Ascolta il podcast su:
– Spotify
In questo episodio parlo di Unpacking [Witch Beam, 2021], puzzle game ‘zen’ incentrato sull’atto del traslocare. In una serie di quadri (o livelli), nel gioco ci si trova alle prese con abitazioni più o meno spoglie, delle scatole accatastate in qualche stanza, e con pazienza si deve procedere ad aprire, svuotare e sistemare una miriade di oggetti in cassetti, scaffali, sui mobili, sotto i mobili, negli armadi, armadietti, comodini e chi più ne ha più ne metta.
Come puzzle game, Unpacking non è particolarmente sfidante: gli oggetti non possono essere messi ovunque – non si può per esempio mettere un computer fisso sul letto, se non come appoggio momentaneo mentre si sgombera uno studio: una volta svuotate le scatole, gli oggetti fuori posto vengono evidenziati in rosso e si devono mettere in un luogo a loro consono. A eccezion fatta di questa restrizione, che comunque non diventa mai un problema esercitando un minimo di buonsenso, la partita procede senza intoppi: per design, Unpacking si presenta più come un videogioco rilassante che come un rompicapo.
Una stanza da arredare in Unpacking, prima e dopo.
Sono gli aspetti narrativi e interazionali del gioco a essere particolarmente affascinanti. Tra un trasloco e l’altro, si racconta a ben vedere la storia di un personaggio: tutti i livelli del gioco sono traslochi che, in periodi della vita diversi, la protagonista si è trovata ad affrontare per vari motivi. E qua c’è il primo dato interessante del gioco: a livello narrativo, Unpacking si basa tutto sugli oggetti e sul potenziale narrativo di cui questi si caricano. Il racconto è in altre parole implicito, se non per delle brevissime frasi di commento che la protagonista scrive sul suo album, che visualizziamo a livelli compiuti. Sta a chi gioca, per esempio, capire il motivo per cui si è passati da un’abitazione all’altra, o capire con chi stia convivendo e se stia convivendo la nostra protagonista, e seguire poi quei fili a malapena tangibili che legano gli oggetti, o che da un trasloco all’altro gli oggetti si portano dietro, cambiando o deteriorandosi, o a volte venendo sostituiti. L’uso di elementi narrativo-evocativi1 e la marcata implicitazione del senso in Unpacking creano un flusso in cui arredare casa diventa anche un modo per esplorare la vita di chi la abita, nonché la vita degli oggetti che la arredano – elementi vicini al genere investigativo, in cui al centro dell’indagine c’è l’identità della protagonista.
Un momento mi ha particolarmente sorpreso da questo punto di vista. Da una abitazione in cui la protagonista si trasferisce con tutta probabilità convivendo con una persona ci si ritrova di nuovo in casa dei genitori. Alla fine del livello in cui si riarreda la cameretta in cui si è stati da bambini e altre stanze, come di consueto si trovano evidenziati in rosso i pochi oggetti che si sono messi in posti in cui non avremmo dovuto. Tra questi, ho trovato una fotografia che ritraeva due persone (non meglio riconoscibili nella pixel art del gioco), che nell’abitazione precedente durante la convivenza avevo appeso al frigorifero. Qua, senza pensarci troppo, avevo invece appeso la foto insieme ad altre fotografie a una lavagnetta posta sopra il letto. Tra tutte le foto, proprio quella era evidenziata in rosso. Per completare il livello ho dovuto toglierla dalla lavagnetta e metterla all’interno di un cassetto, lontano da sguardi indiscreti. Il gioco ha quindi associato a un oggetto specifico, una fotografia di coppia, uno specifico valore emotivo. E vista la fine della relazione, motivo per cui la protagonista è tornata a casa sua, a quello specifico valore emotivo ha associato una collocazione per l’oggetto: non più la lavagnetta, la scrivania, o il comodino, ma un cassetto. Grazie a una meccanica semplicissima, non soltanto Unpacking racconta della fine di una relazione, ma anche di emozioni complesse – come forse quella che spinge la protagonista a tenere la foto in un cassetto e non a cestinarla, per esempio.
La fotografia con l’ex, evidenziata in rosso se posizionata in bella vista sulla lavagnetta.
