Entrare in rotta di collisione con il cinema di Yorgos Lanthimos significa accettare tacitamente di penetrare in un universo allegorico che assume le fattezze di un’umanità deformata e deformante, che rilancia sempre di più la propria scommessa sul terreno dell’interpretazione. Una scommessa che lo spettatore può vincere solo stando alle regole imposte dal regista greco, includendo un corollario di scelte e di letture tanto radicali da ottenere inevitabilmente anche un folto numero di detrattori.Certo non è l’unico né il meno intelligibile tra gli autori che si sono imposti al grande pubblico negli ultimi anni, nonostante un timbro autoriale così marcato; quello che più desta attenzione però è come il suo registro si sia amalgamato con le logiche produttive americane in seguito al suo approdo nella Hollywood che conta. Dopo aver portato avanti un suo preciso discorso coerente all’interno di un contesto industriale e commerciale marginale come può essere quello greco, partito dagli sperimentali esordi fino ai più maturi successi festivalieri di Dogtooth [Kynodontas, 2009] e Alps [Alpeis, 2011], Lanthimos è stato infatti costretto a riparametrare gli elementi del suo cinema con i successivi lavori prodotti dalle grandi major d’oltreoceano.The Lobster [id., 2015] prima e Il sacrificio del cervo sacro [The killing of a Sacred Deer, 2017] poi, hanno dimostrato come il linguaggio dell’autore, pur non rinunciando agli stilemi a lui cari, abbia saputo evolversi al rinnovato contesto produttivo entro cui ha dovuto esprimere la propria creatività. Ancora allegorie e ancora metamorfosi nelle due pellicole americane, in uno sforzo di immaginazione che ha portato la sua poetica forse ad un punto di non ritorno se non addirittura a un definitivo compimento. Se infatti con The Lobster il suo immaginario sembrava tingersi di toni lugubri, evolvendone ulteriormente i connotati, con Il sacrificio del cervo sacro quell’immaginario giunge a un’inevitabile compimento, e il suo discorso, di conseguenza, a una logica chiusura.Nonostante la genesi de La favorita [The Favourite, 2018] affondi le sue radici in anni in cui questo percorso fosse lungi da intravedere una conclusione, le tempistiche della produzione e dell’uscita nelle sale del film riflette curiosamente la traiettoria naturale della filmografia dell’autore greco; abbandonata infatti la struttura cara e ormai rassicurante dell’allegoria, Lanthimos si confronta qui per la prima volta con un soggetto di matrice storica nonché con una sceneggiatura non scritta di suo pugno e che aveva visto la luce ben nove anni prima dell’entrata in produzione.Tentare di inquadrare le coordinate stilistiche di questo ultimo lavoro può significare comprendere meglio la possibile direzione della nuova fase della sua produzione; oppure, nel caso i tratti caratteristici di questa pellicola non dovessero trovare sbocchi nei suoi prossimi prodotti, fornire una degna interpretazione di una piccola ma significativa parentesi della sua carriera.
Anacronismi e incongruenze: mappatura di una fedele decostruzione storica
La sceneggiatura de La Favorita, scritta negli anni novanta da Deborah Davis, fu proposta a Lanthimos dopo l’uscita di Dogtooth. La storia che l’autore aveva tra le mani era di una tipica pellicola in costume rivestita da una particolare attenzione alla fedele ricostruzione dell’epoca storica di riferimento: le vicende della regina Anna Stuart d’Inghilterra erano quindi raccontate con una dovizia di particolari e con una perizia nel trattamento degli intrecci politici del periodo ai quali Lanthimos, per sua stessa ammissione, non era affatto interessato1. Colpito invece dalla complessità dei rapporti umani creatisi fra la regina e le due contendenti al ruolo di “favorita”, il regista vedeva qui la possibilità di mettere per l’ennesima volta in gioco uno degli aspetti cardine di tutta la sua filmografia: osservare le derive morali e comportamentali di esseri umani seclusi e costretti alla convivenza in un unico posto.Ecco che la reggia diventa laboratorio di tensioni, passioni e follie, un ecosistema popolato da una diversità umana e istituzionale che rende le interazioni di tutti i personaggi un intricato gioco di ruolo.Dopo aver ingaggiato Tony McNamara per mettere pesantemente mano allo script di partenza, i due si preoccupano di disseminare per tutto il film indizi di incongruenze storiche, i quali diventano una precisa chiave di lettura e financo una dichiarazione di intenti: dai tessuti moderni e sintetici usati per i costumi dei personaggi, fino alle armi da fuoco in anticipo di qualche decennio, passando per il decisivo aspetto del lessico e del galateo comportamentale utilizzato a corte, ogni cosa all’interno del testo pare suggerire di essere finiti in una visione tutta personale della cornice storica.
