Se concetti come “spazio” e “abitazione” sono complessi e sfumati nelle immagini cinematografiche,1 è possibile trovargli un corrispettivo piuttosto immediato in ambito videoludico. Più che allo spettatore, al giocatore è consentito infatti di avere un rapporto diretto con uno spazio, ora esplorabile e ora abitabile. Sia esso bidimensionale, tridimensionale o ibrido, completamente separato da quello reale oppure a esso sovrascritto, lo spazio digitale è primario nell’esperienza dei mondi virtuali – tanto che essi vengono spesso definiti e analizzati in base a coordinate topografiche, e in virtù della loro spazialità. Quelli videoludici sono mondi dell’esperienza in cui “mondo” è anche e soprattutto inteso come luogo conoscibile (il locus mundus latino era un “luogo chiaro, definito”, cioè conosciuto e limitato – la Terra). Riflettere su cosa significhi abitarli, o poterli abitare, è allora necessario prima di considerare a fondo le implicazioni psicologiche, fenomenologiche o esistenziali delle nostre identità digitali.
Abitazione o esplorazione: due modi di vivere lo spazio digitale
In “There’s No Place Like Home”2 Daniel Vella recupera dal punto di vista videoludico la distinzione tra due modalità di abitazione dello spazio già considerate in precedenza da Edward S. Casey3 nel suo approccio fenomenologico all’idea di luogo.
Un’abitazione ermetica (da Ermes, messaggero del pantheon greco), cioè priva di un centro strutturale fisso, «dinamica», «aperta» e in continuo sviluppo secondo linee divergenti, corrisponderebbe all’abitazione mobile dello spazio, cioè nomadica, non stazionaria, propria di chi si muove in assenza di una casa. Un’abitazione estiale (da Estia, dea greca del focolare domestico) sarebbe invece contraddistinta da linee di movimento centripete, indicanti un medesimo centro da cui allontanarsi e a cui fare ritorno, fisso, regolarizzato a livello spaziale e protratto a livello temporale per un intervallo relativamente esteso. A queste diverse modalità di abitazione dello spazio possiamo associare due diversi modi di essere-al-mondo, cioè “essere-a-casa” ed “essere-non-a-casa”. Suddetti modi d’essere, oltre ad avere numerose implicazioni a livello antropologico, esistenziale e fenomenologico, sono alla base delle più note narrazioni fondanti della cultura occidentale (e non): basti pensare a racconti archetipici come il nostos greco, o più in esteso al monomito – entrambi basati sull’idea di un ritorno a un luogo d’origine, cioè al passaggio o al ritorno da uno spazio sconosciuto, non mappato e alieno a uno conosciuto, mappato e domestico. Casa e non-casa, in quanto concetti di abitabilità e conoscibilità che legano io e mondo, a loro volta si co-definiscono: esiste un focolare domestico solo in rapporto a qualcosa di esterno, e viceversa, ed entrambi in relazione a un soggetto che agisce come principio ordinante.4
Comunemente al videogioco viene associata un’idea di abitazione ermetica: si pensi all’archetipo per eccellenza di Super Mario, che soccorre una principessa in difficoltà attraversando numerose ambientazioni e oltrepassando diversi pericoli, di volta in volta aggiungendo tappe anche impreviste a un percorso sempre più tortuoso e teso verso una meta finale.
In Super Mario Bros. [Nintendo, 1985] il viaggio del protagonista (e del giocatore) si allunga proprio quando sembra in procinto di concludersi. L’idea del videogioco come spazio da scoprire, ricco di sfide e pericoli, trova in esempi così iconici un raffronto abbastanza evidente.
Si è soliti pensare a mondi videoludici come ambienti da esplorare, scoprire, eventualmente mappare, e la metafora dell’utente come pioniere di un mondo sconosciuto è sottesa a numerose riflessioni classiche sul videoludico. A livello narrativo, abitazione ermetica ed estiale si co-definiscono anche in Super Mario Bros., dove a un generico “fuori”, cioè lo spazio dell’avventura e del viaggio, si contrappone un ideale “dentro”, cioè il castello della principessa dove questa andrà riportata (e dove si suppone che lo stesso Mario tornerà a viaggio compiuto).
