato da tutti gli altri – non sappiamo chi stia parlando con lui né quale sia il suo ruolo. La sua identità, pur essendoci concessa, è ancora avvolta nel mistero quanto gli scambi che la coinvolgono.
All’immagine mediata, terreno di comunicazione, corrispondono demiurghi nascosti – osservatori, lettori, utenti che lo spettatore si trova suo malgrado a interpretare.
Paradigmatica è la parentesi dell’amante di Thomas: per una gran parte del film di lei non vediamo che le schermate di un desktop, qualche parola scritta in chat o via mail. Qua la mediazione intrinseca dell’interfaccia si carica di un valore sensibilmente diverso da quello di una telefonata: nello schermo del computer, dilatato fino a raggiungere l’estensione di quello cinematografico, si consumano eventi che dipendono direttamente dalla volontà che sta dietro allo sguardo che ci viene mostrato. L’inquadratura è a tutti gli effetti una soggettiva: le parole che appaiono a schermo vengono scritte da chi le osserva, dalla donna posizionata dinnanzi al portatile e le cui dita scorrono rapidamente sui tasti. Il senso di suddetti eventi, di nuovo, non è ambiguo (non siamo dinnanzi ai nastri misteriosi di Niente da nascondere): sono conversazioni clandestine tra due amanti; tuttavia sussiste un collegamento piuttosto evidente tra visione e azione, una risonanza inquietante tra chi osserva e ciò che viene osservato. Come il giovane protagonista di Benny’s Video [id., 1992] ci troviamo alle prese con delle azioni di cui siamo i protagonisti: il confine del voyeurismo si annulla automaticamente, nel momento in cui ci troviamo a compiere ciò che in altri momenti avremmo solo osservato. L’interfaccia resa visione ha vita propria, nasconde i soggetti che al suo interno riescono a scambiarsi informazioni – così facendo anche lo spettatore viene nascosto: il suo sguardo non può venir corrisposto, all’interno delle immagini, da alcun corpo o volto. Il controcampo viene insistentemente negato, concesso solo a tratti e un po’ per gioco: ancora una volta l’ambiguità di queste immagini le rende in grado di farsi totalizzanti nel medesimo istante in cui rende impotenti e meschini i loro fruitori. Una questione che non inerisce più il senso intrinseco di ciò che viene visto, ma più specificamente l’entità dello sguardo che ce lo presenta e che in esso agisce: “la suprema elusività delle immagini e la nostra conseguente difficoltà di riconoscerle”7 è abdicata dai confini del quadro a ciò che li eccede, dall’estetica ai suoi limiti.
Schermi/visioni in assenza di osservatori/demiurghi: chi sta osservando, chi sta comunicando?
Il rapporto tra soggetto e oggetto, tra osservatore/attore e immagine, rimanda poi alla delicata demarcazione che nel cinema separa la realtà dalla finzione: spesso ci troviamo convinti di cogliere negli sguardi di un personaggio un cenno d’intesa solo in base alla chiamata che lo abbiamo visto ricevere da un altro protagonista. La comunicazione virtuale, densa dell’ambiguità che il cinema di Haneke cuce addosso alle proprie ossessioni (e per questo né dipinta positivamente né negativamente), sembra allora formulare l’esistenza di un dominio parallelo a quello “reale” in cui, semplicemente, le cose accadono. Non importa poi se ciò che si consuma al di là di ciò che non vediamo sia o meno in grado di influenzare gli eventi “veri” (se quindi alla festa di famiglia Thomas e la sua corrispondente segreta interagiscano o no) – ad avere rilevanza è semmai il fatto che il nostro sguardo ne sia influenzato, che il film ne sia influenzato. Questo cinema, volendo nuovamente mettere al centro della propria attenzione il nascondimento e la sua proposizione, sembra in grado allora di aprirsi a una contaminazione che confonde la presunzione col sospetto, il racconto con l’ipotesi: processi che già abbiamo visto in precedenza e che però qua si riaffermano con forza e proprio a partire da un’attenzione mediale leggermente mutata, volta adesso allo scambio e all’interazione. Forte di questa volontà il racconto stesso incede per elisioni: veniamo continuamente posti dinnanzi a conseguenze di gesti o di scelte senza che questi divengano mai protagonisti della scena.
Il gioco di sguardi tra i due amanti viene osservato e interpretato in base a interazioni che i due hanno avuto in assenza l’uno dell’altra, in un terreno irreale nel quale si sono trovati alternativamente nascosti: le telefonate, le mail, la chat. Senza l’unico controcampo rivelatore che ci ha mostrato il volto della donna, il loro osservarsi alla festa di compleanno del nonno non avrebbe avuto alcun senso. Ecco che, passando per la ricomposizione inevitabile che i nuovi media implicano nel mettere in contatto entità altrimenti distanti, l’irrealtà della visione (dello sguardo nascosto) influenza il reale del racconto. Non vedremo mai i due amanti parlarsi dal vivo.
