O più propriamente antologia. Schizzi, momenti, lacerti, frammenti di un discorso sulla Storia. Perché la storia oggi è uno spettacolo babelico in cui lo scontro (non si sa bene quanto dialettico) di prospettive non conduce al raggiungimento di un senso, di una visione del mondo e delle cose, quanto alla dispersione del significato tra svariati punti di vista. Come a dire che forse non è più possibile una lettura unificante e onnicomprensiva della Storia (l’idealismo di Hegel? il materialismo storico di Marx?), quanto invece una serie di letture differenti (anche confliggenti) dei fenomeni. Dei momenti.
Quando il cinema racconta la storia: Lincoln di Steven Spielberg
Per questo, un film come Il giovane Karl Marx [Le jeune Karl Marx, Raoul Peck, 2017] – passato recentemente anche nelle nostre sale – si pone già come operazioni a priori problematica. Come rappresentare, di fatto, oggi, la vita, il pensiero, la visione del campione di uno «storicismo di lotta intellettuale del dubbio sempre critico e mai esistenziale»1? L’inesausta sete d’indagine di un pensatore che ha interrogato la storia a partire dalla sua base economico-produttiva, sempre armato però, utilizzando le parole di Marx stesso, della «forza dell’astrazione»?2
È una questione anzitutto di forma. Una forma che Peck sceglie volontariamente bidimensionale, in cui la concretezza dell’atto (la parola e il linguaggio: come, ci sia perdonato il mezzo calembour, significare il significato della Storia?) si disperde nel formato panoramico 2, 35 : 1, in cui i grigi polverosi trasformano la rievocazione di un periodo in una sorta di cronaca mimetica appoggiata ad una specie di realismo espressionista che si rifà ai modelli della Nuova Oggettività tedesca.
Lasciamo da parte gli altri interrogativi che un’opera del genere, pure, solleverebbe: è possibile visualizzare un sistema di pensiero? Perché alla prassi dialettica di Marx-Engels si sostituisce un racconto così essenziale e coerente, rettilineo (e un vizio di forma cinefilo porta la mente ad immaginare un Marx raccontato da Straub, da Godard, da Peter Watkins)?
Lasciamo da parte anche qualunque tentazione di giudizio e concentriamoci invece sui dati.
Il giovane Karl Marx
Così anche nel Marx (e nell’Engels) raccontato dal regista haitiano si intravede, più che il farsi di un pensiero, più che il lavorío di analisi di processi storico-materiali, un continuo rimpallo tra pubblico e privato, tra esperienza del singolo (campo) ed esperienza collettiva (fuoricampo), tra storia e Storia. Si tratta di un fil rouge che oramai accomuna tanta parte di cinema e serie. Il mondo, inteso come macrocosmo sensibile e storicamente determinato, sembra infatti non essere più rappresentabile se non per brandelli. Per frames. Irreversibilmente chiuso allo sguardo di autori e spettatori. Piuttosto, rappresentare la Storia significa mettere in scena il continuo riverbero del privato sul pubblico, l’eco del particolare sull’universale, l’illustrazione di un micro-contesto che assurge al ruolo di exemplum primum.
In altre parole, il racconto della Storia, per il cinema, non è solo antistoricista ma anche antimitologico. Anche quando dispiega la propria potenza spettacolare e produttiva per ricostruire un momento fondamentale nella storia del Novecento come in Dunkirk [id., Christopher Nolan, 2017]. Oppure quando mette in forma gli sforzi di Winston Chrurchill per guidare il Regno Unito contro la minaccia nazista ne L’ora più buia [Darkest Hour, Joe Wright, 2017]. Il film di Wright non è solo una sorta di controcampo e di specchio rovesciato di quello di Nolan (l’interno e l’esterno, i corridoi del potere e il “set” della guerra, i mandanti e gli esecutori), ma anche una sorta di cupo kammerspiel in cui il Churchill di Gary Oldman si comporta alla guisa di un antieroe tormentato, scisso tra le responsabilità del ruolo e i sentimenti, acconciamente mascherati, dell’uomo.
Sopra: Dunkirk
Sotto: L’ora più buia
Un discorso simile si può allargare anche all’universo seriale, dove, dalla miniserie The White Princess (2017) a The Crown [creata da Peter Morgan, 2016-in corso], assume addirittura un’evidenza ancora maggiore. E anche laddove la rievocazione assume accenti massimalisti e mitologici, ecco che la Storia non è più magistra vitae bensì condannata ad una rappresentazione puramente escapistica che sfocia volentieri nel fantastico. Così, in Vikings [creata da Michael Hirst, 2013-in corso] si dipana una controstoria in cui l’archetipo dell’evento reale si sovrappone alla sua rielaborazione fantastica. La Storia e il Mito si confondono senza soluzione di continuità, come testimoniato dalla presenza, di matrice più omerica che norrena, di un indovino-profeta significativamente privo di vista. La Storia diventa perciò una specie di “controstoria” o di”nuova storia”, di “storia parallela” o “alternativa” non troppo distante da certi universi mitopoietici come quello de Il trono di spade [Game of Thrones, creata da David Benioff e D.B. Weiss, 2011- in corso]. Qui, il mondo, intesco come macrocosmo assoluto e dialettico, esiste solo come puro schema mitico.
Vikings
A tal proposito, riconvocando in questa sede quello che per l’appunto è il massimo esempio cinematografico di “storia alternativa”, è piuttosto interessante sottolineare quanto sta succedendo all’interno dell’universo di Star Wars.