La fotografia, caratterizzata da un uso ossessivo di grandangoli e fish eyes, si preoccupa principalmente di rendere claustrofobica la percezione degli ambienti interni. Un effetto paradossale visto che, a fronte di uno sguardo che si amplia a dismisura, i piani risultano schiacciati e i soffitti incombono costantemente sulle teste dei personaggi in scena.
Anche gli esterni accusano il colpo di una messa in scena molto particolare, lontana dall’approccio scelto da Peter Greenaway per il suo I misteri del giardino di Compton House [The Draughtsman’s Contract, 1982], seppur ambientato in Inghilterra nella stessa epoca.
Lanthimos permette ai propri personaggi di muoversi tra le mura della corte, ingaggiando feroci diatribe dialettiche senza preoccuparsi di mantenere una terminologia consona e un codice comportamentale adeguato. Siamo lontani da qualsiasi precedente riproduzione di un contesto di corte; che sia l’austerità di Barry Lyndon [id., Stanley Kubrick, 1975] o i leziosi e viscidi rapporti di forza di L’età dell’innocenza [The Age of Innocence, Martin Scorsese, 1993] o di Relazioni pericolose [Dangerous Liaisons, Stephen Frears, 1988], e addirittura lontano dall’anomala Versailles settecentesca immaginata da Sofia Coppola nel suo Marie Antoinette [id., 2006], la forma della corte di Lanthimos assume fattezze inedite, volgari e grottesche.
Nonostante le sostanziali differenze di approccio nella ricostruzione di un’epoca, i debiti nei confronti del capolavoro di Kubrick si calcolano principalmente nell’utilizzo delle luci ambiente sia diurne che, soprattutto, notturne.
Esplicativo da questo punto di vista è l’utilizzo di “vujuju”, un sinonimo volgare di “vagina” rubato a uno slang proprio del rap newyorkese e di conseguenza lontano temporalmente e culturalmente da un luogo formale come un palazzo regale.
Non è comunque l’unico caso di una scelta lessicale volgare e anacronistica.
Questo tipo di approccio permette a Lanthimos di regalarci una delle sequenze più interessanti ed esilaranti di tutto il film; durante un ricevimento la regina Anna, stufa di discussioni a sfondo politico, ordina alla sua favorita Sarah di danzare con qualcuno degli invitati. La donna si esibisce insieme a uno dei cortigiani in una performance che appare completamente fuori luogo rispetto al contesto in cui è inserita: goffe capriole, calci in aria e buffe movenze compongono un momento in cui la pellicola si mostra in tutto il suo potere deformante, che fino a quel momento lo spettatore aveva solo potuto intravedere sotto la patina indefinita di un contesto umano che non risponde a un codice morale facilmente inquadrabile.
La coreografa argentina Constanza Macras con il suo lavoro permette sia di colorare di ulteriore stridente contemporaneità la pellicola e sia di sottolinearne un aspetto, quello della fisicità viscerale, che diventa cruciale per gli scopi del regista.
