La saga di James Bond è tra le più longeve e consta di 24 film (esclusi gli apocrifi e i remake) in un arco di tempo che va dal 1962 (Agente 007 – Licenza di uccidere [Dr. No, 1962]) al 2015 (Spectre). A parte un periodo di appannamento tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, produttori e registi sono stati sempre capaci di adattare la spy story ai tempi, fino a farla salire di livello negli ultimi dieci anni con la conduzione di Campbell, Forster e soprattutto Sam Mendes (per chi scrive, Skyfall [2012] è una delle vette di questo percorso). Mario Gerosa, giornalista esperto di cinema e già autore di preziosi saggi sul regista Terence Young e sullo sceneggiatore televisivo Anton Giulio Majano, tenta con questo libro una operazione allo stesso tempo originale e ardita: creare un ponte tra il mondo di James Bond e quella parte di critica che ha sempre visto i film di spionaggio come un sottoprodotto di genere, cercando di evidenziare i numerosi rimandi artistici, letterari, cinematografici, musicali che sono sapientemente disseminati lungo questi cinquant’anni di 007. Lo fa in prima persona ed aiutato da importanti nomi della critica cinematografica: non è un caso che si inizi dalla fine, ovvero dal film Spectre di Sam Mendes, sezionato al tavolo autoptico da Vito Zagarrio ed esempio di precisa contaminazione autoriale. Sul modello dei Batman di Christoper Nolan, James Bond si arricchisce di sfumature psicoanalitiche che ne fanno emergere il lato oscuro e conflittuale. Spectre inizia con uno spettacolare piano-sequenza a Città del Messico che dalla festa dei morti (citazione eisensteiniana) si snoda attraverso un tachicardico inseguimento.

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La dichiarazione di intenti è evidente: come per Skyfall, stiamo parlando di un James Bond fragile, problematico, con complessi edipici, a volte vero e proprio fantasma della propria icona universalmente riconosciuta. L’imago mortis è stampata sin dal primo fotogramma e insegue Daniel Craig come un’ombra perenne per tutta la durata del film. Il team creativo si avvale della fotografia surreale (precisi riferimenti a Dalì e De Chirico) di Hoyte van Hoytema (già curatore di Interstellar [id., 2014] di Nolan e di Lei [Her, 2013] di Spike Jonze), e del montaggio di Lee Smith prelevato, guarda caso, dai Batman di Nolan.

spectre roma

L’atmosfera che si respira è di tipo onirico con continui richiami alla psicoanalisi, allo sdoppiamento del sé, al conflitto tra la realtà e la sua rappresentazione finzionale che si traduce in una progressiva perdita di identità. Spectre e Skyfall diventano una foresta di simboli dei boschi narrativi1 dove è bellissimo perdersi.
Altro capitolo interessante è quello di Ivan Quaroni sulla sequenza iniziale che apre tutti i titoli di James Bond: la spia in smoking cammina da destra verso sinistra poi raggiunge il centro e spara verso il pubblico. Sembra il finale de The Great Train Robbery [id., 1903] e questa citazione è una delle tante prese in prestito per la saga. Tutto è visto attraverso la canna della pistola e l’immagine comincia a colorarsi di rosso. Questa scena viene chiamata “gunbarrel” e si è modificata tantissimo nel corso del tempo fino alla digitalizzazione dell’epoca attuale.

agente 007 licenza di uccidere gun barrel

skyfall gun barrel

L’ inventore è Maurice Binder, designer newyorkese affascinato dalle storie di Ian Fleming e influenzato dai famosi titoli di testa di Saul Bass per Hitchcock. Binder elabora uno stile grafico originale prelevando idee e forme dalle Avanguardie europee,dalla scuola di Weimar e soprattutto dalla Op Art (Optical Art), una corrente nata alla fine degli anni 50 che indagava l’origine della percezione visiva attraverso la manipolazione di figure geometriche elementari.
Nel corso del tempo la sigla iniziale ha subito modifiche e aggiustamenti come in Casino Royale [id., 2006] e in Quantum of Solace [id., 2008] con l’intervento del gruppo MK12 di Kansas City che la sposta addirittura alla fine della storia. In accordo con l’incupirsi della saga, negli ultimi due film Skyfall e Spectre, Daniel Kleinmann riprende l’idea originale di Binder e la rende più sofisticata e dark, con il sostegno dalla canzone portante.
Andrea Carlo Cappi nel successivo capitolo si interroga se James Bond possa essere considerata una spy story d’autore: partendo dalla iniziale diffidenza della critica per la cultura di massa e per il “superuomo di massa” dei romanzi di Ian Fleming, Cappi mostra come gli eventi storici abbiano modificato l’atteggiamento critico e l’interesse dello spettatore. Dall’iniziale crisi degli anni 90 dovuta alla caduta del muro e alla fine della guerra fredda, si è passati dopo l’11 settembre 2001 a rivedere superomismi e rambismi e disegnare un eroe che prima di cambiare il mondo deve guarire le ferite che porta dentro di sé2. In questo ribaltamento filosofico e nell’autoanalisi che non vede solo nell’altro il nemico, la critica ha rivalutato le opere su James Bond o su Jason Bourne, apprezzando il taglio intimistico e questa apertura a una visione non monolitica della realtà.