Titoli come Royal Bounty HD [iosoftware, 2015] rendono evidente il passaggio da spazio sconosciuto (non mappato) a conosciuto (mappato) utilizzando la “nebbia di guerra” (espressione presa in prestito dai videogiochi strategici). Anche in questi casi, l’utente è pioniere di un mondo estraneo e potenzialmente ostile, inizialmente avvolto nell’oscurità: la parabola è di nuovo quella del viaggio di esplorazione.
Sulla scia della metafora “esplorativa” dello spazio videoludico, numerose mappe di videogiochi d’avventura rappresentano il progresso del giocatore come suddiviso in tappe che conducono a una direzione finale.
Per una concretizzazione di questo “dentro” nel flusso di gioco si dovranno però aspettare episodi avanzati della serie – tra questi, il recente Super Mario Odyssey [Nintendo EPD, 2017] in particolare offre al giocatore la possibilità di abitare lo spazio mobile dell’astronave che i protagonisti utilizzano per spostarsi tra i vari mondi.
Qualche caratteristica delle abitazioni videoludiche
Cosa significa però abitare uno spazio in senso estiale in un videogioco? Videogiochi d’avventura come Super Mario Odyssey interpretano il focolare domestico anzitutto come luogo di (più o meno) momentanea sottrazione dal flusso di gioco principale. All’interno della Odyssey, per esempio, non si viene minacciati da alcun nemico; non si devono raccogliere oggetti utili alla progressione dell’avventura; non si devono cercare particolari segreti; non si devono raggiungere sezioni successive sbloccando porte chiuse o sconfiggendo boss. È cioè uno spazio di quiete in cui il protagonista ha modo di “prendersi una pausa”, astratto e riparato dal mondo esterno. Analogamente, dimore di videogiochi di ruolo come quelle acquistabili in The Elder Scrolls V: Skyrim [Bethesda Game Studios, 2011] o Fallout 4 [Bethesda Game Studios, 2015], in titoli d’avventura di ampio respiro come The Legend of Zelda: Breath of the Wild [Nintendo EPD, 2017], o in mondi multi-giocatore online come Final Fantasy XIV Online: Heavensward [Square Enix, 2015] hanno la doppia funzione di estrarre momentaneamente l’utente dal flusso di gioco primario, di proteggerlo e di separarlo dalle minacce esterne, e di fissare per lui un punto d’origine (“origo”, in senso esistenziale – vedi Norberg-Schulz 1985 in Vella 2019) nella routine ludica. Proprio per questo motivo, un’abitazione digitale sarà tendenzialmente un luogo sicuro e conosciuto (già mappato, o più spesso privo di una mappa): una bolla a cui tornare per depositare acquisti, oggetti, tesori, trofei e via discorrendo.
In Super Mario Odyssey l’utente ha modo di sostare nel mezzo di trasporto che gli consente di raggiungere i vari livelli del gioco, la Odyssey, che di volta in volta può arricchirsi di trofei, souvenir o tesori presi dai luoghi esplorati. In questo modo, al sicuro e lontano da qualsiasi ostilità, può prendersi una pausa e rimirare la mole di risultati ottenuti (mentre il suo avatar si rilassa comodamente sulla poltrona).
Titoli come Fallout 4 oppongono a un mondo di gioco ricco di pericoli, in cui lottare per sopravvivere, la possibilità di crearsi uno spazio domestico in cui gestire risorse, improvvisarsi designer d’interni e ospitare una piccola comunità di sopravvissuti. Anche in questo caso, la variabilità di oggetti con cui personalizzare la propria dimora deriva da materiali reperibili nel mondo esterno.