Non è un caso che a questa sequenza ne segua una in cui la carica erotica, rimasta sotto traccia fino a quel momento nel rapporto fra la regina Anna e Sarah, esploda negli anfratti bui e segreti del palazzo, lontano dagli occhi indiscreti di tutti, tranne che di Abigail.
Quello tra Sarah e Abigail è un rapporto che nel film si fa paradigma dello scontro interno ed esterno al palazzo per definire la linea regia nei confronti della guerra di successione spagnola in corso contro i francesi. A Sarah, moglie del generale inglese John Churchill e sostenitrice della fazione favorevole a un prolungamento a oltranza del conflitto, si contrappone Abigail: questa infatti, per sancire la definitiva affermazione del proprio ruolo a corte dopo l’allontanamento di Sarah, deciderà di sposare la corrente che spinge per la pace immediata, favorendo l’ascesa di un nuovo primo ministro e dirottando il conflitto verso la soluzione della tregua. È così che Lanthimos, per sua stessa ammissione2, riesce a intersecare abilmente criteri interni alla narrazione, facendola esondare nelle logiche della Storia, mettendo grandi capitali, masse e significative decisioni sotto il giogo di un duello tutto personale fra le due contendenti.
Alle lame incrociate delle due machiavelliche dame di corte fanno da sfondo le figure avvilenti degli uomini che girano loro intorno: malamente truccati, effeminati e nevrotici, i politici e i nobili che compongono il cerchio magico della regina appaiono come ridicoli fantocci di cui Sarah e Abigail dispongono a loro piacimento.
Lo stesso autore non lesina espedienti di montaggio in cui questi uomini non sono molto più che bambini i cui sollazzi determinano un mosaico di metaforici accostamenti nel cui meccanismo di contiguità sono le azioni di questi ultimi a diventare corollario della narrazione principale e, quindi, delle direttrici narrative dettate dalle donne.
Alla caduta del buffone di corte, personaggio marginale, segue in montaggio alternato la caduta da cavallo di Sarah, in seguito all’avvelenamento da parte di Abigail.
Per far sì che la struttura di questo meccanismo regga, l’autore si serve di ricorrenti sequenze di tiro al piccione in cui le due favorite si sfidano vieppiù affinando le proprie capacità di tiro. È curioso come queste scene diventino, all’interno della narrazione, un modo per misurare la temperatura del rapporto fra le due, tastare lo stato del loro conflitto e, di conseguenza, per stabilire di volta in volta chi delle due stia prevalendo sull’altra.
Quando con rapidità e precisione Abigail abbatte il suo bersaglio, facendo schizzare il sangue sul vestito bianco di Sarah, è oltremodo chiaro chi delle due stia prendendo il sopravvento.
Il premio ultimo di questa contesa è il corpo decadente e dilaniato della regina; questo fa sì che l’intera pellicola si sostenga su un triangolo amoroso sulla cui natura è utile soffermarsi.
Un melodramma atipico tra semantica e psicanalisi
In alcune interviste Lanthimos ha avuto modo di specificare che il triangolo individuato nel rapporto tra Anna e le sue favorite può essere inquadrato entro contorni prettamente melodrammatici3. Analizzare i tratti strutturali del genere può significare indagare la natura dei meccanismi che animano l’interazione tra i personaggi.Peter Brooks4 e Lucilla Albano5 nei loro illuminanti studi sul melodramma esaminano le tensioni degli attanti6 propri di questo genere servendosi dell’imprescindibile concetto freudiano di “oggetto perduto”.Evitando di perdersi in eccessive divagazioni psicanalitiche, in questa sede ci basti ricordare che è definito oggetto perduto quell’unità irripetibile di soddisfacimento di un bisogno primordiale di sussistenza (nella fattispecie il nutrimento) e di appagamento di una pulsione sessuale, che dà al neonato l’illusione di essere autosufficiente7; perso questo principio di unità con il riconoscimento del seno materno come un elemento altro rispetto a sé, l’individuo inizierà un ciclico processo di costruzione e decostruzione di quella primigenia sensazione, delegando ripetutamente quelle percezioni di appagamento a dei simulacri, a delle proiezioni fantasmatiche del seno, pur riconoscendo l’inevitabile scarto di soddisfacimento, definito resto.È fin troppo facile riconoscere ne La favorita momenti in cui le tre protagoniste rispondono alternativamente alle dinamiche appena esposte.
