Una prima versione dell’articolo è stata pubblicata sul numero 13 della rivista Rifrazioni – Dal cinema all’oltre.

L’arte era tanto grande da non apparire addirittura. Pigmalione stesso è preso dall’immagine di quel corpo e contemplandolo concepisce una passione ardente. Spesso allunga le mani verso la sua opera per accertarsi se si stratta di carne o di avorio e nemmeno dopo il contatto ammette che sia avorio. La bacia e gli sembra di essere baciato, le parla, la stringe e crede che le sue dita affondino nelle membra che tocca.1

Adorare il proprio feticcio innalzandolo su un altare di pietra. Evocare la prima religione del mondo, il primo grande amore. Progettare, dividere, modellare e dunque scolpire: separarsi per ritrovare all’interno della propria creatura se stessi. L’immagine di Pigmalione che giace col proprio feticcio rappresenta – ancora più di Narciso – il cuore mitologico del doppio. In lui amare è sempre stato amarsi. La materia inerte prende vita ed è subito Galatea.
Guardando al cinema di quel genio viennese prestato a Hollywood che era Josef von Sternberg capiremo come i suoi film non facessero altro che raccontare la lotta alchemica, viscerale fra demiurgo e materia vibrante, pulsante d’emozione e di vita. Il fulcro di questo pezzo risiede nel legame di sudditanza, che comprende un principio di masochismo, fra regista e attore nella poetica sternberghiana. «Ho davanti a me un oggetto che respira, che non ho mai visto e non rivedrò mai. Un violinista potrebbe suonare un violino che rischia d’esplodere?»2
Sternberg era interessato all’istante precoitale, a quel momento prezioso che trova la sua geografia nel primo piano: volto algido, ingrandito magicamente sullo schermo, sembra un paesaggio infinito, una chimera illuminata da luci artificiali e fondali dipinti.
Sotto l’egida della pellicola entra in scena, con la sua indifferenza fatale, Lola Lola, cantante di cabaret, oggetto di un desiderio esclusivo. Ci piacerebbe pensare che all’interno del locale l’Angelo Azzurro si trovi il cinema tutto di Sternberg: una dopo l’altra, in un carnevale perduto di maschere e festoni, avanzano maliziose Amy Jolly, X-27, Shanghai Lily, la Venera Bionda, Caterina e Concha, supreme reincarnazioni di Lola-Lola. Ci soffermeremo, infatti, sui sette film che Sternberg ha girato per-contro-con la divina Marlene Dietrich. E se il feticcio vacillerà ancora, allora potremmo indugiare e cercare di capire come e perché il regista viennese sia arrivato a rivelare: «Marlene Dietrich sono io»3.

Lola-Lola

Sternberg ha già realizzato diverse pellicole quando viene chiamato da Emil Jannings per dirigerlo nel primo film sonoro tedesco. L’occasione si presenta per il riadattamento del romanzo di Heinrich Mann Il professor Unrat (1905), che il regista trasforma nel topos del suo cinema che verrà: L’angelo azzurro [Der blaue Engel, 1930] è la crudele parabola di un austero docente invaghito di una cantante di cabaret che è pura, sensuale apparenza. Rath abbandona la sua rispettabile posizione sociale per diventare un clown umiliato e offeso, il marito giocattolo di Lola-Lola. Per amore la segue nella sua vita nomade, perdendo radici e identità, ritrovandosi a interpretare la parte del giullare alla mercé del pubblico. Sternberg, contro il parere di tutti, decide di assumere nella parte di Lola-Lola una giovane attrice sconosciuta che aveva interpretato qualche pellicola tedesca di scarso successo: Marlene Dietrich. Ma per diventare Lola-Lola l’attrice doveva essere completamente reinventata. «Si tratta di rifare un essere umano»4 confesserà più tardi il regista. Se Lola-Lola è il feticcio irraggiungibile a cui sottomettere la propria volontà, bisognava che Marlene Dietrich si associasse a un modello di bellezza astratta, estatica e distante; solo così l’attrice avrebbe potuto dar vita a quell’erotismo pittorico proprio dei quadri e dei sogni. D’altra parte, di fronte alla massa pachidermica di quell’omone di Jannings, la Dietrich è un corpo leggero e nebuloso, già pronto per essere iconizzato (evitando programmaticamente il primo piano, sinonimo di empatia, che poteva aderire solo al volto offeso del povero Rath). Leggendo le memorie di Sternberg, non è poi così ardito scorgere nel rapporto tra Rath e Lola-Lola il riflesso della relazione di potere instauratosi tra regista e attrice. La donna offriva anima e corpo al suo mentore cedendo totalmente al dominio sternberghiano sull’attore. Questa sottomissione appagava Sternberg da una parte ma dall’altra rendeva la Dietrich un’idea sua da plasmare ininterrottamente, pena la gelosia, il rammarico e la disperazione. La materia era viva e, molto più subdolamente, rivendicava la sua autonomia.