Alterità e morte
Queste premesse ci servono per addentrarci nel nucleo della nostra riflessione. Prima però è opportuno spendere qualche parola sull’intreccio del film. Esso ruota attorno a una famiglia dell’alta borghesia e ad alcuni problemi che la scuotono: da una parte la figlia del primo matrimonio di Thomas, Eve, gli viene affidata a seguito del ricovero della madre e l’uomo deve vedersela con un ruolo paterno che ha sempre rinnegato, dall’altra la sorella e il nipote del ricco fondatore dell’azienda devono fronteggiare le conseguenze di un grave incidente che ha causato la morte di un operaio in uno dei loro cantieri. In tutto ciò il vecchio patriarca, Georges, non fa altro che tentare il suicidio, Thomas tradisce la nuova compagna con una violoncellista, il nipote fa abuso di alcool e così via. Inevitabile soffermarsi sul tono generazionale che il pessimismo di Haneke torna ad assumere in Happy End, passando per un racconto popolato dalle sagome dei vecchi quanto dei bambini, degli adulti quanto dei giovani ribelli: un tono che si piega alla rappresentazione di una realtà contigua a quella socioculturale contemporanea (lo testimoniano ancora una volta, per esempio, le intromissioni dei notiziari) e che prosegue un discorso trasversale a tutto il cinema dell’autore austriaco. Al centro della sua attenzione troviamo un rapporto contraddittorio, complesso e strabordante con un’alterità che ha mille volti: culturali, economici, individuali.8 Non sembra un caso che la famiglia di protagonisti appartenga all’alta borghesia: la loro estrazione sociale gli consente di percepire come “altri” un’infinità di soggetti, dagli operai ai migranti, dai domestici ai parenti meno conosciuti. Nel momento in cui la questione dell’alterità “non investe più semplicemente il piano dei contenuti, ma anche quello dell’immagine e della narrazione”9 nei modi che abbiamo visto, queste distinzioni tra individui e immagini di individui (esibite o meno) si radicalizzano e si sublimano, sfociando nella raffigurazione di un’alterità non più sopprimibile, non più ignorabile. A livello contenutistico, essa si manifesta passando per le figure al margine (e limite) del transito generazionale in atto nel film: il patriarca, la piccola Eve e il nipote maggiore.
Gli altri di Happy End: individui o gruppi socialmente, culturalmente, esteticamente ed economicamente astanti dalla famiglia dei protagonisti, che da essa vengono interpellati in quanto subordinati. Il comportamento sfacciatamente conservatore e quello invece provocatorio del nipote sono facce di una stessa medaglia, che utilizza l’altro come strumento di auto-affermazione, come principio in ultima istanza identitario. Stesso principio muoveva l’angoscioso dramma di Niente da nascondere.
La famiglia borghese al centro della storia si compone di personaggi che non possono morire, che osservano la morte, che la agognano o che ne trasformano il desiderio in un impeto di ribellione insignificante. Dal primo all’ultimo sono prigionieri della propria inazione: il transito che lega Georges alla nipote, passando per il nipote più grande e per la sua meschina e perenne inadeguatezza, si basa proprio su questa impossibilità di agire e sugli atteggiamenti che ne derivano. Tutti e tre i personaggi (il nonno, il nipote e la nipotina) sono dei falliti, degli alienati che non riescono a tradurre in alcun modo il loro desiderio di morte o di riscatto. Da una parte il vecchio patriarca, figura che Haneke recupera dal precedente Amour [id., 2012], non fa altro che tentare il suicidio senza alcun successo, dall’altra la bambina al tempo stesso regala la morte (alla madre, al piccolo roditore dell’inizio) e però si limita a osservarla, innescando meccanismi che iniziano a muoversi da soli; a metà tra i due la depressione del futuro capo dell’azienda di famiglia, destinata a reiterarsi tra rivolte più o meno patetiche. Durante il pranzo finale tutti e tre gli atteggiamenti s’incontrano sotto lo stesso tetto e si nutrono l’uno dell’altro: l’impossibilità della morte e le sue conseguenze, prese in una danza di reciproco innesco e di inevitabile insuccesso. Siamo ancora una volta attorno all’incapacità di queste sagome di vivere il trauma originario dell’annichilimento, destinata a smarrirsi tra le riproduzioni dello stesso – e, com’è accaduto in Benny’s Video o in Niente da nascondere, a girovagare in un mondo di schermi che ne rivangano ossessivamente la (tragica) bellezza. La glacialità dello stile di Haneke giace, come le sagome che ne abitano la desolazione, all’ombra di un panorama disastrato e volitivo, ma incapace di far esplodere la propria volizione. I riferimenti politico-sociali allora men che mai possono apparire fini a sé stessi: si generano piuttosto da una condizione che riflette sì la contemporaneità, ma a monte delle sue contraddizioni e problematiche di derivazione storica: prima dei movimenti migratori e del problema dell’integrazione, prima dell’inaridimento dei rapporti umani e degli incidenti sul lavoro, prima della dissoluzione dei microcosmi borghesi e della sovrana indifferenza che intorpidisce qualsiasi relazione – una società delle immagini ossessionata dalla morte e circondata dalle morti, che non può far altro che rimanere bloccata a osservare ciò che attorno le muore. Il suicidio è l’unica prospettiva possibile e l’unico contatto col fuori-schermo, eppure nessuno riesce a raggiungerlo, rinnovando all’infinito una strenua e detestata sopravvivenza.