L’affetto e la sensualità tra Anna e Sarah deve sovente manifestarsi con morsi, proprio come il neonato fa con il seno della madre.
Attraverso un procedimento di ricostruzione del significato celato nel significante oggetto perduto, il melodramma impronta la sua intera narrazione intorno alla ricerca dell’appagamento, nel rapporto amoroso, di una mancanza che divampa proprio attraverso quel significante.
In film classici come Prigionieri del passato [Random Harvest, 1942] di Mervin LeRoy questo processo di ricostruzione viene esplicitato nell’oggetto delle chiavi; nella filmografia contemporanea si tende a occultarlo.
Il filo nascosto [Phantom Thread, 2017] di Paul Thomas Anderson.
Così i postulati freudiani aiutano i due studiosi a descrivere la natura stessa del sentimento che muove i protagonisti di un melodramma: un sentimento travagliato, ostacolato e ontologicamente impossibile.È quindi da una grande mancanza che pellicole a tema amoroso di ogni decennio e delle più diverse culture hanno preso le mosse per raccontare storie di uomini e di donne protesi alla ricerca di un completamento in un “altro da sé”.Come abbiamo potuto osservare è la regina Anna la protagonista indiscussa di tale pulsione, il fulcro centripeto che attira ogni forza agente all’interno del palazzo; perciò un’osservazione preliminare del moto emotivo di Sarah e Abigail nei suoi confronti ci aiuterà a capire in cosa consiste l’originalità dell’impalcatura melodrammatica messa in piedi da Lanthimos.
Abigail e Sarah si prodigano per alleviare le sofferenze dell’attacco di gotta incorso alla regina.
Nella sequenza appena osservata, l’utilizzo reiterato della dissolvenza incrociata suggerisce l’ideale sovrapposizione delle tre figure, preludio di uno scambio di ruoli e di un rimescolamento dei rapporti di forza che sta per sconvolgere le loro vite.Quella della sovrapposizione è una figura che l’autore non manca di utilizzare anche senza interpunzioni di montaggio per sottolineare metaforicamente come il corpo dilaniato di Anna, con le sue debolezze, si presti a diventare il campo di battaglia delle due cortigiane.
I generali discutono la strategia della battaglia imminente con una cartina poggiata sulle gambe sofferenti di Anna. L’efficacia delle cure di Abigail diventeranno il cavallo di troia grazie al quale riuscirà a far breccia fra i meccanismi relazionali fa la sovrana e la favorita Sarah.
Sul controllo della imponente ma claudicante figura di Anna si gioca infatti tutta la partita, una figura sulla quale le due donne riversano attenzioni diametralmente agli antipodi nelle modalità e nelle finalità con le quali queste si manifestano, diretto riflesso dei diversi modi di essere e di intendere il loro ruolo.Sarah agisce da vera e propria donna nell’ombra, potere occulto che indirizza le decisioni e gli umori della regina detenendo in mano le sorti di una nazione intera.
All’ennesima prepotente intromissione di Sarah negli affari di Stato, il capo dell’opposizione chiede alla donna se sia opportuno ricordarle che la regina non è lei, bensì la discendente degli Stuart.