Non solo in Unpacking si ricostruiscono eventi della vita della protagonista attraverso degli oggetti e l’atto del traslocare. Nel gioco si lavora anche alla costruzione di una identità virtuale tramite la disposizione di oggetti e memento in uno spazio abitabile. Si costruiscono in altre parole itinerari di memory-cuing composti di feticci, o memory tokens, o appunto memento.2 È anche attraverso le abitazioni, e in questo caso attraverso ciò che l’abitazione di uno spazio implica, che arriviamo a costruire identità virtuali. Parlando di oggetti, quando abitiamo uno spazio tendiamo a costellarlo di memento che leghiamo a specifici frammenti della nostra esperienza. In alternativa, anche quando non leghiamo oggetti a momenti precisi, li disponiamo in un modo che rispecchino i nostri interessi, le nostre abitudini o attitudini, e così via. L’arredamento di uno spazio abitato è funzione tanto della nostra memoria episodica, quando creiamo memento, quanto di quella procedurale, quando certi modi o pattern comportamentali determinano il modo in cui ci ‘rispecchiamo’ negli spazi in cui viviamo. In questo senso, arredare una casa (reale o meno) significa sempre fare identity design tramite la disposizione di oggetti, ovvero creare un luogo sulla base di ciò che siamo e che vogliamo essere.
Nei mondi virtuali si intrecciano almeno due livelli diversi di identity design: identity design reale, quando per esempio distribuiamo oggetti così come lo faremmo nella vita vera; e identity design finzionale, quando distribuiamo oggetti ‘come-se’ a distribuirli fosse il nostro personaggio. L’identità virtuale nasce dallo scambio dinamico tra questi due processi. In Unpacking, arredare una casa è entrambe le cose: è capire la storia della protagonista, le sue inclinazioni, le sue passioni, le sue attitudini – al tempo stesso è osservare le nostre. Se non ci fosse stato alcun retroscena narrativo, probabilmente avremmo arredato così come arrediamo le nostre case senza porci alcun problema. Ma il fatto che nel gioco “non siamo soli”, ma stiamo arredando nei panni di qualcuno con una propria storia, dei propri gusti e così via, fa sì che il trasloco diventi costantemente oggetto di riflessione. Non posizioniamo oggetti sulla base delle sole nostre abitudini reali, non solo: ci troviamo costantemente a mediare, negoziare tra le nostre inclinazioni reali e le esigenze di un personaggio di finzione. Emerge da questa azione reiterata all’infinito quella duplicità (reale/finzionale) del virtuale, che è sì insita in ogni videogioco, ma che raramente diventa esplicita come in questo caso. In Unpacking è impossibile distribuire oggetti senza riflettere sul modo che abbiamo di distribuirli, e allo stesso tempo sulla relazione tra traslochi reali e quelli finzionali. Mentre giochiamo siamo al contempo dentro e fuori il mondo di gioco, tra due mondi, e scegliamo come arredare uno spazio di vita in base a quelli che abbiamo abitato, visto abitare, e pensiamo che la protagonista voglia abitare. Non è frequente trovare meccaniche di gioco che invitino così tanto alla riflessione e auto-riflessione.
Giocando, non è infrequente trovarsi a riflettere sul perché si decida (nel mondo reale) di posizionare certi oggetti in alcuni luoghi e non in altri, o chiedersi come si sarebbero disposti nei panni di altre persone (cosa che il gioco ti propone di per sé di fare). Si crea un gioco continuo di proiezione, immedesimazione e autocritica che è tutto giocato sull’interazione, mentre gli altri elementi sono ridotti al minimo. È attraverso questa interazione, e di riflesso questa convergenza tra reale e finzionale, che vengono filtrate le principali svolte narrative del titolo: la protagonista cresce, supera le difficoltà, trova una sua dimensione, e nel frattempo gli spazi abitativi si allargano e restringono, la vita cambia e così via. Giocare e arredare diventa anche adattarsi a vari luoghi, nonché riflettere sui traslochi che abbiamo affrontato anche nel mondo reale, sugli oggetti che abbiamo scelto di portarci dietro oppure no, e sulle volte che abbiamo dovuto adattare e riadattare i nostri spazi vitali, oltre che su vari altri argomenti. Se videogiocare significa sondare il margine instabile e poroso tra realtà e finzione, è proprio su questo margine che Unpacking costruisce, o meglio dire arreda, un intero mondo di gioco.
NOTE
1. M. Nitsche, Video Game Spaces. Image, Play, and Structure in 3D Game Worlds, Cambridge: The MIT Press, 2008.
2. Ne ho scritto in S. Caselli, Subterranean Homesick Players. Abitare spazi digitali, costruire identità digitali, Lo Specchio Scuro, 2020. Per una panoramica sul concetto di memory cuing, vedi A. Zijlema, E. van den Hoven, B. Eggen, B. A Qualitative Exploration of Memory Cuing by Personal Items in the Home, Memory Studies, 12(4), 2017, pp. 1-21.