I Racconti dell’Orso (2015) è l’opera prima di due giovani registi romani, Samuele Sestieri e Olmo Amato. Il film nasce da un’operazione di crowdfunding ed è stato presentato quest’anno in concorso alla trentatreesima edizione del Torino Film Festival. Definito un «film-laboratorio», «un film in divenire»1 dai due cineasti, I Racconti dell’Orso è un’opera che si è costruita gradualmente, durante i quaranta giorni di viaggio dei due registi nelle terre della Norvegia e della Finlandia. L’operazione portata a termine da Sestieri e Amato è particolarmente coraggiosa se contestualizzata all’interno del sistema produttivo italiano contemporaneo. I due giovani registi tentano di distaccarsi da un cinema standardizzato incapace di dialogare con il reale: nel processo di costruzione del film, girare senza sceneggiatura, accogliendo di volta in volta nel processo di costruzione dell’opera ciò che il set aveva da offrire, finisce per caratterizzare il film in tutte le sue componenti. Realizzato con l’ausilio di una camera digitale e senza una vera e propria sceneggiatura (l’incipit realistico è stato realizzato solo al termine delle riprese), I Racconti dell’Orso è un film libero che prende forma a partire da un paesaggio inquadrato alla maniera dei dipinti di Daubigny, in cui la natura selvaggia vi impera con dolce prepotenza, come nelle fotografie di Ansel Adams – «Wilderness, or wildness, is a mystique. A religion, an intense philosophy […]»2.

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Washerwomen at the Oise River near Valmondois (1865), Charles-François Daubigny recensione lo specchio scuro

Sopra: un fotogramma de I Racconti dell’Orso.Sotto: Washerwomen at the Oise River near Valmondois (1865) di Charles-François Daubigny.

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Ansel Adams fotografia Masterworks from Seven Decades 1928–1982

Sopra: un fotogramma de I Racconti dell’Orso.Sotto: una foto di Ansel Adams da Masterworks from Seven Decades, 1928–1982.

La prima sequenza de I Racconti dell’Orso introduce lo spettatore a bordo di una autovettura con all’interno una bambina che dorme: da qui, attraverso una sovrimpressione, la dimensione onirica prende il sopravvento sulla realtà. Un incipit, questo, profondamennte metacinematografico: il film di Amato e Sestieri racconta la storia trasfigurata del loro viaggio. Il sogno della bambina è I Racconti dell’Orso: così come Amato e Sestieri si sono spinti ad esplorare i territori finlandesi e norvegesi, allo stesso modo i bizzarri protagonisti di questo film-sogno, un monaco-robot e un omino rosso, vagano disorientati per le vaste e ignote lande nordiche scoprendole e indagandole attraverso atteggiamenti giocosi, finché non trovano sul loro cammino il peluche danneggiato di un orsacchiotto.

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La dimensione ludica che innerva il film, sottolineata da una delle battute del dialogo – “So…What do we do now? Let’s play” –, ricollega I Racconti dell’Orso al cinema d’animazione, anche per l’utilizzo in post produzione del color correction che enfatizza i rossi, amplificando la dimensione fantastica del racconto. D’altronde è proprio a una gemma del cinema d’animazione che guarda I Racconti dell’Orso, Il racconto dei racconti [Сказка сказок, 1979] di Yuri Norstein, da cui il film italiano si lascia corteggiare, attingendovi sia per la fascinazione che esercitano la natura e gli animali che la abitano sia per la rievocazione dell’infanzia e il tema della memoria.

Tra le tematiche principali che caratterizzano il film di Amato e Sestieri v’è infatti quella della riscoperta dell’infanzia, sottesa a quella pascoliana poetica del fanciullino che è in ognuno di noi e che guarda con gli occhi spalancati sul mondo, con stupore e merveille. Un ritorno a quel primordiale sguardo innocente che è sì quello della bambina delle primissime sequenze de I Racconti dell’Orso, ma è anche quello a cui si invita lo spettatore-fanciullo: da questo punto di vista, il film non nasconde i rimandi al cinema di Terrence Malick, del quale lo stesso Sestieri (che è anche critico per la rivista di cinema online Point Blank), dopo la visione di The Tree of Life [id., 2011], scrisse: «Malick ci riporta all’età dell’innocenza, dall’origine del mondo alla fine dei tempi: è come vedere per la prima volta, è come tornare bambini.»3 I Racconti dell’Orso, anche se con modalità estetiche diverse dal cinema malickiano, tenta di fare la stessa cosa. Conservando una costante corrispondenza d’amorosi sguardi tra i protagonisti e lo spettatore, per riportare chi guarda all’età dell’innocenza, Amato e Sestieri ricorrono all’artificio tecnico delle dissolvenze incrociate: le inquadrature, in questo film-nel-viaggio, si sovrappongono magicamente.

