Nell’immaginario collettivo, l’etichetta di «neorealismo» attesta un atteggiamento generico di rappresentazione spontaneista e il più possibile autentica della realtà bellica o post-bellica. Corrente più gloriosa, amata e studiata nella storia del nostro cinema (e tra le più gloriose, amate e studiate dell’intero Novecento italiano), vive nel ricordo di molti come un’ideale chimerico di unitarietà d’intenti e ispirazione, magari sulla scorta delle teorizzazioni di De Santis e Alicata e il loro auspicato ritorno a Verga, che com’è noto fu sublime ritrattista della realtà degli umili e degli ultimi e acuto esegeta della società dell’urbanesimo borghese.
Un fotogramma di La terra trema di Luchino Visconti, adattamento de I Malavoglia di Verga.
Eppure, il «fenomeno» neorealista è infinitamente più complesso e sfaccettato della sua frettolosa vulgata. Utilizzato per la prima volta nel 1930 da Umberto Barbaro per designare una modalità di rappresentazione anti-idealistica sulla scorta della Nuova Oggettività pittorica tedesca, il termine «neorealismo» accomuna una pluralità di summovimenti che hanno trovato loro espressione non solo al cinema, ma anche in poesia (un nome su tutti: Franco Matacotta) e in narrativa (il più continuo e rappresentativo: Marcello Venturi). Senza dimenticare il neorealismo pittorico di Guttuso. Una vocazione, quella neorealista, che ha attirato nelle proprie reti esperienze diverse e opposte, tutt’altro che riconciliata e coerente (Levi, Cassola, Rigoni Stern, ma anche La terra trema [1948] di Visconti o i Contadini al lavoro di Guttuso, non meno «infuocati» dei futuri Funerali di Togliatti), incentrata non solo su tematiche belliche o resistenziali ma anche sociali e antropologiche (si pensi a Francesco Jovine).
Renato Guttuso, Contadini al lavoro, 1951
Certo, se di neorealismo oggi ci si ricorda ancora con un misto di reverenza e idealizzazione, è soprattutto per merito del cinema. Ed è proprio nel cinema che l’esperienza neorealista, a un occhio più attento, svela tutta la propria complessità contraddittoria, la stessa che portò uno dei suoi primi rappresentanti, Carlo Lizzani, a individuarne un’unica costante epocale: la rivoluzione formale. Perché, consunte certe polverose forme espressive del cinema del Ventennio, la più straordinaria eredità neorealista risiede in un inedito senso dello spazio italiano, si tratti delle sue architetture urbane o delle sue grandi distese rurali. Una nuova fotogenia (favorita anche dai più leggeri mezzi di produzione, fuori dagli studi e dentro la realtà degli ambienti) che avrebbe segnato per sempre il cinema a venire, indispensabile anche per chi poi sarebbe approdato a una sorta di trasfigurazione astratta o magrittiana dei medesimi spazi (basti ripercorrere le carriere di giganti come Fellini, Antonioni e Bertolucci).
Trasfigurazione astratta degli spazi: Strategia del ragno (Bernardo Bertolucci, 1970)
Un film che, rivisto oggi, sembra squarciare parte del velo di illusioni di cui si è nutrito il mito neorealista è Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati, opera che, anche per espressa ammissione del regista, si situa in un territorio intermedio, contemporaneamente dentro e fuori dal neorealismo.
Il poster di Fuga in Francia
Fuga in Francia, uscito nello stesso anno del già citato La terra trema, di Ladri di biciclette di De Sica-Zavattini e di Germania anno zero di Rossellini, arriva proprio nel momento in cui si era esaurita una prima fase del neorealismo (quella più conosciuta e storicizzata), d’immediata presa sul reale e, volendo, anti-spettacolare e, in alcuni casi, proto-documentaria o semi-amatoriale.
Un fotogramma di Germania anno zero (Roberto Rossellini, 1948)
Del neorealismo, Fuga in Francia conserva l’involucro (la descrizione del clima post-bellico, con le sue recrudescenze fasciste e la povertà diffusa, l’esigenza di espatriare per trovare un impiego e le storie di persone costrette a «diventare fuorilegge o contrabbandieri, passando in molti casi, senza soluzione di continuità, dalla resistenza partigiana al banditismo»1) e certe affiliazioni puramente letterarie (tra i collaboratori alla sceneggiatura figura Cesare Pavese, che proprio in quell’anno avrebbe dato alle stampe La casa sulla collina). Al contrario, il senso diffuso di malessere e di disastro sembra vicino ai caratteri più marcatamente esistenziali di un altro degli sceneggiatori, Ennio Flaiano, che l’anno prima aveva pubblicato il suo straordinario Tempo di uccidere; mentre la necessità di una mediazione formale tra la realtà e la sua rappresentazione è tutta di Soldati, protagonista della cosiddetta stagione calligrafica di cui, con Lattuada, ha dato gli esiti probabilmente più alti (i gioielli «fogazzariani» Piccolo mondo antico [1941] e Malombra [1942]).