Questo ci porta a un’altra delle caratteristiche indispensabili per una dimora, in senso lato e qui specificamente videoludico: il focolare domestico è arredato, disposto e plasmato in base alle esigenze e alla personalità di chi lo abita. Come le abitazioni reali, quelle digitali sono «culle del sé» attraverso cui «gli individui tentano di auto-rappresentarsi», puntellate di oggetti ora utili e ora carichi di valore emotivo, o legati a particolari ricordi. Non è un caso che in ogni esempio succitato venga lasciata all’utente la possibilità di modificare, personalizzare, arredare o gestire più o meno capillarmente lo spazio abitabile – una libertà che trova massima espressione in giochi simulativi come quelli della serie The Sims [Maxis, Electronic Arts, 2000-2017], in cui l’azione ruota tutta attorno alla casa di uno o più personaggi (al giocatore non è concesso infatti di esplorare né di vedere ciò che i suoi sims fanno al di fuori della loro abitazione); oppure della serie Animal Crossing [Nintendo EPD, Nintendo EAD, 2001-2020], in cui l’utente viene chiamato a costruirsi una propria casa e a gestire la vita di una piccola comunità sempre più modificabile a proprio piacimento.
Alla base del successo di The Sims c’è proprio la possibilità per l’utente di creare un mondo abitabile che, in un modo o nell’altro, lo rispecchi: «sbriglia la tua immaginazione e crea un mondo di Sims che esprimano la tua personalità!» si legge per esempio nel sito internet ufficiale del quarto capitolo della serie.
La creazione e condivisione di abitazioni finemente è uno degli elementi integranti della serie Animal Crossing. Qui, la costruzione di un’abitazione che rispecchi i gusti del giocatore (o i gusti del suo avatar, come vedremo in seguito) è una delle principali attività del gioco.
Una relazione ibrida tra modalità di abitazione dello spazio, in cui alla modalità estiale e quella ermetica corrispondono possibilità ludiche analoghe, è forse rappresentata dal caso di Minecraft [Mojang, 2009], preso in considerazione anche da Vella: qua l’utente è libero di costruirsi una propria abitazione e di gestirla di conseguenza, o in alternativa di darsi al nomadismo alla strenua ricerca di risorse utili – che un luogo diventi abitabile e “specchi” o meno della soggettività dell’utente è quindi a sua discrezione: nel momento in cui deciderà di stanziarsi, costruirsi quindi un luogo a cui fare ritorno (e in cui il personaggio si risveglierà ogni volta che muore), farà esperienza diretta del transito da ermetico a estiale, con eventuali inversioni di rotta annesse.5
In Minecraft la costruzione di uno spazio abitabile è tra le tante attività consentite dal gioco: non esistono obbiettivi specifici né interfacce finalizzate alla costruzione di abitazioni, ma la possibilità stessa di utilizzare i blocchi del gioco per dare forma a un rifugio o a una casa che rispecchi i propri gusti è sufficiente per veder proliferare, in spazi dedicati alla condivisione o al multigiocatore, abitazioni di varia forma e dimensione.
Dasein, identità e cyborg
In quanto processo d’auto-determinazione e auto-rappresentazione, la personalizzazione l’ambiente domestico è di primaria importanza per costruire un’identità digitale: alla stregua della scelta del vestiario del proprio avatar, o del suo stesso aspetto estetico, optare per una certa distribuzione delle stanze o spostare un determinato elemento d’arredo sono modalità di espressione del sé nel mondo digitale. In quanto tecnologicamente e diegeticamente mediate, tali identità sono da considerarsi ibride e non prive di limitazioni: su tutte, ricordiamo in particolare che l’identità digitale di un utente non sarà mai del tutto scissa e indipendente da quella del suo avatar, e viceversa. Non c’è da stupirsi se un ipotetico “tour” all’interno delle varie abitazioni digitali ci pone dinnanzi a collage disordinati, spesso frutto di contaminazioni tra più realtà differenti – visitando una casa digitale ci si imbatte in egual misura in elementi che celebrano, ricordano, oppure omaggiano alternativamente la vita, i trascorsi o le preferenze (reali) dell’utente oppure le gesta, il passato o le caratteristiche (finzionali) dell’avatar. L’identità digitale è un amalgama dinamico dell’identità del giocatore e del suo personaggio, in cui «tra il virtuale e l’umano [c’è] una relazione di co-costituzione»6 che impedisce di scindere l’uno da l’altro. Oltre a questo legame troviamo altre “costrizioni” dell’identità digitale tra i suoi limiti tecnologici, tra le scelte degli sviluppatori, le possibilità che gli sono concesse dal sistema di gioco, dal genere del gioco, dalle sue regole e così via. Se la «condizione basilare dell’umanità è l’abitazione»7 in quanto attuazione privilegiata dell’essere-nel-mondo (il Dasein heideggeriano), lo spazio digitale abitato è “condizione basilare di un’identità digitale”, e quindi “attuazione privilegiata dell’essere-nel-mondo-digitale”.8
Ogni abitazione digitale passata attraverso un processo più o meno raffinato di personalizzazione può fare da specchio a un’identità strutturante e in cerca di nuove forme di auto-rappresentazione. Difficile dire poi se questa identità sia quella reale di chi gioca, quella finzionale del suo personaggio. Più verosimilmente, è un’identità ibrida che nasce dal rapporto dinamico tra le due, e tra numerose altre mediazioni identitarie in atto nel mondo digitale in questione. Nell’immagine: The Sims 3 [Maxis, 2009].
