Capitolo conclusivo di un progetto in tre atti, chiamato «trilogia domestica» o «trilogia dell’appartamento», La casa dell’amore [2020] è stato presentato nella sezione Forum della settantesima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino.
«A monte di ciascuno dei tre atti della trilogia – ha dichiarato Luca Ferri a Matteo Marelli1 – c’è una situazione spaziale estremamente circoscritta che si riflette sullo sviluppo narrativo.». Eppure, l’esplorazione di una cavità spaziale è l’unico elemento in comune di un polittico i cui pannelli si distinguono per specificità tecniche e prassi narrative.
La casa dell’amore
Dulcinea [2018], il primo capitolo, girato in 16mm, raccontava di figure archetipiche appartenenti a una temporalità incerta (l’Italia della prima repubblica evocata dai brevi notiziari alla radio, certo, ma anche una sorta di presente assoluto immerso in una spirale ciclica di eterni ritorni), dove frammenti di Buzzati (Un amore) s’incistavano alle vicende di un moderno Don Chisciotte innamorato di una bella di giorno, la quale, però, sembra non accorgersi nemmeno della sua esistenza. Metà follia d’amore che trascende le ere come una fosse sorta d’appendice di un capolavoro misconosciuto della nostra poesia novecentesca, O Beatrice di Giovanni Giudici; metà confessione immaginaria (ma dalla prospettiva di lui o di lei?) che somiglia a una versione sterilizzata di un mistero medievale, dove ogni sacralità è scomparsa e rimane solo la rappresentazione di una vita condotta sull’eterno crinale tra purgatorio e inferno: Dulcinea è un’apocalisse beffarda visualizzata con indugio contemplativo.
Dulcinea
Il secondo capitolo, Pierino [2018], genialmente girato in desueto VHS, è un documentario sulla figura eponima di Pierino Aceti: pensionato dopo una vita impiegatizia, personalità irresistibile e a volte un po’ ombrosa, intellettuale mercuriale e teneramente malinconico. Drop-out che ha riempito il vuoto di un’irredimibile solitudine con un amore assoluto e ossessivo per il cinema, Pierino vive in autoisolamento e si esprime alternando giudizi ficcanti, massime illuminanti e superficialità apodittica.
All’apparenza, un’operazione semplice. Alla prova dei fatti, un lavoro stratificato su cui val la pena spendere qualche parola in più: di fatto, Pierino segna in qualche misura il raggiungimento del vero punto d’ebollizione di quel formalismo rigido, geometrico-strutturalista, che informa la produzione del cineasta bergamasco. Per spiegare meglio, ricorriamo direttamente alle parole del regista, raccolte nelle note di regia:«Per un anno intero, ogni giovedì, mi sono recato a casa del signor Pierino Aceti.
Come in tutti i miei precedenti lavori, fortemente caratterizzati da un rigore stilistico e strutturale, anche in Pierino siamo di fronte ad una gabbia, ad un’operazione in cui il limite è parte integrante dell’opera stessa. Questa volta però la vita privata e il lavoro hanno subìto una fusione determinante: il film segue lo svolgimento di una vita e il lento trascorrere del tempo nel pattuito accordo fatto con il signor Aceti, in un arco temporale che diventa importante quanto il soggetto ritratto.»2
Pierino
Da una parte, Pierino vive di un’inflessibile struttura matematica che determina la durata e l’avvicendamento di ogni scena; dall’altra, inscena un percorso di graduale e rispettoso avvicinamento tra due persone, una che sta dietro e l’altra che si trova di fronte alla macchina da presa (badate bene: solamente a marzo, quando comincia a nascere un rapporto confidenziale, Ferri si permette il lusso del primo piano). Così, il massimo dell’ossessione del controllo incontra l’imprevisto più ingovernabile: quello del sentimento, dell’empatia, della prossimità.
Abacuc
Il cinema di Ferri è segnato da una contraddittorietà fertile, spesso incompresa anche dai suoi sostenitori: tanto più il meccanismo impone legacci e catene, quanto più la libertà creativa viene sollecitata e stimolata. Rintracciabile soprattutto nei film della sua prima fase (una produzione «patafisica», fatta di paesaggi post-umani e voce meccaniche, che raggiunge la sintesi e l’apice con il lungometraggio Abacuc [2014] e la suite videomusicale Curzio e Marzio – opera picaresca in 2 atti per nastro magnetico di Dario Agazzi Cinematografata da Luca Ferri [2014]), la produzione ferriana si nutre di tale disequilibrio antifrastico: rifuggire ogni forma di antropocentrismo e, allo stesso tempo, «subirla» (come massimamente testimonia il cortometraggio Colombi [2016], presentato al Festival di Venezia).
Colombi
Con La casa dell’amore, tale rigorismo paraingegneristico, fusione oltranzista e impossibile di Iannis Xenakis, nitore architettonico da grande cinema giapponese e narcisismo contemporaneamente fanciullesco e coltissimo alla Carmelo Bene, subisce un evidente smottamento. Girato in digitale con una Sony Fs7 e ottiche Zeiss CP2, questo documentario (ma la definizione ha le maglie strette: documentazione e ricostruzione si alternano senza soluzione di continuità) restituisce porzioni della vita di Bianca, transessuale trentanovenne che vive nei pressi di viale Certosa a Quarto Oggiaro, nella periferia degradata milanese. Fidanzata con Natasha, transessuale d’origine giapponese che però si trova momentaneamente in Brasile (e che nel film compare esclusivamente attraverso le lunghe telefonate con Bianca), trascorre il suo tempo attraverso una scansione ritualistica fatta d’incontri con i suoi clienti e momenti confessionali. Vive in un appartamento privo di luce elettrica e illuminato solo dai tenui bagliori della candele, tra i ricordi del padre scultore e una finestra che si apre verso un al di là destinato, nel film, a rimanere confinato fuoricampo.
