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In questo episodio propongo una riflessione sul rapporto tra videogiochi e nostalgia. Rapporto molto studiato, a ben vedere, che ha portato nel tempo numerosi accademici e accademiche a interrogarsi sulle modalità specifiche di presentazione (e ri-esperienza) della nostalgia in campo videoludico, presentando una serie di prospettive che in questa sede voglio raccogliere e presentare, senza la pretesa di fornire un contributo originale sul tema.

Anzitutto, verrebbe da chiedersi come mai parlare di videogiochi e nostalgia. La risposta a questa domanda è duplice: non solo perché, come ogni altro medium, anche il videogioco è attraversato, più o meno spesso, da una notabile spinta verso il recupero del passato, dei suoi immaginari, delle sue immagini e icone e così via; ma anche e soprattutto perché, più di altri media, il videogioco entra in contatto con la nostalgia in modo peculiare, nonché particolarmente efficace, in quanto meta-medium e mondo dell’esperienza (in senso fenomenolgico). Andando a sondare questi aspetti, cercherò di evidenziare come il videogioco sia particolarmente incline, come sistema mediale, a mercificare la nostalgia, addirittura trasformandola in un ‘brand abitabile’. Una specifica prima di iniziare è doverosa: finora ho usato ‘videogioco’, ma a ben vedere la maggior parte delle osservazioni che farò può riferirsi tranquillamente a tipi di mondi virtuali non ludici, sempre che parlare di ludicità abbia ancora un senso preciso. La parola ‘videogioco’ è quindi una specie di sineddoche: sono più diffusi e più accessibili della maggior parte dei mondi virtuali e per questo ben si prestano a esempi e altro, ma non hanno una differenza qualitativa rilevante rispetto a mondi virtuali che normalmente non facciamo rientrare nella definizione.

Per indagare le relazioni tra videogioco e nostalgia procederò a una specie di mappatura delle loro interazioni, tenendo presente che essa non riguarderà categorie ben definite ma modalità di massima che, all’atto pratico, si intrecciano e confondono.

Anzitutto, ci sono i videogiochi che consentono di (ri)abitare il passato. In questa categoria inserirei soprattutto quei titoli che, in modo esplicito, ricostruiscono il passato tramite il filtro narrativo, o più in generale estetico, della nostalgia. Parlo per esempio di Gone Home [Fullbright Company, 2013], videogioco in cui si ha modo di esplorare un’abitazione del 1995, o di What Remains of Edith Finch [Giant Sparrow, 2017]1, che si ambienta in una serie di stanze abitate dal 1937 in poi. Sono questi videogiochi che si ambientano in spazi e tempi nostalgici per definizione, ovvero nel passato, e ce lo mostrano senza particolari artifici estetici o procedurali. Sono in altre parole videogiochi ambientati, più o meno integralmente, in spazi temporalizzati, ovvero associati a uno specifico passato. Non sorprende trovare queste ricostruzioni nel videogioco, soprattutto in vista dell’evidente transizione generazionale in atto nel pubblico videoludico.

Ne scrive Sloan in “Videogames as Remediated Memories”,2 notando come

il consumatore che gioca a [Gone Home] non è trasportato in un semplice mondo immaginario. È anzi trasportato nel salotto o nella camera da letto in cui è stato giovano, al divano in cui guardava la televisione a piccolo, il pouf su cui è stato sdraiato ascoltando musicassette, e i letti su cui hanno videogiocato tutta la notte. Questo ricordo di vita vissuta diventa fondamentale per chi cerca catarsi partecipando a una simulazione nostalgica.

In altre parole, i videogiochi che più letteralmente permettono di riabitare il passato, riesplorarlo, riconoscerlo, fanno spesso leva su qualcosa che per esempio nel cinema è completamente assente – consentono di immergersi in un ricordo, di aggirarvisi, di prenderne in mano dei pezzi. Diventano dei ‘palazzi della memoria’ in cui chi è stato bambino in quegli anni può riconoscersi. E il riconoscimento avviene passando per due tipi di memoria specifici.

Sopra, What Remains of Edith Finch. Sotto, Gone Home.