Se, da una parte, il macrotesto avventuroso, pur sempre più deprivato delle precise coordinate storico-politiche eviscerate da George Lucas, continua verticalmente, episodio dopo episodio, a comporre il quadro d’insieme (la Storia), ecco che questo stesso quadro si dissezione in tutta una serie di spin-off antologici che frammentano l’universo narrato. Ancora una volta, alla Storia con la “s” maiuscola si sostituisce una storia col la “s” minuscola che corre in parallelo ad esso e la risignifica. Così, dopo Rogue One: A Star Wars Story [Rogue One, Gareth Edwards, 2016], ecco approdare in sala il film dedicato alla giovinezza di Han Solo in Solo: A Star Wars Story [id., Ron Howard, 2018].3
Insomma, per riprendere il celebre e fin abusato titolo fenogliano, la Storia, al cinema e in TV, sta diventando sempre più,una questione privata. Tanto più che l’indimenticabile capolavoro della nostra letteratura resistenziale ha trovato proprio di recente una sua trasposizione cinematografica per mano dei fratelli Taviani (Una questione privata [Paolo e Vittorio Taviani, 2017]).
Come nel romanzo di Fenoglio, anche nel film dei Taviani la nebbia che avvolge le Langhe si trasforma in una coltre, un sipario che separa l’Uomo dalla Storia, il Singolo dal Contesto, il Particolare dall’Universale. Il racconto, così, si sofferma «sulla grande Storia soltanto quando questa viene direttamente a incrociare la vicenda particolare che costituisce la materia (ma anche il senso, anche l’alfa e l’omega) del suo racconto, perché in tutti gli altri casi essa semplicemente non interessa.»4 In questo modo, la Storia diventa «il magazzino dei ricordi, fatto di voci, di facce, di sensazioni fisiche e stati d’animo, di aneddoti ascoltati e di esperienze vissute.»5
Pertanto, la messa in scena della Storia intesa, appropriandoci del conio terminologico di Sergio Arecco, come «grande apparato»6 lascia sempre più spazio ad una narrazione a misura d’uomo. Un passaggio dalla “storiografia” e dal mito alla cronaca e al bildungsroman (è forse questa una delle tante cause della “crisi” di un genere eminentemente storico e mitico come il western?). Con il rischio che il progressivo accentramento del punto di vista finisca per rendere lo sfondo troppo sfocato.
Come evitare quindi che questo sfondo non si trasformi semplicemente in un contrappunto alle circostanze interiori, alla questioni private? Forse, una prima, ancorché parziale, risposta la possiamo ottenere ripensando alla stupefacente trilogia “liberal” diretta da Steven Spielberg tra il 2012 e il 2017 e composta da Lincoln [id., 2012], Il ponte delle spie [Bridge of Spies, 2015] e The Post [id., 2017].
Tre film diversi, certo, in qualche modo simmetrici e contrapposti per come mescolano racconti di uomini straordinari ed everyman, rievocazione storica e puntiglio cronachistico, rimozione del giudizio e dimensione critica. Eppure, tre film in grado di bilanciare le ragioni dell’uomo e le ragioni del mondo. La necessità del sentimento e il discorso sociale. Stabilendo, come unico criterio di demarcazione, la capacità dello sguardo di porsi quale strumento di lettura critica della realtà. Non a caso, Pier Maria Bocchi, di fronte a The Post, esorta ad «accettare che il cinema possa ancora insegnare ed insegnarci»7.
Il ponte delle spie
Oltre ogni etichetta di classicismo e di postmodernità, la recente trilogia spielberghiana segna il recupero di un umanesimo che era proprio della tragedia. Il rapporto tra l’individuo e la storia non si configura, semplicemente, come una rifrazione del privato nel pubblico (e viceversa), ma si sposta su un piano che non è solamente dialettico ma propriamente conflittuale. Così, lo scontro tra etica e morale personificato da Antigone e Creonte, in Sofocle, trova un’ideale continuazione nello scontro tra Abraham Lincoln e il Congresso per l’approvazione del Tredicesimo Emendamento, nella sfida bigger than life dell’avvocato James Donovan contro la maggioranza rumorosa e acritica per garantire alla spia sovietica Rudolf Abel i suoi inalienabili diritti, negli sforzi del Washington Post per pubblicare i Pentagon Papers nonostante il veto imposto dalla Casa Bianca e da Nixon. A mo’ di battuta, si potrebbe dire che il vero villain di tutti e tre i film è il grande apparato dello Stato e delle Leggi. In ogni caso, nei tre lavori del regista de I predatori dell’arca perduta [Raiders of the Lost Ark, 1981], conta la “pesatura“del punto di vista. Una mediazione delle prospettive capace di orientare lo sguardo. Fedele alla propria vocazione affabulatoria, Spielberg trova nel piacere del racconto l’espediente attraverso cui raccontare gli uomini senza scongiurare il rischio di impoverire il significato della Storia.
Nella speranza che essa, anche oggi, possa ancora insegnarci qualcosa.
NOTE
1. A. Macchioro, Introduzione a K. Marx, Il capitale. Libro primo, UTET, Torino, 2009, p. 19
2. K. Marx, Il capitale. Libro primo, UTET, Torino, p. 74
3. Operazione dello stesso segno ma di prospettiva opposta so verifica nel Marvel Cinematic Universe, dove una serie di frammenti transmendiali (cinema e serie) si assommano per creare un multiverso parallelo e alternativo in cui la Storia si trasforma in epica e perde ogni appoggio al dato reale.
4. G. Pedullà, Introduzione a B. Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino, 2006, p. XV
5. Ibidem
6. cfr. S. Arecco, Anche il tempo sogna. Quando il cinema racconta la storia, Edizioni di Cineforum, Bergamo
7. P.M. Bocchi, Cineforum http://www.cineforum.it/rubrica/Bocconi_prelibati/The-Post-tornare-al-cinema