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The Bourne Supremacy [id., Paul Greengrass, 2004]

Stefano di Marino pone la questione sulla spy story come costola del romanzo noir, a volte contaminata dall’avventura, ma dominata da ambiguità, ferocia, cinismo come reazione al male di vivere. Tutte caratteristiche presenti nel James Bond interpretato da Daniel Craig, molto vicino all’idea originale di Ian Fleming. Mentre il motto dei primi Bond cinematografici era salvare il mondo, adesso il nostro agente segreto deve pensare soprattutto a salvare sé stesso da traditori interni e spettri familiari.

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Roberto Lasagna nel suo saggio esplora i legami tra la saga di James Bond e il maestro Alfred Hitchcock. Il grande regista inglese con Intrigo Internazionale [North by Northwest, 1959] e L’uomo che sapeva troppo [The Man Who Knew Too Much, 1956] aveva mostrato due mirabili esempi di spy story. Dopo il grande successo dei primi film di James Bond prima utilizzò Sean Connery nel suo capolavoro Marnie [1964] e poi provò con Il sipario strappato [Torn Curtain, 1966] e Topaz [id., 1969] a cavalcare l’onda di questo rinnovato interesse ponendo il suo marchio autoriale. Forse per stanchezza o per errore di casting, gli esiti purtroppo non furono soddisfacenti, ma l’influenza rimase comunque determinante.

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Topaz [id., Alfred Hitchcock, 1969]

Carlo Valeri e Sergio Sozzo individuano particolari opere che tendono a smarcarsi dal prototipo “inglese” rifondando la visione alla luce di uno sguardo cosmopolita. Mai dire mai [Never Say Never Again, 1983] per esempio, pur essendo alieno dalla serie ufficiale (è il remake di Agente 007 – Thunderball (Operazione tuono) [Thunderball, 1965] di Terence Young) rappresenta un film importante, svelando un aspetto farsesco e meta testuale, con un Sean Connery 52enne che con grande autoironia prova a fare i conti con la propria icona fragile e invecchiata. D’altra parte, GoldenEye [1995] di Martin Campbell è una opera che risulta contaminata dall’estetica del videogame e dalla deriva pulp (il kill count è tra i più alti della filmografia di 007). Al contrario, Il domani non muore mai [Tomorrow Never Dies, 1997] del canadese Roger Spottiswoode gioca magistralmente sui parametri del visibile e dell’invisibile, della astrazione e della materia prestando maggiore attenzione all’equilibrio sociopolitico mondiale.

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il domani non muore mai 1

Gemma Lanzo attraverso i documentari stabilisce le dimensioni del mito di James Bond e il suo impatto sull’immaginario collettivo: sono profetiche le parole di Cristoph Linder che afferma che «i romanzi e i film di Bond sono sempre rimasti all’avanguardia della cultura popolare, modernizzando continuamente la formula dello 007, per riflettere e spesso anticipare l’evoluzione degli atteggiamenti sociali, gli sviluppi principali della politica mondiale e i cambiamenti di tendenza nella cultura popolare e nel cinema.»3
Fabio Zanello scende nello specifico e parla del film del 1969, Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà [On Her Majesty’s Secret Service, 1969], uno degli episodi più controversi della saga che vede George Lazenby come protagonista al posto di Sean Connery. Al di là del flop al botteghino, il film sottolinea la particolare umanizzazione di James Bond e una sorprendente deriva melodrammatica. Probabilmente troppo all’avanguardia per quei tempi, il lato romantico ed esistenziale del protagonista è espresso da un viaggio di catarsi e redenzione che può avvenire solo con la perdita degli affetti più cari.