In quanto processi e artefatti, cioè mondi dell’esperienza e anche esperienze estetiche, i videogiochi consentono a chi ne fa uso al contempo di agire (come personaggio interno al mondo) e interpretare le proprie azioni (in quanto giocatore, esterno), adottando una doppia prospettiva fenomenologica (Vella ne scrive in termini di soggettività digitale).9 Così la semplificazione ludica ed estetica di un Animal Crossing diventa occasione per riflettere, da giocatori, su cosa significhi abitare un luogo – e allo stesso tempo su cosa significhi giocare, attraverso e dentro quel luogo, con una maschera: cioè far diventare fluida la propria identità all’interno di un campo d’azione delimitato. Ecco che passando in rassegna gli arredamenti di un’abitazione digitale e cercando di ricondurli a una stessa identità, che tenta di auto-narrarsi o auto-rappresentarsi con gli strumenti che il mondo di gioco mette a sua disposizione, ci si trova a compiere un giro attorno a un cyborg harawaiano: «una creatura cibernetica ibrida tra macchina e organismo, un essere dotato di realtà sociale e al tempo stesso una creatura di finzione […]»;10 significativamente, un’entità digitale che è estensione di una reale, corporea e al di qua dello schermo: «siamo tutti chimere, ibridi di macchine e corpi, pensati e fabbricati. Il cyborg è la nostra ontologia […] è un’immagine condensata di immaginazione e realtà materica […]».11 La complessità “identitaria” di una dimora digitale va oltre le possibilità di ricondurre singole caratteristiche o componenti a un suo aspetto piuttosto che a un altro: è impossibile capire quale tra le molteplici facce di un simile “prisma identitario” stia venendo specchiata da un determinato oggetto d’arredamento (o disposizione, o colore, o altro).
Spazi digitali e identità digitali che vi abitano e vi si rispecchiano: quello del digitale è il dominio del cyborg. Nell’immagine: Final Fantasy XIV [Square Enix, 2013].
Riconoscendo le nostre identità digitali come cyborg, di riflesso possiamo renderci conto della trasformazione che hanno subito anche le nostre abitazioni, quelle reali. Come le controparti reali, gli spazi digitali rispondono a esigenze sociali e a istanze mediali, nonché a quelle delle più disparate narrazioni del sé: sono costellati di ricordi che provengono da realtà astanti e spesso incommensurabili, riunite da un filo rosso sempre più stratificato e complesso. Non solo ricordi di esperienze reali, mediati da tecnologie e/o da filtri estetici, ma anche ricordi di esperienze di mondi finzionali, ora incastonati in un percorso dialettico di crescita soggettiva e ora in una struttura di auto-narrazione costruita ad hoc per rispecchiare la propria appartenenza a un gruppo, o partecipazione a un racconto.
Case-cristallo
Sul canale Meoni,12 un utente descrive l’abitazione costruita e finemente arredata per il suo gruppo su Final Fantasy XIV in uno dei vari home tour reperibili on-line e dedicati alle case del gioco. Mentre passa in rassegna gli oggetti e gli arredi, provando a spiegarne la funzione, oppure a motivarne la scelta, lo sentiamo creare delle narrazioni che ibridano vari piani di realtà: frasi che mettono in campo il mondo esterno al gioco, come:
«[Ho messo una sedia davanti all’acquario,] così posso ammirarlo nel dettaglio […]. Come immaginerete amo i pesci, ho dei pesci anche nella vita reale, quindi questo oggetto per me è abbastanza speciale»; «amo i bar che ti consentono di sdraiarti e stendere i piedi davanti a un caminetto come questo. I bar erano così nel Regno Unito prima che diventassero incredibilmente cari e ridicoli»;
«Come immaginerete amo i pesci, ho dei pesci anche nella vita reale, quindi questo oggetto per me è abbastanza speciale».