Frutto di oltre un anno di lavoro, il film è anzitutto il racconto di una storia invisibile: quella dell’avvicinamento tra il regista e il soggetto della sua opera. Ed è proprio qui, in ossequio all’imprevedibilità del processo, che Ferri sceglie di abdicare alla propria intransigenza protocollare (di «autosabotarsi»3) per abbracciare le multiple interferenze della realtà. Non un atto di resa, però, quanto un passaggio inevitabile verso una poetica della materia che necessita di smarcarsi dalle geometrie astratte dei film precedenti. Per raccontare un soggetto in qualche misura «imprendibile» com’è Bianca, l’immagine si carica di una forza aggressiva (sotto questo punto di vista, pienamente erotica) inedita nel cinema di Ferri. Corporeità debordate com’era il Dario Bacis dei primi film (e qui presente in un cammeo), ma senza la sua impronta extra-filmica e metafisica, Bianca prende vita attraverso l’immagine, matura una simbiosi con le luci flebili e pastose e le composizioni scrupolose di Pietro de Tilla e Andrea Zanoli. Impossibilitato a controllare le intermittenze imponderabili della vita della protagonista (per pudore e morale di sguardo), Ferri ne fa una sorta di estensione dello spazio che abita: non è un caso che il titolo del film pertenga proprio alla dimensione spaziale e non a quella onomastica, a differenza dei due capitoli precedenti della trilogia.
A ogni modo, non bisogna essere tratti in inganno: la mancanza di una struttura matematica sulla quale innestare il corpo del film non è sintomatica dell’assenza di gabbie di contenimento. Industre discepolo del magistero fotografico di Luigi Ghirri, Ferri usa il profilmico (tutto ciò che sta in campo: l’inquadratura come limite) per chiudere in vitro le persone riprese. Dimostrazione di un cinismo generico e un po’ cruccioso? Latenza di un overlook entomologico-buñueliano? Piuttosto, il larvato tentativo d’instaurare un dialogo a più livelli con lo spettatore (tersa smentita delle pedanti accuse di solipsismo uggioso e autocentrato). Da una parte, chiamarlo a una partecipazione attiva attraverso la perlustrazione del luogo elettivo: vivere la casa dell’amore. Dall’altra, trasformare quello stesso spazio in un giacimento di storie: i racconti di Bianca, le interrogazioni inquisitorie dei suoi clienti (impagabile l’incontro con il critico cinematografico Domenico Monetti, che prima cita Dreyer e poi dichiara:«Sono cattolico per disperazione»), il mondo al di là della finestra (o, carrolianamente, dietro lo specchio) che, come nel magnifico finale, si apre alla vastità dell’infinito immaginario.
In questo modo, l’opera si dilata in una sorta di universo espanso: esiste di fatto un numero potenzialmente illimitato di «film nel film» il cui unico regista/demiurgo è lo spettatore. Sta allo spettatore, infatti, connettere tutti i fili nascosti che legano persone e storie, immaginare il presente e il passato fatalmente invisibili, contestualizzare il microcosmo-prigione che ostruisce l’apertura al mondo. Se Bianca trancia la distanza dal suo personalissimo fuoricampo attraverso l’uso costante del telefono, «oggetto centrale nella sua vita sia per questioni lavorative – per gestire gli annunci e rispondere alle chiamate dei clienti – che per gestire la distanza che la separa dalla compagna Natasha»4, lo spettatore ricorre invece alla propria fantasia immaginaria.
Al di là della messa in scena austera e meticolosa, La casa dell’amore (titolo già vagamente favolistico) dischiude un potenziale stregonesco, una carica fabulatoria ed enigmatica che trascende le coordinate d’appartenenza. Se Pierino proiettava le proprie vicende all’interno del suo espace vécu, Bianca diventa invece una sorta di schermo sul quale converge un turbine di storie reali o immaginarie. La stessa relazione d’amore con Nastasha si dipana in absentia: è lo spettatore deputato a colmare questa gigantesca ellissi (come, per certi versi e in modi completamente diversi, avviene in un altro film presentato alla Berlinale: Undine [id, 2020] di Christian Petzold). «se d’amore si muore, siamo morti noi: siamo un romanzo d’appendice in atto», scriveva Sanguineti in una delle sue poesie più celebri5.
Inquadrando La casa dell’amore all’interno dell’itinerario ferriano, appare evidente lo scarto di una produzione sempre più disposta, ripetiamo ancora una volta, ad autosabotarsi. L’umanità pietrificata e l’anestesia di emozioni e sentimenti (presente anche nel suo lavoro più commovente: Cane caro [2015]) del primo periodo sta lentamente lasciando spazio a un cinema altrettanto scarnificato ma più aperto alla contaminazione irreversibile con la realtà e il caos. Lontano da ogni prosopopea, però: è invece nella reiterazione ossessiva del controllo e, sublime contraddizione, nella contemporanea consapevolezza dell’impossibilità di esercitarlo che il cinema di Ferri si ritaglia un posto al sole nel flusso debordante d’immagini dell’oggi. Ribadendo, e correndo scientemente il rischio della cristallizzazione, la necessità ineludibile della scelta. O in altri termini: la predominanza del pensiero sulla performance, dell’orchestrazione sul gesto estemporaneo, della ritualità liturgica (quasi mitica) dell’atto creativo sulla dedizione scontata al preconcetto.
NOTE
1. FilmTv Anno 28 n. 7 pag. 22
2. http://www.lab80.it/pierino
3. come dichiarato nell’intervista citata al punto 1
4. come scrive lo stesso Ferri nelle note di regia
5. E. Sanguineti, Se d’amore si muore, siamo morti noi