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Racconto di un amore impossibile, la lotta tra regista e attrice sarà l’ossessione impressionata sulle pellicole successive.
Lola-Lola, desiderio divenuto carne, si fa proiezione immaginaria. Prostituta, angelica e demoniaca, indossa abiti scuri e seduce il mondo a cavalcioni su una sedia assurgendo a modello erotico di un intero secolo. Il fascino ammaliante e distruttivo di Lola-Lola richiama il professore all’impulso e alla passione ma lo conduce anche verso una lenta, inesorabile deriva. Basta guardare lo struggente finale del film, dove Rath è costretto a esibirsi come clown all’Angelo Azzurro, di fronte ai suoi ex colleghi e alunni: mortificato e deriso, col cuore a pezzi, urla a squarciagola quel tragico chicchirichì che ha dilaniato intere generazioni. Rath grida ben sapendo che dietro le quinte Lola-Lola sta flirtando con un altro uomo. Ecco che il cinema di Sternberg assume i caratteri della parabola dello sconfitto che, nella tristezza espressionista di una cittadina tedesca, si dirige barcollando fino al suo vecchio ginnasio dove morirà con le mani ben assicurate alla cattedra. E intanto Lola-Lola canta noncurante Ich bin von Kopf bis Fuss auf Liebe eingestellt, la sua canzone d’amore.

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Amy Jolly

E fu così che Sternberg portò la sua nuova stella dalla Germania a Hollywood dove inaugurò un processo di totale, simbiotica creazione di una star. Marocco [Morocco, 1930] è una sorta di seguito ideale – ma anche di negazione – de L’angelo azzurro. Lo schema del triangolo amoroso, che si presentava alla fine del film tedesco, diventerà la struttura portante dei lavori successivi. Se prima la Dietrich era stata iconizzata come angelo tremendo secondo la tradizione tipicamente europea, arrivando in America doveva essere necessariamente umanizzata. Solo attraverso il passaggio obbligato di angelo caduto Sternberg avrebbe potuto di nuovo mitizzarla rendendola oggetto-feticcio del desiderio inappagato. La mossa geniale fu quella di ribaltare completamente l’assunto de L’angelo azzurro: Amy Jolly è una ballerina da cabaret come Lola-Lola ma questa volta può innamorarsi, soffrire, sperare e sognare, proprio come un essere umano. Finalmente Marlene ha il suo primo piano, perché Amy Jolly è di certo bellissima ma pure fragilissima (per lei solo superlativi). Del resto la vera femme fatale di Marocco è l’inafferrabile astro nascente Gary Cooper. Significativo in questo senso il finale che si perde nel vuoto astratto del deserto, regno fantomatico della leggenda: Amy Jolly, a piedi nudi sulla sabbia, diviene zingara e insegue l’amato legionario per amore. Finale gloriosamente inverosimile che sottolinea la presa di posizione di chi preferisce rincorrere un mondo irreale, quello dell’illusione e del sogno, piuttosto che crollare tra le nefandezze del reale: eccoci nel vero limbo sternberghiano.

