Come anticipa la bellissima copertina dell’edizione italiana Adelphi, La formula perfetta – Una storia di Hollywood prende le mosse da Chinatown [id., 1974] di Roman Polanski; o, per essere più precisi, dalla sceneggiatura di Robert Towne e dalle vicissitudini che hanno accompagnato il passaggio di questo capolavoro interpretato da Jack Nicholson dalla carta allo schermo. Si tratta di una scelta indicativa quella di iniziare dalle vicende produttive di un film, e non solo un aggancio di comodo per David Thomson, che conosce personalmente Towne e che quindi può rivelare, a noi lettori, spassosi retroscena e gustosi aneddoti sulla vicenda. Fin dal primo capitolo del suo fluviale libro di quasi seicento pagine, il critico dimostra infatti, in maniera encomiabile, come ogni film del suo personalissimo “viaggio” nella storia di Hollywood sia sempre una sorta di battaglia, di lungo compromesso tra più menti al lavoro. Ogni film, nell’idea portata avanti dal critico, trova la sua ragion d’essere proprio nella sua natura collettiva (che, nel caso di Chinatown, si manifesta nel difficile rapporto tra lo sceneggiatore, il regista e il produttore). In più, l’interesse economico che soggiace a ogni film non è considerato da Thomson come un aspetto di secondo piano (per così dire: da “nascondere sotto il tappeto”), ma diventa il nucleo del discorso critico portato avanti dall’autore. Per Thomson, infatti, ogni film è una scommessa, un “azzardo” dove gli autori devono giocare il tutto e per tutto per portarlo a termine. È in questo difficile equilibrio tra compromesso e scommessa che risiede la «formula perfetta» che dà titolo al libro, e che Thomson riprende dal romanzo di Francis Scott Fitzgerald Gli ultimi fuochi. La formula perfetta è un lavoro di squadra in cui nessuna figura professionale (che sia regista, produttore, attore, ecc.) deve prevalere sull’altra, ma cooperare affinché la macchina hollywoodiana continui a prosperare.

Chinatown.

Ma il libro di Thomson è un testo fatto anche di luoghi. È a Los Angeles – dove la fabbrica dei sogni incontra la “Babilonia” di Kenneth Anger e Damien Chazelle – che l’autore trova una partenza ideale per questa “storia alternativa” di Hollywood; qui, dove un gruppo di imprenditori di origine ebraica, agli inizi del secolo scorso, ha fatto fortuna costruendo un vero e proprio impero economico. Come in Chinatown (noir losangelino dominato dalla figura del magnate Noah Cross), la speculazione edilizia dei territori californiani è infatti anche quella compiuta dai padroni dei grandi Studios. È d’altronde il denaro a muovere spesso e volentieri la “storia” descritta da Thomson, tanto da fargli affermare che «Chi segue [dove vanno] i soldi non sbaglia mai»1. Certo, l’approccio del critico inglese può suonare cinico e disilluso, ma permette anche di mettere da parte un’immagine idilliaca e un po’ nostalgica per un periodo tutt’altro che innocente, e di concentrarsi così, senza troppi filtri, sui sistemi di produzione dei film e dei generi. Un percorso, questo, che si fa appassionante proprio per il taglio scelto da Thomson, che è al contempo informale e pronto alla divagazione, all’aneddoto, al gossip, ma anche alla statistica, all’uso di dati e di grafici. Cosa tutt’altro che scontata per un testo che ha un compito non esclusivamente scientifico ma anche divulgativo; una scelta che si rivela azzeccata per entrare nella forma mentis della Hollywood, di ieri e di oggi.

Noah Cross (Jonh Huston).

Nell’itinerario storico percorso dal libro (che va dai primi del Novecento fino alla New Hollywood) i grandi registi non sempre sono protagonisti. La centralità nei primi capitoli di figure importanti del muto come Chaplin, Griffith o Stroheim lasciano poco a poco il posto ai produttori, che diventano le personalità più discusse della storia di Thomson. Thalberg, Zanuck, Selznick sono infatti quegli uomini che, con il loro senso degli affari, la loro megalomania e il loro giocare sempre d’azzardo, hanno prodotto film di cui, a volte, si potevano considerare veri e propri co-autori (e non possiamo tralasciare le splendide pagine dedicate alla nascita di Via col vento [Gone with the Wind, Victor Fleming, 1939], vero e proprio esempio di come un produttore ha tirato le fila di un progetto, scommettendo tutto su di esso, e venendone ripagato).

Via col vento.

Al contempo, la Grande Storia entra nelle pagine del libro. I fantasmi della Seconda Guerra Mondiale incrinano le utopie del cinema degli anni Trenta, condizionando film che si fanno al contempo più cupi ma anche più maturi – e, forse anche per questo, trovando il consenso del pubblico, come dimostra il successo di un film “difficile” come Giorni perduti [The Lost Weekend, 1945] di Billy Wilder.

Giorni perduti.

Ma tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, complice la diffusione della tv e il disperdersi delle grandi società produttive (schiacciate da costi di produzione sempre più elevati), una crisi investe il mondo del cinema. È con gli Settanta e con una nuova generazione di registi come Coppola, Lucas, Spielberg e Scorsese, che la cosiddetta “formula perfetta” ritrova una seconda vita. Nelle belle pagine dedicate a Lo squalo [Jaws, 1975] si intuisce la stima del critico per un altro “azzardo” degno dei fasti della vecchia Hollywood: quello del produttore Lew Wasserman e della sua Universal per un talentuosissimo regista di origini ebraiche, che, anche grazie a una campagna pubblicitaria e comunicativa assolutamente azzeccata, riuscirà a ottenere, da un investimento iniziale di 10 milioni, dei ricavati dieci volte superiori. Un risultato straordinario, che porta Thomson a scrivere (in contrapposizione all’analisi che ne fa Antonia Quirke) che: «Lo squalo rappresenta una novità storica nel senso che il suo significato più profondo e duraturo sta nei soldi che ha guadagnato »2.

Lo squalo.

Si tratta di un’affermazione un po’ provocatoria, ma d’altronde la provocazione non manca mai nelle pagine del libro. Thomson è spesso tagliente, sia nel presentare, senza peli sulla lingua, i protagonisti della sua Storia di Hollywood , che nell’elargire personalissimi giudizi (John Sayles liquidato con un “noioso”; L’esorcista [The Exorcist, William Friedkin, 1973] silurato come un film voyeuristico, o Jurassic Park [id., Steven Spielberg, 1993], un film che vorrebbe mai più rivedere – giusto per citare alcuni dei passaggi più urticanti). Ma questo fa parte di un approccio che rende anche godibile il libro. Resta solo il dispiacere per quei venti anni di ritardo della pubblicazione italiana che rendono un po’ inattuali alcune questioni – così come alcune considerazioni su film molto recenti per l’epoca come la trilogia de Il signore degli anelli di Peter Jackson o i vari Matrix suonano, oggi, un po’ frettolose.3 Eppure il libro ci dimostra un modo di fare critica unico nel panorama di ieri e di oggi. Sempre attraversato da arguzia, competenza e un tocco di geniale ironia.

NOTE

1. David Thomson, La formula perfetta – Una storia di Hollywood, Adelphi, Milano, 2022, p. 353.
2. Ivi., p. 514.
3. Sul libro a confronto con il cinema a venire e l’avvento del digitale, si consiglia la lettura del testo di Roberto Manassero Hollywood-LA, in «Cineforum» n° 9, marzo 2023.