motivazioni che potremmo definire “diegetiche”, o comunque interne al mondo digitale e coerenti con esso, come:
«abbiamo qua un […] mio caro amico, possiamo fargli un inchino, lui ci aiuta a mantenere il luogo sicuro, è il capo della sicurezza qui»; «Questa è la stanza delle sedie, è dove teniamo una sedia per ogni membro, più alcune per il futuro. […] è un posto in cui le persone possono incontrarsi e parlare, e se sei uno del gruppo puoi pure sederti»; o ancora «benvenuti in quella che io chiamo la stanza grigia […] che è essenzialmente una biblioteca con scaffali pieni di libri dove ci si può fermare un po’ e leggere e imparare qualcosa […] e qua abbiamo un altro camino e delle poltrone, perché in questo videogioco non ci sono mai abbastanza posti dove rilassarsi e prendersi una pausa»;
«Abbiamo qua un […] mio caro amico, possiamo fargli un inchino, lui ci aiuta a mantenere il luogo sicuro, è il capo della sicurezza qui».
oltre che un gran numero di asserzioni ibride, cioè tanto esterne al mondo reale quanto al mondo digitale, e che si basano su particolari abusi del codice del gioco, come:
«di questo vado particolarmente fiero. È essenzialmente un solaio glitchato [per glitch in ambito videoludico si intende un comportamento anomalo e imprevisto del software, spesso derivante da un errore di programmazione, ndt.] che abbiamo attaccato alle scale. […] Metterlo qua è stato molto più difficile di quanto non sembri […] qua abbiamo messo delle piante per nascondere le mie rifiniture, ma ci è voluto parecchio tempo per mettere insieme le partizioni e i soppalchi coi glitch, cosa abbastanza divertente ma molto difficile da spiegare»; «questo è il glitch che ti permette di mettere le cose sulle scale, devo fare un video per spiegare come prima o poi…».
Tra le altre, curiose poi le affermazioni che riconducono a un mondo diverso da tutti i precedenti, cioè quello della condivisione (anch’essa ibrida) dell’esperienza di personalizzazione della dimora con altri utenti o con degli spettatori su youtube:
«Qua abbiamo il tè e i biscotti, qualche scartoffia, un camino acceso […] è una zona calda e confortevole e sì, probabilmente starò seduto qua per registrare i miei video natalizi».
«Probabilmente starò seduto qua per registrare i miei video natalizi».
Anche da questo esempio è evidente che la costruzione di un ambiente digitale abitabile punti alla (e sia fatta in prospettiva della) nascita di varie narrazioni del sé, facenti riferimento di volta in volta a campi dell’esperienza differenti. Sembra che gli utenti, nel loro diventare arredatori e designer d’interni improvvisati, siano diventati autori di immagini-cristallo in senso deleuziano.
Nella casa digitale, verrebbe da dire, «c’è uno scambio continuo tra il virtuale e l’attuale, [che] coesistono ed entrano in uno stretto circuito che [chi guarda] ripercorre di continuo, dall’uno all’altro capo».13 Queste auto-rappresentazioni, analogamente alle immagini-cristallo di cui scrive Deleuze, esistono come auto-rappresentazioni a partire da una pluralità apparentemente indistinguibile di fattori e realtà differenti. L’immagine-cristallo è doppia per natura, e al suo interno reale e immaginario sono indistinguibili come presente e passato.14 Chiedersi a chi appartenga un certo ricordo, o chi rappresenti una certa scelta estetica in un’abitazione digitale, è controproducente anche per questo. Le abitazioni digitali, come le immagini riflesse di Orson Welles o di Andrej Tarkovskij, sono dei «passati contemporanei al presente»15 in cui auto-rappresentazioni riescono a riferirsi a un sé digitale che esiste nel momento in cui vi si riflette, e vi si riflette per esistere.