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I Racconti dell’Orso diventa allora la mise-en-scène cinematografica di un sogno, di una percezione originaria che fa di questo mondo fantastico e onirico un pre-mondo, il preludio di un mondo che deve ancora formarsi. Da questo punto di vista, il film di Amato e Sestieri sembra ricollegarsi al Tempo del Sogno (o Dreamtime) dei racconti mitologici aborigeni australiani, nel cui recupero e promulgazione si è prodigata la scrittrice aborigeno-australiana Kath Walker (Oodgeroo Nunukul è il nome originario), che li ha raccolti nel libro Stradbroke Dreamtime (1972). Come scrive la studiosa Susan Petrilli, «Il «Tempo del Sogno» (Dreamtime o anche Dreaming secondo una delle accezioni di questo termine), coincide con l’inizio del mondo, il «Tempo della Creazione» («Creation Time») che vi fa da sinonimo come pure i termini «Altjeringa» o «Tjukurrpa» o «Palaneri» time. […] Il Tempo del Sogno o l’inizio del mondo è il tempo in cui la terra era abitata dagli antenati dello spirito (Spirit Ancestors) o i totem, o i Dreaming, i grandi archetipi dell’esistenza e autori del creato. […] È il tempo in cui gli antenati della creazione si destano dando forma e vita all’intero universo»4. Proprio ai confini di «un mondo in cui le cose erano finite»5, come afferma Sestieri, un pre-mondo immerso in un’era che anticipa la creazione del mondo reale – il Tempo del Sogno appunto -, vagano i due protagonisti de I Racconti dell’Orso: creature che nella loro indeterminatezza ricordano quelle del progetto fotografico di Aleksei Kazantsev Light Forms Grey Forms Dark Forms (1975).

Per quanto possa apparire paradossale per un film che cerca di tornare al grado zero del linguaggio e dell’immagine, I Racconti dell’Orso dà vita a una vera e propria trama di associazioni: i territori nordici rievocano, oltre che il film d’animazione Il riccio nella nebbia [Ёжик в тумане, 1975] di Norstein, il film tedesco Scapes and elements [id., 2011] del regista Manfred Neuwirth, mentre nel loro forsennato nomadismo e nel loro aspetto di creature leggendarie, i due protagonisti di I Racconti dell’Orso sembrano usciti da Le Vie dei Canti (1987) di Bruce Chatwin.

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Sopra: un fotogramma de I Racconti dell’Orso.Sotto: un fotogramma di Scapes and Elements.

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Sopra: un fotogramma de I Racconti dell’Orso.Sotto: un fotogramma di Scapes and Elements.

A proposito de Le Vie dei Canti, può essere utile riportare un estratto dalle prime pagine del romanzo di Chatwin:

«[…] Fu in quel periodo che Arkady sentì parlare del dedalo di sentieri invisibili che coprono tutta l’Australia, e che gli europei chiamano «Piste del Sogno» o «Vie dei Canti» […] I miti aborigeni sulla creazione narrano di leggendarie creature totemiche che nel Tempo del Sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce, pozzi -, e col loro canto avevano fatto esistere il mondo.»6.

Proprio la musica e i suoni (ricostruiti in post-produzione) costituiscono un aspetto fondamentale del film di Amato e Sestieri. Il viaggio dei due protagonisti de I Racconti dell’Orso, che è intrapreso anche attraverso il bosco – luogo che per l’antropologo tedesco Hans Peter Duerr era rappresentativo del Dreamtime –, è sonorizzato da un linguaggio pre-verbale (a cura dell’attrice e cantante Virginia Quaranta), composto prevalentemente da suoni indecifrabili e onomatopee: di nuovo, si tratta di mettere in scena un pre-mondo avulso da determinazioni linguistiche.

La già citata influenza del cinema d’animazione di Norstein, cui s’accompagna anche quello di Hayao Miyazaky, Isao Takahata e del collega russo Fyodor S. Khitruk – la presenza dell’orso e le ambientazioni bucoliche ricollegano I Racconti dell’Orso direttamente a Toptyzhka [Топтыжка, 1964] – continua a riproporsi nel corso del film; in particolare, sono evidenti i rimandi a Il riccio nella nebbia, il cui tema centrale, secondo lo studioso di cinema d’animazione Giannalberto Bendazzi, è quello «dell’immaginazione come approccio alla vita».

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Sopra: un fotogrammo tratto da Toptyzhka.Al centro: un frame de I Racconti dell’Orso.Sotto: un fotogramma tratto da Tale of Tales.

Oltre che per le atmosfere lattiginose, il legame con questo cortometraggio norsteiniano sussiste grazie alla condivisione del nodale tema – tra gli ubi consistam del film italiano – della relazionalità e della famiglia, simboleggiate in entrambe le opere dalla figura dell’orso. Nella tradizione, quest’ultimo rappresenta l’emblema dell’affettività, del rapporto materno-filiale, ma anche del padre, del fratello, dell’amico: se la presenza dell’orso in Norstein allude alla sicurezza del grembo materno, ne I Racconti dell’Orso il peluche ritrovato dai due protagonisti rappresenta una sorta di “figlio” che funge da collante e garante della solidità del neonato nucleo familiare, e che rimanda al rapporto d’amicizia tra i due autori, da cui, si spera, nasceranno altre altre avventure, altri sogni – altri film.

 

NOTE

1. https://www.youtube.com/watch?v=Yty8niA3f8Q.

2. Ansel Adams, The Wilderness Society, 9 maggio 1980. 

3. Samuele Sestieri, http://schermobianco.blogspot.it/2011/05/prime-impressioni-di-post-visione-su.html.

4. Susan Petrilli, http://www.susanpetrilli.com/files/Mondo.pdf.

5. https://www.youtube.com/watch?v=Yty8niA3f8Q.

6. Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti, Adelphi, Milano, 1988, p.2.