C’è qualcosa di profetico nel piccolo angelo della morte, Eve, che la accomuna a tutti gli altri infanti disfunzionali visti negli episodi precedenti della filmografia del regista: una brama oscura ma al tempo stesso tremendamente lucida, destinata a trasformarsi in un impeto omicida o distruttivo, incapace di distinguere il bene dal male e disinteressato, com’è ovvio, sia di desideri che di paure altrui (la madre ha desiderato di morire? Sappiamo che l’ha fatto solo Georges) – interessato solo a immagini di morte. Sempre più alieno e sempre più altro, il suo modo di percepire la realtà che la circonda si schiude solo al contatto con chi le somiglia: il nonno.
L’inquadratura finale specchia quelle che, inizialmente, hanno ripreso immagini di morte dal cellulare di Eve. Quanto si vede qua è però molto più significativo dal punto di vista della riflessione sul visuale: Georges, bloccato in sedia a rotelle, si è fatto infatti accompagnare fino al mare e attende che i flutti lo sommergano completamente. La ripresa si destina, a livello ideale, a immortalare la scomparsa dell’uomo, il quale non può che venir inghiottito dalle acque. Accade però che i figli del vecchio escano dal ristorante e corrano a salvarlo. Il tentativo finale del suicidio si sostanzia così nella brama di scomparire, letteralmente, dal quadro dell’immagine. Esso non può che fallire, lasciando inappagati in questo modo sia il suicida sia la sua glaciale accompagnatrice: le più ottuse e cieche tra le sagome di questo film si aggrappano, a livello quasi letterale, a quella che brama solo la propria uscita di scena.
Ri-mediazione dell’alterità, ri-mediazione della morte
Ecco gli altri ultimi di Happy End: il roditore, la madre sul divano, il nonno immerso nell’acqua. Oggetti di uno sguardo che muoiono. Ecco la forma di alterità più irriducibile: cioè la morte nel suo farsi, nel suo accadere sullo schermo (dominio al tempo stesso documentario e irreale, come già abbiamo detto riguardo la corrispondenza tra Thomas e la sua amante). Nella sua dimensione più intima e libera dai vincoli sociali, quella incarnata dal vecchio cinico e depresso e dalla bambina omicida (oppure dal disastrato nipote fallito), slitta sulla rappresentazione di una morte che è meta ideale e desiderio ultimo di ognuna di queste sagome. Un’alterità così traumatica e vibrante non può che deformare, di nuovo, il tessuto di queste visioni: ecco che infatti appare (e può apparire soltanto) attraverso una mediazione, per la precisione nello schermo di un cellulare. Svariate sono le morti di cui sentiamo o vediamo in Happy End. Nessuna, eccezion fatta per quella del criceto, ci viene mostrata: qua non è soltanto il cinema a venir chiamato in causa nella sua limitatezza mostrativa, incapace di cogliere la catastrofe, ma sono le immagini in generale che denunciano la propria incapacità. Eve e suo nonno si raccontano di persone che hanno ucciso, la madre della bambina muore in ospedale, più volte veniamo a sapere di alcuni tentativi di suicidio, eppure la morte proprio non riesce a entrare nel dominio della visione; viene negata all’infinito. L’evento decisivo, l’alterità nella sua forma più radicale, è destinato a rimanere escluso da questi quadri: a venir raccontato, accennato, agognato ma mai visto o proposto, a lasciar tracce ma non ad accadere. Più che soltanto al cinema, la morte sfugge alle immagini in senso lato, a ogni ri-mediazione immaginale. La sua presenza troneggia e agita ogni anfratto dell’immaginario hanekeiano ma il suo farsi-evento resta proibito. Al più la sua importanza e la sua centralità può venir colta e capita.