Anzitutto, la memoria ambientale: riesplorare spazi passati, differentemente che semplicemente vederli rappresentati su schermo, significa rievocare (almeno in parte) le loro logiche, le traiettorie e le azioni che anche chi gioca vi compiva all’interno. In secondo luogo, la memoria legata a specifici oggetti. In questo i videogiochi nostalgici utilizzano il feticismo che è tipico di molta produzione videoludica e lo utilizzano per rievocare il passato: modelli 3D di videocassette, musicassette, vecchi giochi, cornette dei telefoni, poster e quant’altro iniziano ad affollare questi spazi – in Gone Home sono spesso oggetti che si possono raccogliere, con tanto di facoltà di maneggiare i rispettivi modelli per cogliere ogni dettaglio; in Assemble with Care [Ustwo Games, 2019] invece si riparano oggetti come vecchie macchine fotografiche proprio per riflettere sul sé, sul passato e su ciò che non si può più aggiustare. L’insistenza del videogioco sull’oggetto, sullo strumento, sulla materialità che troviamo sparpagliata in molti sistemi di interazione, crescita e conflitto, in questi casi diventa occasione per far emergere il ricordo del passato dalle tecnologie che un tempo utilizzavamo al suo interno – che del resto è un tratto della nostalgia, basti pensare a quanto la rievocazione del passato passi spesso per gli oggetti che eravamo soliti utilizzare, che a loro volta rievocano intere situazioni, episodi e modi di vivere.

Aggiustare e riassemblare oggetti passati in Assemble With Care.

Da una parte, scrive Sloan, ri-abitare il passato nel videogioco è e non può essere che un tentativo, per una fetta di utenza più matura, per riconnettersi con versioni passate di sé – con spazi e oggetti che non ci sono più o che sono irrimediabilmente cambiati. In altre parole, si cerca di recuperare tramite il virtuale ciò che si è perso, in qualche modo ritorcendo verso il passato un procedimento che è vicino all’utopia: recuperiamo il passato ma attraverso una simulazione, direbbe Baudrillard. E del resto il passato resta inaccessibile per definizione e non potremmo accedervi altrimenti.

Un secondo tipo di nostalgia nel videogioco, connesso al primo, la troviamo nei cosiddetti nostalgia games.3 Li possiamo definire, seguendo Sloan, come tutti quei videogiochi che presentano estetiche e design col preciso scopo di rievocare il passato, fino spesso a ricostruire anche le limitazioni tecniche di vecchi videogiochi. Giochi simili si trovano soprattutto tra le piccole produzioni, in cui il feticismo per vecchie pratiche di gioco e modalità interazionali si riflette in una serie di titoli che strizzano evidentemente l’occhio al retrogaming, facendo eco alle sue logiche, estetiche e limiti. Anche grandi produzioni sono ascrivibili alla categoria: Far Cry 3 Blood Dragon [Ubisoft Montreal, 2013] recupera le estetiche anni 80, per esempio.

 

Anche titoli che non sono nostalgia games possono diventare tali in alcuni frangenti: in alcuni momenti Super Mario Odissey [Nintendo EPD, 2017] diventa un platform a scorrimento orizzontale in pixel art proprio come i primi episodi della serie; in molte sezioni Nier: Automata [PlatinumGames, 2017] passa dalla visuale in terza persona a una dall’alto per trasformarsi in uno shooter a scorrimento verticale. In tutti questi casi, non si mira a ricostruire uno spazio reale perso nel tempo – vengono piuttosto costruiti degli spazi immaginari che recuperano a livello rappresentazionale quanto interazionale quanto visto in passato. Malgrado il contesto tecnologico sia radicalmente cambiato, riappaiono per esempio pixel ben visibili e grafiche 8-bit, che riproducono limitazioni ormai ben superate. Questi titoli, più che quelli ascrivibili alla categoria di cui ho parlato prima, rendono evidente ciò che normalmente si nota di ogni trend nostalgico: più che recuperare il passato, recuperano una sua versione mediatizzata. Recuperano e ri-azionano estetiche e procedure che, più che avere come referente la realtà di un’esperienza perduta, hanno come referente una sua mediazione. Ecco che molti videogiochi recuperano l’estetica VHS (basti pensare al trend vaporwave e titoli come Paradise Killer [Kaizen Game Works, 2020]), riproducono le meccaniche di generi videoludici passati e caduti in disgrazia e così via. Le possibilità mnestiche e nostalgiche del videogioco sono in questi casi enfatizzate dalle sue peculiarità di metamedium, ovvero di medium che ne ingloba altri (simulandone le caratteristiche)4. Ecco, quindi, che in Crash Bandicoot 4: It’s About Time [Toys for Bob, 2020] alcuni livelli bonus si svolgono all’interno di un televisore con tanto di interferenze video a schermo, o che in Her Story [Barlow, 2015] riproduce il desktop di un vecchio computer e altrettanto desueti software di archiviazione. In tutti questi casi, forme e meccaniche passate vengono riprodotte, rievocate nel presente, rendendo quindi il passato accessibile come già-mediato.