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La realtà del legionario è quella dell’apparenza, dove l’esotismo diviene erotismo, dove il Marocco è una terra immaginaria completamente ricostruita in teatro di posa. Sternberg, del resto, era completamente disinteressato a una ricostruzione fedele dei luoghi che filmava: l’unico set da rispettare era quello della sua mente. Che fosse la Cina interamente ricostruita di Shanghai Express [id., 1932] o la Spagna da cartolina di Capriccio spagnolo [The Devil Is a Woman, 1935] non aveva importanza: al cinema abita l’illusione, il verosimile è un problema da burocrati. Sternberg si spingerà oltre nei film successivi creando momenti di completo, fiammeggiante irrealismo mélo, meccanizzando ogni gesto, rendendo artificiale qualsiasi comportamento e d’effetto qualsiasi frase, fino ai limiti del parossismo. La messa in scena si articola in maniera sempre più vertiginosa e barocca, le scenografie, i trucchi e i costumi si fanno sempre più dirompenti: con malizia e ironia, il suo cinema albergherà i territori del camp, del fetish e del kitsch, rivelando le immagini più colorate dell’epoca del bianco e nero. Risulterà allora commovente l’artificiosità assoluta del suo mondo quando, nel corso di un’intervista, Sternberg si lamenterà di aver dovuto usare dell’acqua vera perché non poteva fingerla.
Ultima, fondamentale nota su Marocco: il film ruota intorno alla meravigliosa figura del terzo incomodo, lo straordinario personaggio interpretato da Adolphe Menjou, gentiluomo raffinato e generoso che offre ad Amy Jolly una vita di affetti e certezze. Non le imporrà mai il suo amore, al contrario la aiuterà a inseguire il legionario, americanissimo dongiovanni Tom Brown (Gary Cooper). Commovente la sua muta rassegnazione, il dolore taciuto di chi vede il proprio amore fuggire via verso miraggi di gioventù e rimane fermo a guardare.

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X-27

Come può un artista essere onesto con il blocco d’argilla se esso si considera più importante della mano che lo sta modellando? L’attore intelligente lo sa e si sottomette senza fare domande.5

Sternberg lavorava sulla sua musa-creatura fino a trasformarsi in essa. La diva sullo schermo è puro immaginario su celluloide com’è evidente in Disonorata [Dishonored, 1931]. Qui il melodramma è l’abitacolo sentimentale di un’anarchia onnipresente. Una lunga, bellissima sequenza ci mostra una festa in maschera tra palloncini volanti, festoni e stelle filanti mentre un tripudio di dissolvenze, sguardi e sorrisi pare fuoriuscire dallo schermo. La maschera è il vero protagonista di questo regno fatuo: X-27 è una prostituta divenuta spia nella Vienna della prima guerra mondiale.

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Abbandonata l’umanità di Marocco, questa nuova Lola-Lola è impermeabile, seducente e bella più che mai. Si esprime con battute da romanzo d’antan («Non ho paura della vita e della morte»), si muove con gelido algore accogliendo il ridicolo nel proprio regime estetico. Basta guardare la sequenza finale, così memorabile e cinematografica da assurgere, immediatamente, a mito: X-27, davanti a un plotone d’esecuzione, chiede di essere fucilata col suo abito da prostituta. Avanza indifferente, perché non ha paura della morte (le dive, come gli angeli, non muoiono mai). Si specchia sulla spada del tenente aggiustandosi il cappello. Questi le porge la benda nera che dovrebbe coprirle gli occhi ma lei, con far suadente, la usa per asciugargli le lacrime. Infine, con le spalle al muro, sistema le calze e sparge il rossetto sulle labbra. I soldati fanno fuoco: ecco che la classe uccide il tempo, che lo stile vince la morte.

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Shanghai Lily e la Venere Bionda

Sternberg la uccide in Disonorata eppure Lola-Lola rinasce un anno dopo in Shanghai Express, tornando icona impassibile in un mondo dove sacro e profano convivono. A bordo di un treno che attraversa una Cina immaginaria, il biancore del volto, delle mani e delle gambe, è abbagliante. Il film è l’ennesima perla barocca ai confini del fetish che racconta gli accessori di Shanghai Lily, venerando il suo corpo e la sua immagine sfumata, laddove perfino il fumo di una sigaretta diviene parte integrante del volto.

