Al suo sorgere il Settembre veneziano mi conduce a uno dei film più attesi: Poor Things di Yorgos Lanthimos, cinque anni dopo il precedente La Favorita [The Favorite, 2018], che già aveva rappresentato una svolta nella sua carriera, sorta di horror steampunk comico-grottesco con protagonista una Emma Stone, creatura nata dall’innesto del cervello del suo feto sul suo corpo (altro che ricerca sulle staminali), “figlia” dello scienziato pazzo Willem Dafoe. Dopo una prima parte in bianco e nero in cui Bella Baxter (Stone) è prigioniera, bonariamente, del suo padre putativo, e attraverso il suo candore e la sua ingenuità affascina il giovane medico Max MacCandles (Rami Youssef), il film si colora durante le peregrinazioni lungo il globo della ragazza col libertino Mark Ruffalo, che si scopre molto più tossico di quanto la sua esibita joie de vivre poteva far sospettare. Ci troviamo quindi catapultati in un mondo magico, lo scopriamo con gli occhi innocenti della protagonista, che cresce e diventa adulta fino a prendere coscienza delle storture del mondo e far poi ritorno alla casa paterna per seguirne le orme. Bella, quindi, attraversa tutte le fasi della crescita passando anche per un amore ingenuo per i più deboli e un desiderio vago di migliorare il mondo, ma alla fine preferisce viverlo e studiarlo, trova la quadra di sé stessa acquistando una consapevolezza raffinata. Lanthimos mantiene tutto l’ethos del film nel recinto di un medicalismo e un organicismo quasi cronenberghiani: come il regista canadese anch’egli guarda la vita attraverso il corpo, sia nelle sue fasi ascendenti (gli orgasmi) che discendenti (le budella) supportato dal pensiero razionale e dall’empirismo (più volte nominati dalla protagonista), i quali soppiantano il suo usuale pessimismo esistenziale; quest’ultimo aspetto è riassunto e liquidato nel personaggio di Harry Astley (Jerrod Carmichael), filosofo “anti-filosofo”, che esprime forse il punto di vista del regista (o quello più prossimo alle sue precedenti opere) ma viene accantonato quasi subito dalla speranza di Bella, dalla sua voglia di scardinare il mondo e guardarne gli ingranaggi. La liberazione della giovane passa attraverso il sesso, visto come comunicazione privilegiata con l’altro e scoperta di sé, fino al punto da spingerla a fare la prostituta a Parigi e usare il suo corpo per indagare la natura umana, scandagliarne gli anfratti. E mai in Lanthimos (e in gran parte del cinema contemporaneo) le scene di sesso sono state tanto divertenti, gioiose e intrinsecamente non-monogame, cioè non opprimenti, non limitanti: un inno alla libertà, alla promiscuità e al poliamore lungo due ore e mezza.

Al posto delle agghiaccianti storture di opere come The Lobster [2015] o Il sacrificio del cervo sacro [2017], Poor Things poggia su un black humour travolgente, che risolve in una risata amara ma liberatoria anche i momenti più disturbanti, e un’estetica anti-dark in cui l’orrore si muove in un mondo pulito e lindo: è la norma ma una norma accettata con goliardia. Kynodontas [2009], con la sua prigione asfissiante, ha fatto il giro e si è risolto nella classica fuga dumasiana con l’abate Faria, ma non per reprimere nel sangue un rancore passato quanto per cancellarlo e ricominciare da capo. Esattamente come la sua protagonista sembra che Lanthimos abbia subito il trapianto di un cervello nuovo nel vecchio corpo, e abbia così scoperto, miracolosamente, il lato chiaro della vita.

Un altro trapianto di materia grigia sembra aver colpito Roman Polanski, altro atteso ritorno. Il suo The Palace, visto la sera dell’1 tra mille aspettative, ha deluso un po’ tutti. Già fuori dalla sala si è parlato unanimemente di “cinepanettone”, anche se non sempre l’epiteto era affibbiato con intento denigratorio (e d’altronde la rivalutazione del filone vanziniano et epigoni è rodata da tempo) e in effetti gli elementi ci sono tutti. Una località invernale in cui un cast corale va a trascorrere le vacanze, anche se in questo caso parliamo di un Capodanno “spartiacque”, quello 1999/2000, e una sequela di gag a base di feci e sesso, volutamente volgari, alle quali danno vita una serie di macchiette parentiane: Luca Barbareschi abbronzato fa il pornodivo, Mickey Rourke altrettanto abbronzato e col parrucchino è il ricco cafone, e c’è una quantità di facce plastificate, donne deformate dalla chirurgia estetica, che nel cinepanettone latita ma è ben presente in un altro prodotto italiano trash come la storica rubrica Cafonal su Dagospia, appartenente peraltro al medesimo evo di idee. C’è ancora John Cleese che si esibisce nell’interpretazione di un vecchio riccone depravato, cadavere per due terzi del film, e addirittura Fanny Ardant, meno plastificata di altre (ma date a “meno” un senso molto relativo), che sviene per il fetore delle evacuazioni intestinali del suo chihuahua. Vero protagonista è il concierge dell’albergo che fa avanti e indietro tra piani e stanze tentando di risolvere i finti problemi di questi bambinoni viziati, anaffettivi e immorali, in fondo molto tristi. La struttura delle gag è un crescendo di follie e oscenità che chiudono l’opera su una inquadratura oltre qualunque grottesco parentian-vanziniano, dandosi al sesso interspecie.