Dall’alto: la copertina di Far Cry 3: Blood Dragon, che recupera evidentemente l’estetica dello sci-fi Anni 80; una delle sezioni di shooting a scorrimento verticale in Nier: Automata; l’estetica vaporwave in Paradise Killer; l’interfaccia di gioco retro di Her Story.

È opportuno notare che le due categorie succitate spesso si mescolano: un esempio sono tutte quelle macchine da gioco appartenenti al passato, ricreate digitalmente e che possiamo quindi ri-utilizzare e ri-abitare, che possiamo attivare – entrando quindi in contatto con nostalgia-game-dentro-il-gioco. In Uncharted 4: Fine di un ladro [Uncharted 4: Thief’s End, Naughty Dog, 2016], per esempio, si ha modo di videogiocare al primo Crash Bandicoot [Naughty Dog, 1996] per PlayStation utilizzando la console presente a casa del protagonista – un evidente mix di due diversi tipi di nostalgia: quella per la macchina, la PlayStation, quella per le procedure e gli spazi da essa innescate, e quella per l’esperienza mediale in sé, coi suoi limiti tecnologici, grafici, estetici e quant’altro, ricreati ed esperibili in un videogioco contemporaneo. Questo si iscrive evidentemente in un più ampio trend di feticizzazione del passato, in cui la cultura pop e i videogiochi, anche intesi come artefatti, giocano un ruolo particolare. Basti pensare al fatto che gli anni ‘80 e ‘90, principale punto di fuga degli immaginari nostalgici contemporanei, siano storicamente anche popolati di arcade, macchine da gioco e immaginari digitalizzati.

In Uncharted 4 è possibile videogiocare al primo Crash Bandicoot.

Chiudo questa panoramica con una terza categoria di interazioni tra videogiochi e nostalgia: ‘ri-immaginare’ il passato nel videogioco. Sia riabitare il passato sia ripeterne forme, narrazioni e procedure implichino entrambi un processo di ri-immaginazione, talvolta come abbiamo visto anche di forme già mediate (quindi ri-mediatizzazione oltre che ri-immaginazione), ma con questa categoria nello specifico voglio indicare tutte quelle simulazioni del passato che, inevitabilmente, diventano anche nostalgiche. Non sto parlando di un passato che rientri nella nostalgia di tipo generazionale, ovvero di un passato relativamente recente, ma di passati anche più remoti, dalla prima metà del Novecento in giù, ivi compreso il Medioevo, l’antichità e così via, che non sono vincolati alla nostalgia per qualcosa di effettivamente vissuto.

Si tratta in questi casi di uno specifico tipo di nostalgia, l’anemoia, che si rivolge per definizione a un tempo che non si è mai vissuto. Nel videogioco l’anemoia si fa spazio a partire non solo da narrazioni ed estetiche, ma anche soprattutto meccaniche di gioco e interazioni. Anche in questo caso, forse anche più che per il passato recente, la nostalgia è di per sé mediatizzata: quando ci aggiriamo per la piazza di un mercato di un videogioco fantasy, tra musiche di bardi, vociare di passanti e grida di negozianti, non proviamo certo nostalgia per il passato medievale così com’è stato, piuttosto per una sua forma mediata più e più volte, che ci è arrivata prima dal cinema che dall’esperienza diretta.

L’anemoia nei videogiochi può prendere la stessa forma che assume in un film e riguardare un passato idealizzato che percepiamo come familiare: nel Medioevo abbiamo la piazza, la locanda o taverna, la biblioteca, tutti luoghi che compaiono nelle forme più disparate, e anche ben oltre i confini del gioco storico propriamente detto – anzi soprattutto in videogiochi che si rivolgono a un passato fantasticato, come quelli ad ambientazione fantasy (vedi The Witcher [CD Projekt Red, 2007-2022] Dragon Age [BioWare, 2009-2014] e The Elder Scrolls [Bethesda Softworks, 1994-2020]). L’anemoia è riconducibile anche al futuro, oltre che al passato: basti pensare a tutte quelle rappresentazioni fantascientifiche diventate negli anni parte di un bagaglio culturale condiviso e i cui riferimenti, oggi, creano un senso di nostalgia – un esempio può essere il ponte di comando delle astronavi di Star Trek [id., ideata da Roddenberry, 1966-1969], spazio-tempo ben definito che ritroviamo per esempio nel ponte di comando della serie Mass Effect [BioWare, 2007-2021].