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Shanghai Express è forse, più di tutti gli altri, non tanto un film su o per Marlene, quanto un film su Sternberg per Sternberg. Si tratta probabilmente della pellicola che più coincide con la visione di un cinema del desiderio che ritrova l’epicentro nel movimento lento e sinuoso del corpo femminile, nella nebbia che avvolge il mondo esterno e nell’abisso conquistato dagli occhi irraggiungibili della musa. Quegli stessi occhi che ritornano in Venera bionda [Blonde Venus, 1932], ulteriore melodramma del desiderio inappagato, ennesimo triangolo amoroso. Sembra quasi che Sternberg reiteri continuamente il suo gesto filmico, cercando la perdita (di se stesso, del proprio orgoglio, della propria sessualità) in un repertorio declinato fino all’ossessione. Risuona l’eco di feticci, amanti e puttane, in cui l’infelice (come in Marocco) consegna sempre la donna amata al suo contendente. Qui, invece del Marocco o della Cina, c’è l’Africa caricaturale dove la Dietrich fa la sua entrata in scena vestita da gorilla. Ma il candore di una mano bianca rivela subito la Venere Bionda. Si ha come la sensazione che Sternberg voglia liberarsi di Marlene cercando ossigeno nella ripetizione delle storie – intese come feticci.

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Caterina

Dopo le Venere Bionde si può – e si deve – superare il comune, noiosissimo senso del pudore, debordando in territori di sessualità decadente. Si può – e si deve – raccontare il potere e gli uomini di corte come statue deformi e caricaturali di un castello imperiale. Si può – e si deve – giocare al massacro contro ogni ipotesi di controllo, falsa modestia e borghese, canonico buon gusto. L’imperatrice Caterina [The Scarlet Empress, 1934] è l’edificazione esacerbata di un mondo in grado di sprigionarsi solo attraverso scenografie imponenti, digressioni lisergiche e incontrollate, sovrimpressioni e dissolvenze. Il caos visionario di un cinema che qui, finalmente, esplode in un delirio barocco senza precedenti.

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Il film inizia in un tranquillo angolo della Prussia, all’inizio del XVIII° secolo, dove vive la piccola Sofia (interpretata dalla figlia stessa della Dietrich). Sternberg ha l’opportunità di ritornare alle radici candide della sua creatura, a dimostrare che dive – e regine – si diventa, anche controvoglia. Quando verrà scelta dall’imperatrice come sposa dell’erede al trono Pietro, Sofia dovrà trasferirsi nella gelida Russia. Di fronte all’oscenità grottesca dello sposo, la bambina si trasformerà da innocua fanciulla in fiera e spietata dominatrice. Definitiva affermazione di una star, L’imperatrice Caterina racconta l’ascesa di una piccola attrice che diviene la stella più luminosa del firmamento hollywoodiano: l’universo messo in scena è dominato dalla pulsione carnale che abbatte ragione e morale e si trasforma in pulsione di morte. Cos’è, d’altra parte, il potere se non l’ennesimo carnevale, l’ennesima mascherata di corpi e di gioielli? Film di un erotismo insostenibile, sempre in bilico tra la purezza idilliaca della bambina e l’estasi orgiastica dell’Imperatrice. Se c’è un equilibrio, questo va ricercato nel primissimo piano più paesaggistico della storia del cinema sternberghiano: il volto lucido di Caterina, ricoperto dai veli, durante il matrimonio con Peter (Sam Jaffe). I suoi occhi sono completamente persi nello sguardo del conte Alexei (John Lodge) e non degnano mai d’attenzione il futuro marito. E nel bagliore del viso si perde la concezione del tempo e dello spazio, sprofondando in un mondo di forme astratte e sublimi, lontano da banchetti di statue deformi, teste morte e altre funeree oscenità. 

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Concha

Sono stanco, cara. Non posso più lottare con te, con Lubitsch che mi disprezza quanto io lo detesto. E non posso darti altro. Sto già plagiando me stesso. Il mio ultimo dono sarà “il più grande film della Dietrich”. In quel film ti offro tutto il mio talento. Vedrai la Dietrich sublime e sarà il tuo preferito fra i nostri sette film.6

L’immagine di uno Sternberg sempre più logorato dalla collaborazione con la Dietrich, da una poetica che non può che ripetersi come corollario di un’ossessione, pare ormai volgere al termine. Capriccio spagnolo è, a tutti gli effetti, un film-compendio, una summa perfino spiacevole dell’esperienza con la Dietrich. Concha, il personaggio femminile del film, è la reincarnazione più crudele di Lola-Lola, femme fatale terribile e spregiudicata che porta alla deriva tutti gli uomini che incontra. Più che in un film per Marlene siamo ormai in un’opera contro Marlene7 che vuole esorcizzare i demoni e chiudere per sempre col passato. Proprio per questo Sternberg la sommerge di trucco rendendola un’autentica maschera della femminilità: dalle labbra ridisegnate trivialmente col rossetto fino al fard che invade le guance, la Dietrich diviene l’immagine caricaturale di se stessa, una Lola-Lola deformata a livello esponenziale.