Un potere che Lady Malborough, come viene anche chiamata, utilizza però principalmente per montare e tenere in piedi la regalità e la dignità di Anna: dalla preparazione dei discorsi in parlamento, all’incentivo a mantenere la linea dura contro i francesi nella guerra, ogni movimento di Sarah è votato a ricostruire l’immagine di una sovrana erosa di giorno in giorno dalla malattia e dalla depressione.Una delle scene più interessanti di tutto il film è proprio quella in cui la favorita si occupa di preparare Anna per la sua galoppata settimanale che, tra smorfie di dolore ed espressioni di insofferenza, accetta di vestire l’ingombrante imbracatura sistemata con devozione da Sarah.
L’uso del rallenty e dello sfondo musicale non fa che acuire con ironia il distacco tra un momento, la vestizione di un re, che molta tradizione cinematografica vuole sia epico…
Il signore degli anelli: Le due torri [The Lord of the Rings: The two towers, Peter Jackson, 2002]
…e che invece qui non fa che sottolineare l’inadeguatezza di Anna al ruolo che ricopre.
Al contrario Abigail, una volta diventata a sua volta la favorita, non è per nulla interessata a mantenere la statura della regina all’interno dello scacchiere della corte. Se per la sua predecessora infatti l’amministrazione della nazione non era che un effetto collaterale, una conseguenza dell’essere indissolubilmente al fianco della sovrana, la nuova favorita utilizza il suo potere politico come mezzo per rinsaldare la sua posizione a corte.
Il matrimonio con il barone Misham suggella l’ascesa di una nuova Lady.
Una volta ottenuto il riconoscimento del suo status, Abigail inizia a scivolare su un piano inclinato di degrado morale che trascina con sé l’intera corte e soprattutto Anna, che vede peggiorare drasticamente le sue condizioni di salute.
Diventa persino impossibile distinguere una linea di demarcazione tra gli atteggiamenti delle due donne che invece, con la presenza di Sarah, risultava maggiormente marcata.
Alla luce di queste riflessioni, la particolarità dell’operazione di Lanthimos risiede quindi nell’aver indirizzato l’anomala tensione amorosa che Sarah e Abigail vivono di riflesso a quella di Anna, verso un personaggio, quello della regina, che si fa sia destinatario di tale pulsione e, al contempo, oggetto perduto tramite il quale ricostruirla.A supporto di questa lettura vi sono i molti frangenti nei quali Anna si fa inerme oggetto della scoperta delle sue cortigiane, divenendo mezzo tramite il quale innescare il processo di rievocazione nonché destinazione ultimo di questo intimo percorso.
Invertendo di segno il fuoco della nostra indagine, non rimane che volgere l’attenzione verso il personaggio di Anna approfondendo lo slancio emotivo che la muove prima verso Sarah e poi verso Abigail, cercando di comprendere meglio il coinvolgimento spettatoriale che colma il divario nei confronti del suo dramma.In quanto motore degli avvenimenti, riconosciamo in lei un volano emotivo e un attante attivo all’interno del testo; questo significa che il suo sentimento, stando ai presupposti teorici precedentemente enunciati, dovrebbe rispondere alle tappe di desiderio, appagamento e resto che già abbiamo riscontrato, con significative varianti nei personaggi che le ruotano intorno.Il suo oggetto perduto risiede nel segno tracciato nel film dall’elemento dei diciassette conigli, proiezione intima e inconscia della perdita dei diciassette figli, tutti scomparsi in circostanze tragiche. Ricostruire il senso racchiuso in questo significante e abbracciarne il lascito emozionale significa di fatto accedere attraverso una corsia preferenziale entro l’anfratto più inaccessibile dell’animo di Anna. Non a caso sarà proprio sulla diversa interazione con gli animali, sulla differente risposta ad una richiesta di affetto nei loro confronti, che si consumerà la prima spaccatura delle due contendenti.
Anna però sembra rilanciare continuamente questo cortocircuito in un vortice in cui ad ogni desiderio pare corrispondere simultaneamente un resto, senza che possa esserci soluzione di continuità: Sarah è salda al suo posto ma non asseconda i giochi con i conigli, così come Abigail viene incontro a tutti i suoi capricci ma non conosce il codice di segni che compongono i vezzi e l’infantile indole della sovrana.