Taverne in The Witcher 3: Wild Hunt The Elder Scrolls V: Skyrim [Bethesda Softworks, 2011].

Quest’ultima categoria in particolare merita una riflessione a parte. Come notano alcuni,5 l’anemoia nel videogioco organizza spazi, racconti e interazioni seguendo dinamiche precise, spesso influenzate da (o ascrivibili a) certe inclinazioni ideologiche. Le città medievali videoludiche, per esempio, non solo sono spazi nostalgici e familiari, ma vengono organizzate secondo logiche che mettono in evidenza percorribilità, centralizzazione, e demarcazione di spazi – logiche che non soltanto impongono a un passato già mediatizzato un’intenzionalità ludica, al fine di ottimizzare l’esperienza di gioco, ma che soprattutto lo ri-immaginano in una prospettiva ideologicamente situata, inclinata verso l’individualismo, un modello economico capitalistico, e più in generale relazioni di potere tutt’altro che neutrali. Chiuderei la mia riflessione riflettendo su questo.

Se il videogioco è particolarmente incline a rapportarsi con la nostalgia, è anche vero che ogni nuova iterazione nostalgica impone al passato rappresentato, simulato o rievocato sensibilità e dinamiche presenti. Non solo il passato nostalgico non è in alcun modo fedele all’originale, ma deriva (essendo per definizione ri-mediatizzato) da rappresentazioni a loro volta influenzate dal contesto ideologico in cui sono state prodotte. A loro volta, queste vengono rivisitate e inifluenzate dal contesto contemporaneo. Basti pensare al modo in cui, per fare un esempio tra i più evidenti e studiati, il videogioco di ruolo rimandi a immaginari medievali nostalgici, ma attraverso meccaniche di gioco che spesso raccontano di una realtà profondamente individualista, legata allo sviluppo personale tramite il conflitto, a un ideale di crescita infinita, di prevaricazione sull’altro e sul mondo naturale, di uso strumentale delle risorse e affetti a disposizione e così via. In altre parole, il videogioco di ruolo occidentale non fa che rievocare tramite le sue meccaniche la cornice ideologica non tanto del passato cui si riferisce, ma soprattutto del contesto socioculturale in cui è stato pensato e creato. Le meccaniche di gioco non sono da meno di estetiche, spazi e narrazioni. Videogiocare in un’ambientazione fantasy, la maggior parte delle volte, vuol dire non soltanto provare nostalgia per taverne, biblioteche, fabbri e così via, ma anche (e forse soprattutto) per la raccolta di piante e risorse, per la crescita esponenziale di attributi, per l’esplorazione ridotta a sfruttamento di ambienti, per l’uso strumentale dei compagni d’avventura. Non è possibile estrarre queste dinamiche dai mondi in cui compaiono.

Ecco allora che parlare di nostalgia e videogioco diventa necessario, soprattutto dal momento in cui questi immaginari (e queste forme dell’immaginario) del passato riappaiono con frequenza e slancio nel presente, sempre più spesso. Quello che succede in una simulazione nostalgica è un incrocio di processi: mediando e ri-mediando il passato, si incontrano i sostrati ideologici del contesto rievocato, di quello in cui avviene la rievocazione, e anche quelli che sottendono alla soggettività e sensibilità di chi attiva e mette in circolo la rievocazione, ovvero chi gioca. È in questo incrocio di contesti che si generano possibilità inedite per un rapporto trasgressivo, magari addirittura creativo con il passato. Ma è anche in questo incrocio di sensibilità che rischiano di tormentarci quei fantasmi, come direbbe Derrida,6 che dal passato non hanno mai smesso di seguirci.

 

NOTE

1. Vedi S. Caselli, What Remains of Edith Finch: fantasmi e spazi digitali nell’arte videoludica, 2017.

2. R. J. S. Sloan, Videogames as Remediated Memories: Commodified Nostalgia and Hyperreality in Far Cry 3: Blood Dragon and Gone Home, Games and Culture, 10(6), 2014.

3. R. J. S. Sloan, Nostalgia Videogames as Playable Game Criticism, GAME Journal, 5, 2016.

4. A. Kay, A. Goldberg, Personal dynamic media, IEEE Computer, 10(3), 1977, pp. 254–263.

5. In particolare, vedi D. Vella e K. B. R. Giappone, The City in Singleplayer Fantasy Role Playing Games, Proceedings of DiGRA 2018.

6. Vedi il concetto di hauntology a partire da J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, 1994.