La scelta delle situazioni è casuale e risponde a un criterio di totale anarchia, come in precedenti commedie del regista, ad esempio l’altrettanto italiano Che? [What?, 1972] o (con ben altri risultati) il classico Per favore non mordermi sul collo [The Fearless Vampires Killers, 1967]; ma molte gag sono troncate e vanno a vuoto e l’impressione resta quella di una grande e confusionaria babele in cui ha torto sia lo spettatore che ride sia quello che non ride. L’ambientazione a inizio XXI secolo non è peregrina: Polanski offre una visione di quello che sarà il nuovo millennio, sempre più kitsch e cafone, senza che la sua messinscena ne risenta, i volti deformi essendo trattati con la giusta distanza, e vede un millennio chiuso in dorate stanze mentre il mondo fuori va in rovina: sequenza chiave è quella in cui un gruppo di giovani russi con delle escort festeggia la scoperta in diretta televisiva del “passaggio di consegne” tra Eltsin e Putin alla guida della Madre Patria. Girato e scritto (anche se la mano di Jerzy Skolimowski alla sceneggiatura non si percepisce affatto) con 20 anni di ritardo, il film non ha nessun intento profetico, getta uno sguardo così pessimistico all’indietro da non trovare altra chiave che nel ridanciano e vacuo trangugiare champagne, nel pascersi dentro caviale e mobili pregiati, mentre il delirio collettivo incombe. Se cinepanettone è, ne è la faccia seria e esistenzialista, l’anima sartriana di Enrico Oldoini, se mai il compianto ne ha avuta una.

La giornata del 2 volge al termine in due fasi: prima Die Theorie Von Allem (it. La teoria del tutto), ambiziosa opera seconda del regista tedesco Timm Kröger. Un giovane fisico, Johannes, in procinto di prendere il dottorato con una tesi in meccanica quantistica, accompagna il suo austero relatore in un rifugio svizzero per assistere a una conferenza e lì incontrano Blumberg, un altro luminare che non va d’accordo col professore. Il giovane, dal viso singolarmente fassbinderiano, ha elaborato una teoria della funzione d’onda universale, che dovrebbe unificare la teoria delle forze, e soprattutto far propendere per una interpretazione “a molti mondi” della quantum theory. In realtà ciò che ha in mente il ragazzo, più che l’interpretazione “accomodante” delle variabili probabilistiche in fisica (allo stato dell’arte equivalente nei risultati a qualunque altra interpretazione) è più simile a una teoria modale (se n’è parlato qui, applicandone la semantica all’analisi del film): la metafisica di base è però realista: non solo lo studente ha costruito una spiegazione alternativa della realtà ma ammette la sicura esistenza dei mondi e la loro infinità.