Agente 007 – Una cascata di diamanti [Diamonds Are Forever, 1971] è invece il film affrontato da Mario Gerosa che ne sottolinea il tono elegiaco e di elaborazione del lutto del precedente episodio (la morte della sposa di Bond in Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà). La nota predominante è quella malinconica con certi passaggi barocchi, scivolosi, sfuggenti, quasi decadenti.
Molto interessante è il capitolo a cura di Chiara Bruno che propone l’analisi critica di uno degli episodi più riusciti della saga, Moonraker – Operazione spazio [Moonraker, 1979], che vede protagonista Roger Moore in una storia con tanta assenza di gravità e con grande forza visiva. Tra scene da fumetto e danze acrobatiche, l’opera riesce a catturare l’attenzione dello spettatore dal primo all’ultimo minuto con un utilizzo sapiente degli effetti speciali.

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Giuseppe Frazzetto pone il quesito filosofico sulle differenze tra Bond e 007 e sulla necessità di una riaffermazione identitaria dell’ uomo rispetto al personaggio, della funzione narrativa rispetto al ruolo interpretato, in bilico tra classico e postmoderno.
Interessanti legami con il re Ludwig viscontiano vengono presentati da David Huckvale che ricorda come molti degli antagonisti di Bond siano estimatori della solitudine, spesso gay e cultori del bello. Da Scaramanga a Hugo Drax questi villains sembrano vivere fuori dal tempo, distaccati dalla realtà , innamorati dell’estetica e della tecnica.
Mario Gerosa ritorna sul tema dei James Bond dell’era “Moore” per identificare in Agente 007 – Vivi e lascia morire [Live and Let Die, 1973], Agente 007 – L’uomo dalla pistola d’oro [The Man with the Golden Gun, 1974] e Octopussy – Operazione piovra [Octopussy, 1983] quella impalcatura concettuale che riporta agli schemi fondativi della cultura vittoriana, reinterpretata in chiave moderna, sottoposta a un profondo restyling che si avvale della forza mediatica della tecnologia.

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Mathias Balbi ricorda i saggi di Oreste del Buono e di Umberto Eco che studiarono nel 1965 il fenomeno James Bond e l’opera di Romano Calisi che parlava di una destorificazione del paesaggio bondiano e l’analisi della sua mitologia in rapporto all’immaginario popolare e al processo di identificazione spettatoriale.
Marco Locatelli imbastisce un interessante parallelismo tra la figura del Conte Scaramanga in Agente 007 – L’uomo dalla pistola d’oro e quella del conte Dracula: non è un caso che a interpretare questo personaggio fosse il grande Christopher Lee, lasciando ai posteri una figura vampiresca, terribile e nello stesso tempo misteriosa.

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Lapo Gresleri prova a contestualizzare le avventure di 007 in rapporto alle proteste che tra il 1964 e il 1968 scossero l’opinione pubblica in materia di razzismo verso i neri e che portarono alla creazione di un filone chiamato blaxploitation, da black (nero) e exploitation (sfruttamento), ossia di film a basso costo con registi e attori di colore che esploravano i temi della presa di coscienza, della militanza e della rivolta finendo però per semplificarli e delegittimarli. Il libro si chiude con l’ironico capitolo di Anton Giulio Mancino che presenta la parodia fatta da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, esponenti dell’analfacinema e che tra gli anni 60 e 70 proposero una intelligente operazione di destrutturazione e taroccamento di numeri, sigle e titoli di derivazione bondiana.

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00-2  Agenti segretissimi [Lucio Fulci, 1964]

Alla fine di questa lunga cavalcata Mario Gerosa è riuscito nel suo intento: d’ora in poi i cinefili non si potranno avvicinare ai film di 007 con superficialità o ignorare gli innumerevoli rimandi letterari, artistici e meta cinematografici. Proprio attraverso la saga di James Bond è possibile tracciare un percorso storico e sociopolitico in cui ogni fase è rappresentata: il bond primordiale di Sean Connery, quello vittoriano di Roger Moore, quello della crisi di fine anni 80 di Timothy Dalton. quello pulp anni 90 di Pierce Brosnan, quello post moderno di Daniel Craig. Ignorare questo significa gettare nella spazzatura una buona parte della storia del cinema.

NOTE

1. U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi. Milano, Bompiani, 2000.

2. S. Zizek, Benvenuti nel deserto del reale: cinque saggi sull’11 settembre e date simili, Roma, Meltemi, 2002.

3. C. Linder, The James Bond Phenomenon: A Critical Reader, Manchester University Press, Manchester, 2009.

Informazioni: 

James Bond spiegato ai cinefili, a cura di Mario Gerosa.
Edizioni “Il Foglio Letterario”, 190 pagine, 15 euro.