Un aspetto, quello della perenne insoddisfazione di Anna, per altro già espresso laconicamente nell’incipit e, per questo motivo, letto automaticamente come fondamentale fil rouge dell’intera pellicola.
Dunque diventa necessario riconoscere come le definizioni precedentemente utilizzate risultino inappropriate se applicate al suo arco narrativo e alle sue relazioni umane; piuttosto calzante invece è la definizione di Lacan8 di oggetto piccolo a, una variante in cui in uno stesso significante coesistono sia desiderio che resto.
Un concetto, quello di Lacan, che è diventato terreno fertile per la prima e importantissima teoria delle emozioni di Matte Blanco9 e, per vie traverse, anche per la Semiotica strutturale di Greimas10 già citata in precedenza.Nel suo saggio Le emozioni nella prospettiva psicanalitica, Lucilla Albano mescola le suggestioni di Greimas con la struttura del pensiero bi-logico di Matte Blanco per riconoscere nel particolare caso di studi di La signora di Shanghai [The Lady from Shanghai, 1949] i connotati fondamentali di un’autorialità insita in un film di genere.
“Per The Lady from Shanghai si trattava di capire come un film di genere proveniente da un racconto noir, dove la trama corrisponde ai canoni di un dark melodrama, fosse in realtà un film d’autore e un’opera poetica, spiazzante, inaccessibile ed esposta ad un’emozione imprevista e imprevedibile. Insomma nel film di Welles è presente, nei termini di una rappresentazione narrativa di immagini in movimento e, ovviamente, in un modo completamente diverso (ma insieme simile), quello stesso meccanismo che Jean-François Lyotard descrive a proposito di un disegno di donna di Picasso.
Ed è per questo che The Lady from Shanghai travalica la dimensione del genere e sviluppa un’intensità drammatica e una complessità e profondità inedite. Opposizione e identità, come sappiamo, possono convivere solo in una struttura bi-logica, mentre sono incompatibili nella logica cosciente, asimmetrica”.
Intravediamo l’approdo definitivo del percorso dentro il melodramma visto con gli occhi di Lanthimos: una visione che, proprio grazie alla sua protagonista, si dispiega in tutta la sua complessità satura di senso.“L’eterno ritorno” nel quale Sarah e Abigail sono finite loro malgrado altro non è che il naturale sovraccarico di significati di una pellicola che piega coscientemente le regole del genere di appartenenza per alimentare il discorso tutto personale del suo autore, agendo ancora una volta per condensazione.
NOTE
1. Intervista rilasciata a Eric Kohn per Indiewire. Reperibile qui.
2. Intervista rilasciata a Robin Young per Wbur. Reperibile qui.
3. Intervista rilasciata a Mattia Carzaniga per Rolling Stone. Reperibile qui.
4. “L’immaginazione melodrammatica”, di Peter Brooks. Parma, Pratiche Editrice 1985.
5. “L’amore impossibile e l’oggetto perduto” in “Il melodramma”, di Lucilla Albano. Roma, Bulzoni Editore 2007.
6. Terminologia propria della Semantica strutturale di Greimas che descrive come “il personaggio non è più considerato né una persona tendenzialmente reale, né un ruolo tipico, ma piuttosto, nella terminologia narratologica, un elemento che vale per il posto che occupa nella narrazione e per il contributo che dà a portarla avanti”.
7. “Tre saggi sulla teoria sessuale” in “Opere” di Sigmund Freud. Torino, Boringhieri 1970.
8. “Il Seminario. Libro IV”, di Jacques Lacan. Torino, Einaudi 1956-1957.
9. “L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica”, di Ignacio Matte Blanco. Torino, Einaudi 2000.
10. “La semantica strutturale”, di Algirdas Julien Greimas. Milano, Rizzoli 1968.