Torniamo allora alle due figure principali del film: il vecchio e la bambina. Se il primo, alieno alle dinamiche di ri-mediazione della contemporaneità, si limita a desiderare fino allo stremo delle forze un’uscita di scena, la seconda è immersa in un mondo che vive di immagini e che non può che, attraverso le immagini, agognare più intensamente che mai l’annichilimento. Siamo di nuovo laddove abbiamo iniziato: dinnanzi a un cinema che riflette sul senso e sulle possibilità delle immagini tutte passando (e qua la sua intuizione diviene fondativa) per l’esperienza spettatoriale.
Il dialogo tra Georges ed Eve è forse uno dei momenti più importanti del film. Qua le due figure si svelano spaventosamente simili: il nonno confessa l’omicidio della moglie, la bambina l’avvelenamento di una compagna. È rilevante osservare come il gioco delle distanze, che Haneke porta avanti per tutta la narrazione costruendo i dialoghi su primi piani privi di un raccordo che metta in relazione i personaggi coinvolti, si infranga nell’unica circostanza in cui i due iniziano a osservare delle fotografie [nella quinta figura]. Ai due protagonisti, accomunati dall’ossessione per le immagini di morte (qui sostanziate nell’album fotografico di persone scomparse) viene qui concesso un istante di vicinanza: sono entrambi osservatori/fruitori, entrambi partecipano allo stesso macabro desiderio.
Se da una parte tutti i personaggi di Happy End fanno uso delle immagini che li circondano (gli amanti di quelle del web, il compagno della madre di quelle del telegiornale e così via) rilevante è il modo in cui Eve riesce a utilizzarle per capire la realtà che la circonda. La sua è una vera e propria indagine: è l’unica sagoma del film che cerca di capire qualcosa di ciò che le si muove attorno, che mira ad accrescere la propria consapevolezza infrangendo il principio di inazione che congela l’universo di Haneke. Ciò si manifesta, concretamente, quando la vediamo intenta a scoprire qualcosa in più sulle dinamiche del mondo degli adulti – talvolta ascoltando telefonate, talvolta spiando schermate di computer portatili. Il suo modo di riprendere l’agonia delle creature che uccide o che cerca di uccidere è parte dello stesso percorso di indagine. Ecco che il suicidio e la morte, generalmente intesi come alterità più-che-radicali nei termini in cui ne abbiamo parlato poco sopra, diventano parte di un processo discernitivo. Innescare un’immagine di morte e poi osservarla è un metodo di indagine della realtà: Eve, investigatrice che vuole avvicinarsi alla verità del mondo in cui vive, si affida alle immagini come filtro interpretativo di ciò che le si muove attorno e al tempo stesso brama rappresentazioni di morte, in quanto oggettivazione ultima di un principio di volizione che però sembra rigettare con strenua e aliena insistenza. E in effetti la brama di immagini è tutto e solo ciò che la bambina riesce a manifestare: sembra addirittura che i suoi omicidi siano finalizzati alla documentazione, che nascano nell’unica prospettiva possibile di divenire-immagini.
Qua Eve e il giovane protagonista di Benny’s Video si somigliano più che mai: sono giovani che uccidono solo per riprendere la morte e che fanno di ciò la loro unica modalità espressiva. Non solo: la loro figura si collega direttamente a quella dei torturatori di Funny Games [id., 1997], anch’essi imberbi pazzoidi che, in una prospettiva lì spudoratamente meta-testuale, si davano alla mattanza per non “sottovalutare l’importanza dello spettacolo”.10 Gli esempi, pur stratificandosi, potrebbero andare avanti ulteriormente: come non pensare alla generazione devastata de Il nastro bianco [Das weiße Band – Eine deutsche Kindergeschichte, 2009] o al piccolo Pierrot Laurent di Niente da nascondere – tutti giovani disfunzionali le cui azioni risultano incomprensibili, la cui elaborazione della realtà è mediata o frustrata, che cercano di capire il mondo che li circonda (fallendo o meno) e compiono gesti consapevoli e crudeli. Gesti che, quando si arriva a parlare esplicitamente di visualità e di medialità, si focalizzano ossessivamente sull’immagazzinamento di immagini efferate – processo che si rende allora palesemente sadico. La desolazione esistenziale che attraversa tutte queste figure le rende, qualora si rapportino a una contemporaneità prima di tutto pervasa da media e da visioni, più che meramente voyeur: questi giovani non si limitano a utilizzare le immagini come mezzo privilegiato per comprendere la realtà o per farne parte, si trasformano nei primi fautori di ciò che più desiderano. Sono delle fucine viventi di immagini, e per transitività fucine viventi di morte.