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Non è casuale che l’intero film si svolga durante il carnevale sfrenato di una Spagna da cartolina. Qui Don Pasqual (Lionel Atwill, assoluto alter-ego di Sternberg) rievoca in un lungo flashback come, nonostante la sua vita sia stata distrutta da Concha, abbia continuato ad amarla e a ricadere fra le sue braccia. L’accettazione ambigua di Marocco è divenuta ormai masochismo estremo, ossessione onnivora per tutto ciò che non si può avere. Don Pasqual arriverà perfino a sfidare a duello il suo migliore amico (nuova preda-vittima di Concha) rimanendo gravemente ferito. La scena in ospedale tra Concha/Dietrich e Don Pasqual/Sternberg assurge a morte simbolica di tutto il loro cinema: lei, ricoperta di veli e vestita di nero, appare come fantomatica presenza, immagine trasognata di una donna di grana. Lui, sul letto di morte, è immerso nel biancore asfittico dell’ospedale. Spettro del desiderio, la donna pronuncia le parole mai dette in sette film: «Hai sempre scambiato l’amore con la vanità».
«Marlene Dietrich sono io», ancora una volta.

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Si racconta che anni dopo Marlene vagasse spaesata sui set altrui chiedendo «Jo, dove sei?». Il cinema è intriso di leggende che, parafrasando il film di John Ford8, vincono la realtà.  

Mehr Licht

Amato da Borges e da Cocteau, dai giovani turchi della Nouvelle Vague, Sternberg era, in definitiva, un pittore di cinema. Intellettuale profondamente famelico, utilizzava la celluloide per modellare i propri sogni. Prolifico e manuale come tutti gli artigiani (e artigiano lo fu sin dall’infanzia), venne a contatto con i film quasi per caso. Iniziò da ragazzo mentre puliva pellicole per poi fare il proiezionista. «Era inevitabile che prima o poi, oltre alle superfici sporche, notassi anche le immagini dei film»9. Come succede a ogni occhio sensibile, la teoria della luce divenne ben presto mito della luce, nonché storia di tutte le storie. «La storia della luce è la storia della vita, e l’occhio umano è stata la prima macchina da presa»10.
Ritorna alla mente un passaggio fugace di Follie in una lavanderia cinese (1965), la sua autobiografia, in cui cita l’amato Goethe. Dopo una vita passata a meditare sul senso della vita la vista del poeta si offuscò e, sul letto di morte, emersero due parole dall’oscurità: Mehr Licht.

 

NOTE

1. P. N. Ovidio, Le metamorfosi, Torino, Einaudi Tascabili Classici, 2000, pp. 252-259.

2. J. von Sternberg, in G. Buttafava, Josef von Sternberg, Firenze, Il Castoro Cinema, 1976, p. 2.

3. J. von Sternberg, in C. Costantini, Le regine del cinema, Roma, Gremese Editore, 1997, p. 63.

4. J. von Sternberg, in G. Buttafava, op. cit., p. 3.

5. J. von Sternberg, Follie in una lavanderia cinese, Roma, Lithos/Stilo, 2009, p. 138.

6. J. von Sternberg, in S. Arecco, Marlene Dietrich – I piaceri dipinti, Genova, Le mani, 2005, p. 12.

7. Come ben sottolinea Giovanni Buttafava nel Castorino dedicato a Sternberg. L’autore suddivide i sei film Americani della coppia in due gruppi differenti: il primo, da Marocco a Venere Bionda, è il gruppo di film del desiderio (e del possesso), il secondo, da L’imperatrice Caterina a Capriccio spagnolo comprende i film della gelosia (e del distacco).

8. Da L’uomo che uccise Liberty Valance [The Man Who Shot Liberty Valance, 1962] di John Ford: «Se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».

9. J. von Sternberg, Follie in una lavanderia cinese, cit.,  p.18

10. Ibid., p.266.