La pellicola però è tutt’altro che un film saggio, sfruttando perlopiù atmosfere e dinamiche del cinema di genere, aiutata da un efficacissimo bianco e nero (il più appropriato finora al Festival). Fin dall’inizio l’arrivo nell’hotel-maniero è inquietante e tutti i vecchi fisici potrebbero tranquillamente venire dritti dai primi Corman; si inserisce poi una storia d’amore con una pianista dalla presenza spettrale, una specie di sibilla che predice a Johannes il futuro, sbagliandolo perché forse lei ha in mente un altro Johannes, un’altra realtà. Difatti piano piano iniziano a morire persone, il fisico indaga, le scene sono sempre più kafkiane (con tanto di poliziotti a metà tra il noir e Il processo), ma alcuni morti riappaiono in piena forma. Kröger, come ha giustamente osservato Alberto Libera qui, rinuncia a mostrare l’invisibile di cui parla la fisica di Johannes, e ci si avvicina solo quando il fisico si ritrova letteralmente in una sovrapposizione di stati quantici all’interno di una caverna, le vicende diventano intrinsecamente contraddittorie e una serie di immagini astratte riempiono lo schermo. Al risveglio il mistero viene dipanato. O meglio Johannes ritiene di averlo dipanato. Ma il film a quel punto ha cambiato forma: una voce fuori campo racconta asetticamente la storia fino alla conclusione. Ma dov’è la teoria del tutto? Non viene spiegata, né viene autenticamente fatto comprendere allo spettatore cosa si cela dietro le fratture nella realtà che fanno impazzire i personaggi. La teoria viene più vissuta da Johannes che davvero elaborata, lo scienziato si sdoppia, e tutto fa pensare che la seconda parte del film sia ambientata in un altro mondo (uno in cui la madre di Johannes è viva, per dire l’indizio più eclatante). Più che una ricerca del non visibile l’opera di Kröger è un quadro degli effetti dell’ipotesi dei molti mondi sulla psiche di una persona che ne coglie tutte le implicazioni, che vive sulla pelle una realtà che obbedisce a una logica polivalente, in cui ci sono più di due valori di verità, parente della psicosi collettiva (non a caso uno dei fisici ha avuto esperienze di LSD in coppia con Ernst Junger). Affermare che ci sia qualcosa oltre il Vero e il Falso o peggio che questi due Moloch possano coesistere (ad esempio quando un individuo è sia vivo che morto, come avviene nella scena della caverna) significa ammettere che tutto è possibile, smontare l’ex falso quodlibet è lo stesso che rendere la realtà talmente sfuggente da non poterla maneggiare e quindi non poterla racchiudere in un linguaggio. Johannes stesso attraversa varie fasi linguistiche: prima la matematica, autostati e spazi di Hilbert, che gli serve per formalizzare la sua ipotesi. Rigettata dalla comunità scientifica ripiega sul saggio divulgativo, ma è un insuccesso. Poi la narrativa, scrive un romanzo (con lo stesso titolo del film) che riassume le sue esperienze svizzere. E da quel libro viene tratto un orribile film italiano (a firma dell’apocrifo Giorgio Giovannini) che cambia il finale con un classico happy ending, accomodando la realtà ai fini della fiction. La progressiva mutazione dei linguaggi è una discesa nell’incomunicabilità, un allontanamento dal reale: nel prologo televisivo lo stesso Johannes mostra di non apprezzare l’aver dovuto ricorrere alla forma romanzesca, e l’adattamento cinematografico è così ignobile da inferire il colpo decisivo sulla sua depressione. Il tramonto della possibilità di esprimersi è la dissoluzione non solo dei molti mondi, ma perfino dell’unico mondo che tutti, anche i suoi detrattori, sono disposti ad accettare. Morte della teoria, dell’esperienza, dell’esistenza.

La serata non può perciò che chiudersi con un film postumo: The Caine Mutiny Court-Martial di William Friedkin, remake sia di Dmytryk che di Altman, interamente ambientato in una Corte Marziale, post-datando la vicenda della USC Caine al 2022. Con una messinscena sobria e quadrata, fatta solo di mezzibusti o al massimo piani americani, Friedkin orchestra lo scontro tra il Capitano di Kiefer Sutherland e il suo comandante in seconda che ritenendolo inidoneo al comando lo ha detronizzato durante un ciclone. Il regista lascia lo spettatore totalmente libero di fare ipotesi, evita qualunque commento musicale o trucchetto registico che possa far intuire da che parte si trova, e se durante il procedimento dell’accusa troviamo corrette molte obiezioni fatte dalla difesa, avviene puntualmente anche il viceversa nella seconda parte, fino alla scena madre in cui l’instabilità mentale del Capitano si fa lampante, e al colpo di scena finale in cui esce moralmente sconfitto anche l’eroe presunto.

Lo spettatore è chiamato in modo evidente a identificarsi nel presidente di Corte, interpretato da Lance Reddick, anch’egli da poco scomparso, le cui espressioni sono in linea con le reazioni auspicate dal pubblico, e che pende da una parte all’altra a seconda della ragionevolezza delle obiezioni. Forse nulla di nuovo sotto il sole, ma l’ultimo lavoro del Regista del Male, è così preciso, filologico, quasi architettonico, da destare stupore. La padronanza del mezzo è tale da tenere avvinti senza necessità di retorici primi piani o emotivi dettagli, eppure non c’è totale sospensione del giudizio. Come ha notato acutamente Marco Grifò il finale fa pensare a Nodo alla gola [Rope, Alfred Hitchcock, 1948], anche per la somiglianza fisica tra i due giovani attori oggetto della vera arringa finale dell’avvocato difensore. Friedkin rimane quindi nel territorio del thriller, la suspense è invariata anche per chi conosce già le precedenti versioni, e ottenuta eliminando chirurgicamente qualunque accenno di virtuosismo. In fondo è un ulteriore approccio razionale al cinema e alla vita, come quello nichilista di Kröger o l’organicismo di Lanthimos. Mai come in questi giorni è cristallina l’aristotelica impressione che la potenza del sentimento, in arte, discenda dal rigore dell’intelletto.