Ambientato all’indomani della Liberazione, il film racconta la storia di un ex-gerarca, Riccardo Torre (interpretato da un monumentale Folco Lulli, capace di nascondere una perversità diabolica dietro la sua apparenza anonima) che, in compagnia del figlioletto Fabrizio, cerca di raggiungere clandestinamente la Francia sotto falso nome salvo poi essere riconosciuto e reso prigioniero da un terzetto di operai in cerca di lavoro oltralpe (uno di loro è interpretato da Pietro Germi, che si ricorderà di questo lavoro una volta chiamato a dirigere il suo Il cammino della speranza [1950], altro film in attesa di una piena riabilitazione).
Pietro Germi in Fuga in Francia.
Il richiamo al noir (soprattutto nella prima parte, con l’omicidio della domestica Pierina), al realismo poetico francese (l’albergo-trattoria, gli stambugi logori, gli esterni ariosi, l’attenzione rivolta ai paria) e al western (le pendici «fordiane» della Val di Susa) svelano un’attenzione preponderante al cinema di genere, eminentemente popolare, nella consapevolezza – come ha scritto Malavasi nel suo formidabile Castoro – «che i film sul popolo, e particolarmente quelli neorealisti, con la loro vocazione all’immediatezza, si rivelano [invece] spesso incapaci di trasformarsi in film per il popolo»2. La costruzione tripartita (l’arrivo a Oulx, la traversata alpina, lo scioglimento oltre il confine francese) manifesta d’altro canto un gusto pienamente letterario, in fondo non così dissimile da quello stampo ottocentesco che aveva informato il Soldati calligrafico e che avrebbe continuato a caratterizzare molto del suo cinema successivo (con esiti molto alti, come Eugenia Grandet [1946]), anche oltre la conversione modernista dello splendido La provinciale (1953) (con Agostino [1962] di Bolognini e Il conformista [1970] di Bertolucci, uno dei tre grandi adattamenti moraviani del nostro cinema). Così, attraverso strutture e modelli che poco sembrano avere in comune con la rappresentazione minuta della realtà della prima grande stagione neorealista, «Soldati sublima il dato reale dentro una narrazione “forte”[…] (che) perde in fretta i suoi caratteri testimoniali e documentari»3 e crea invece una distanziazione asciutta da chroniquer.
Scansando sia le forche caudine dell’impegno civile quale unica fonte di legittimazione artistica sia la gorgiera dell’equivalenza tra intrattenimento e disimpegno, Soldati si attirò strali e mugugni di certa critica marxista e neo-gramsciana (Aristarco in primis) ma seppe intercettare un mutamento nei gusti e nei bisogni del popolo, ormai proiettato verso i progressi materiali che, soprattutto al Nord, sarebbero esplosi nel decennio seguente. Non è un caso che proprio l’anno successivo avrebbe visto il successo epocale di Catene di Matarazzo, melodramma archetipico e perfetto capace di rileggere i modi di un genere d’intrattenimento popolare come la sceneggiata napoletana.
Ma è proprio questa intelaiatura complessa ed eterogenea a collocare Fuga in Francia in una posizione privilegiata e quasi unica nella storia del nostro cinema. Da una parte perché gli permette di dar forma a un’ideale cristallizzazione di un preciso momento storico, entrando così nel campo dell’archivistica memoriale diversamente dalla pur artificiale presa diretta di film come Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945); dall’altra perché la rielaborazione in chiave formalista della materia (con un gusto pittorico che sta a metà tra il vedutismo e il neoclassicismo) non è certamente estranea ai caratteri di una filiazione industriale, ma la nobilita e al contempo la apre all’orizzonte più vasto dell’immaginario popolare. Esempio straordinario di quella copresenza trasversale di cultura alta e cultura bassa che avrebbe segnato alcuni dei capitoli migliori del nostro cinema e oggi quasi del tutto esauritasi.
NOTE
1. U. Barbaro, Neorealismo e realismo, Editori Riuniti, Roma, 1976
2. L Malavasi, Mario Soldati, Il Castoro, Milano, 2006
3. Ibidem.