Molto distanti per ambizioni, linguaggio e risultati, due film presentati al Lido come L’ordine del tempo di Liliana Cavani e Die Theorie von Allem (it. La teoria del tutto) di Timm Kröger partono però da un terreno comune: indagare le radicali modificazioni che lo straordinario sviluppo della fisica dal Novecento a oggi ha avuto sulla percezione della realtà e dei suoi costituenti fondamentali, lo spazio e il tempo. L’ordine del tempo lo fa partendo (solo nominalmente) dall’omonimo saggio di Carlo Rovelli per mettere in scena paturnie, crisi, gioie, dolori e nevrastenie di un gruppo di ricchi borghesi ritrovatisi in una casa vista mare sul litorale sabaudo allo scopo di festeggiare il cinquantesimo compleanno di una di loro, l’avvocata Elsa (Gerini), proprio mentre un asteroide rischia di schiantarsi di lì a poco sulla Terra. Quello che sembra più interessare la novantenne regista è però trasformare ogni personaggio in un simbolo: l’astrofisico Enrico (Edoardo Leo), la storica Paola (Ksenia Rappoport), il broker Viktor (Richard Sammel), lo psicoanalista Jacob (Fabrizio Rongione), la monaca Raffaella (Ángela Molina) rappresentano ciascuno lo smarrimento che ogni paradigma epistemologico deve fronteggiare di fronte a un evento inspiegabile e “non-esperibile”, al di là dell’umano. In questo modo, il film finisce per limitarsi a proporre una polverosa e spesso impacciata riflessione non tanto sul rapporto tra l’uomo e il tempo (solo l’uomo è misura del tempo, sembra esserne la sbrigativa tesi) quanto sulla necessità di mettere in discussione le scelte e i fatti di una vita di fronte alla prospettiva della fine, lasciando prevedibilmente che a prevalere siano le ragioni del cuore e del sentimento, fin troppo sbrigativamente riconciliate. Tutto il contrario, in fondo, di un romanzo come Il passeggero di Cormac McCarthy che, partendo da premesse del tutto simili, perveniva a conclusioni opposte. Nello specifico, il sogno della convergenza definitiva di linguaggio e significato, di essere e nulla, di tempo e spazio.
Il film di Kröger è invece più radicale nel mettere in parallelo il piano della speculazione scientifica con quello, invece, intimo e personale, della memoria e dell’amore. Protagonista è il dottorando in filosofia Johannes (Jan Bülow) che, studiando la funzione d’onda universale per la sua tesi, arriva a sviluppare del tutto inaspettatamente una rudimentale teoria del multiverso. Siamo negli anni Sessanta del Novecento e la possibilità d’esistenza di molteplici universi è quasi un’eresia. Tanto più che il suo supervisore, il dottor Strathen (Hanns Zischler), sembra liquidarne le speculazioni alla stregua di fandonie perché «non verificabili». Non è tuttavia della stessa opinione un altro celebre fisico, il professor Blumberg (Gottfried Breitfuɮ), che invece è convinto della bontà delle sue intuizioni:«Portiamo la tua tesi da Bohr e distruggiamo tutto il suo lavoro», gli dice. Invitato a un congresso sulle alpi svizzere, nei pressi di una miniera di uranio, organizzato da uno scienziato iraniano che pare avere trovato la tanto agognata «teoria del tutto» in grado di fondere in un unico sistema la relatività classica e la meccanica quantistica, il giovane cerca di trovare la prova della bontà dei suoi calcoli, la loro capacità di predire l’esistenza di una dimensione di realtà differente. Enigmi apparentemente indecifrabili, via via sempre più interconnessi, non tardano però a manifestarsi: la teoria del multiverso, sostiene Johannes, gli si è presenta in sogno «di punto in bianco», la fascinosa pianista Karin lo seduce, l’organizzatore non si presenta all’evento, misteriosi omicidi cominciano a verificarsi.
Noir, gotico, espressionismo, barocco, ricordi cinefili (da L’anno scorso al Marienbad [L’année dernière à Marienbad, Alain Resnais, 1961] ai b-movie italiani degli anni Settanta) e suggestioni letterarie: il regista impagina una specie di zibaldone per indagare quelle che Federico Enriques definiva «le intime ragioni dell’evoluzione delle idee», dove la necessità di scoperta e progresso si scontra con i limiti del sentire comune, i pregiudizi di chi si ancora ottusamente al passato (anche tra scienziati, nel film, ci si divide tra conservatori scettici e progressisti inquieti), la dipendenza dal potere – come in Oppenheimer [id., Christopher Nolan, 2023] –, tant’è che lo stesso Blumberg fu incaricato durante il Terzo Reich di combattere le «tendenze ebraiche nella scienza tedesca».
Si tratta di un territorio d’indagine ormai centrale nel cinema contemporaneo e probabilmente destinato a diventare sempre più presente. A essere davvero rilevante, però, è come i film preferiscano affrontarlo abbandonando ogni tentazione mimetico-realistica (anche Nolan, nel suo film, lascia intendere che la struttura segreta della materia possa essere solo suggerita e non mostrata) per rifugiarsi nell’allegoria o nella fantascienza (o – si parva licet – fantasociologica, nel caso de L’ordine del tempo). Come se il desiderio di affrontare davvero lo snodo fondamentale – il confronto con una realtà invisibile che governa la materia – fosse ancora un ostacolo insormontabile per il cinema contemporaneo (anche nel caso di Die Theorie von Allem), costretto ripiegare nel noto, in un giacimento di immagini e visioni pronto all’uso ma oramai stantio.