Giovani disfunzionali attraverso la filmografia di Haneke, nell’ordine: Eve che guarda un video su Youtube; Benny che filma il suo riflesso; Paul che parla in camera sfondando la quarta parete; uno dei poveri bambini del villaggio de Il nastro bianco che, significativamente, osserva un animaletto in gabbia come la protagonista di Happy End all’inizio del film.
Nascondendo il misterioso videomaker, Niente da nascondere trasformava lo spettatore nel persecutore che metteva spalle al muro il protagonista: ogni visione rifletteva sull’identità indefinibile dell’atto del vedere e di riflesso sull’ineffabilità degli oggetti di quegli sguardi. Nascondendo lo streamer durante i titoli di testa e nel finale, scagliando Eve al di fuori dell’inquadratura che lei stessa osserva e che in qualche modo “produce”, Happy End partecipa alla medesima riflessione: lo spettatore però non è più un semplice osservatore di una realtà indefinita, il cui sguardo entra attivamente nel racconto con funzione determinante, ma diviene in prima persona il demiurgo che anima ciò che avviene entro i confini del quadro. Tutti gli utenti di questi media gli somigliano, ma è la somiglianza con Eve quella più spiazzante: il fruitore di questo film, come quello di Funny Games, è un sadico che non vuole far altro che godere dello spettacolo cui assiste (l’entertainment di cui parla Peter). Così la ri-mediazione si fa mezzo autoriflessivo: la partecipazione attiva dell’utente nella creazione di nuove visioni virtuali trasforma ogni immagine in un inferno in cui esistenza ed esibizione coincidono – che cioè esiste perché viene visto, e viene visto poiché esiste. Passando per lo smarrimento dello spettatore dell’era digitale, confuso col demiurgo che produce ciò che viene visto oltre che osservarlo soltanto, il cinema di Haneke medita sulla propria natura: ogni immagine è una morte che accade dinnanzi ai nostri occhi. O meglio: che facciamo accadere dinnanzi ai nostri occhi. I giovani o giovanissimi iper-spettatori che popolano questi racconti, così come li abbiamo tratteggiati, sono il riflesso perfetto di chi al di qua dello schermo si nutre, analogamente a loro, di immagini e immaginari. Un processo che è sì eminentemente epistemologico, che si sostanzia nel tentativo di comprendere la realtà del mondo, ma che come abbiamo visto nasce all’apice di un’indagine precisa. Essa, volendo definire un’identità strutturante, va in cerca di alterità visuali fino a radicalizzarne le sembianze – in ultima istanza, come abbiamo già accennato, si scopre (e ci scopriamo) a ottenere soltanto immagini di morte.
NOTE
1. Altrove è stata la volta di videocassette registrate (Niente da nascondere), di nastri amatoriali (Benny’s Video) o di estratti telegiornalistici (71 frammenti di una cronologia del caso).
2. Il collegamento concettuale tra i due film è anche ribadito dai nomi di alcuni dei protagonisti, che sono gli stessi: Georges Lavant, qua il vecchio patriarca e là il padre di famiglia, Anne Laurent, qua figlia e là moglie;
3. Leonardo Gandini, Fuori di sé. Identità fluide nel cinema contemporaneo, Bulzoni Editore, Roma, 2017, p. 29.
4. Idem, p. 34.
5. Ibidem.
6. Ci addentreremo nella questione in seguito.
7. L. Gandini, op. cit., p. 35.
8. In Niente da nascondere è stata per esempio la volta della distinzione, razziale e sociale, tra francesi e algerini.
9. Idem, p. 36.
10. Anna: Why don’t you just kill us?
Peter: You shouldn’t forget the importance of entertainment.
HAPPY END (MICHAEL HANEKE, 2017) | SCHEDA TECNICA E INFORMAZIONI
Anno: 2017
Durata: 107 minuti
Origine: Francia, Austria, Germania
Colore: C
Genere: Drammatico
Specifiche tecniche: 35mm (1.85:1)
Produzione: ARTE France Cinéma, France 3 Cinéma, Les Films du Losange, Wega Film, X-Filme Creative Pool
Attori: Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz, Fantine Harduin, Toby Jones
Sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Montaggio: Monika Willi
Happy End (Michael Haneke, 2017) – Recensione: Scheda IMDB (Internet Movie Database)
HAPPY END (MICHAEL HANEKE, 2017) | TRAILER