Per capire fino in fondo se l’interpretazione delle immagini di Deleuze possa essere applicabile a quelle videoludiche dovremmo entrare nello specifico del rapporto tra videogioco e tempo, e quindi rintracciare la distinzione deleuziana attuale/virtuale (presente/passato) nel funzionamento dei mondi digitali. Per il momento, ci basti aver rintracciato un’analogia curiosa tra la creazione di un’immagine-cristallo cinematografica e la creazione di un’ipotetica “immagine-cristallo videoludica”: analogia che, significativamente rispetto alle premesse dell’articolo, passa proprio per il concetto di abitabilità dello di spazio digitale.
Nell’immagine cristallo due azioni si inseguono «senza posa, correndo l’una dietro all’altra e rinviando l’una all’altra attorno [alla] coalescenza tra immagine attuale e immagine virtuale, l’immagine a due facce, attuale e virtuale insieme. […] L’immagine ottica attuale si cristallizza con la propria immagine virtuale […]. [L’immagine-cristallo] non sopprime la distinzione delle due facce, ma la rende indefinibile, poiché ogni faccia assume il ruolo dell’altra, in una relazione che si può definire di presupposizione reciproca, o di reversibilità»16
Conclusione: abitare in un videogioco
Per concludere, le abitazioni videoludiche – come quelle reali – hanno varie caratteristiche definenti [tra cui la separatezza dal resto del mondo, il senso di protezione e sicurezza, la malleabilità e la possibilità di diventare momenti di una più ampia costruzione (e narrazione) di un’identità digitale] e ci aiutano a riflettere sulla trasformazione della nostra identità, che all’interno del gioco è indissolubilmente legata a un’infinità di altri fattori ed entità, ma che analogamente all’esterno dei mondi digitali risulta contaminata, sparpagliata (come i suoi ricordi e il suo passato) su una somma di realtà differenti. Riflettere sui cyborg digitali può aiutarci a capire come anche i nostri ricordi siano diffusi su più piani spazio-temporali, e come anche le nostre identità siano legate e contaminate da questi piani. Non ultimo, a “ibridare” la nostra identità potrebbe essere lo stesso videogioco in cui, da utenti, scopriamo che la nostra identità digitale è ibrida: e quella preziosa statuetta costruita dopo lunghe partite, a ben vedere, starebbe benissimo accanto al nostro divano.
NOTE.
1. Se ne potrebbe parlare nell’ottica, semplificata, di “esplorazione non-lineare dello spazio videoludico” vs. “descrizione lineare dello spazio cinematografico”, Nitsche, M. 2008. Video Game Spaces. Image, Play, and Structure in 3D Game Worlds, Cambridge: The MIT Press, 79).
2. Vella, D. 2019. There’s No Place Like Home. Dwelling and Being at Home in Digital Games, In Aarseth E., Günzel E. (eds.), Ludotopia. Spaces, Places, and Territories in Computer Games, Bielefeld: transcript Verlag, 141-166.
3. Casey, E. S. 1993. Getting Back Into Place: Toward a Renewed Understanding of the Place-world, Bloomington: Indiana University Press.
4. Vella 2019.
5. Ibid.
6. Boellstorff, T. 2008. Coming of age in Second Life: an anthropologist explores the virtually human. Princeton: Princeton University Press, 65.
7. Norberg-Schulz, C. (1985) The Concept of Dwelling: On the Way to Figurative Architecture, New York, NY: Rizzoli, 12.
8. Vella 2019.
9. Vella 2019. Vedi anche Vella, D., and Gualeni, S. 2018. Virtual Subjectivity: Existence and Projectuality in Virtual Worlds, Techne’: Research in Philosophy of Technology, 23(2); Vella, D., Gualeni, S., e Arjoranta, J. 2019. Processes of roling: mechanisms for adopting subjectivities in the gameworld. Proceedings of DiGRA 2019, Kyoto, Japan, 6-10 August, 2019; Gualeni, S., & Vella, D. 2020. Virtual Existentialism: Meaning and Subjectivity in Virtual Worlds. Basingstoke, UK: Palgrave Macmillan.
10. Haraway, D. 1991. Simians, Cyborgs and Women : The Reinvention of Nature, New York, NY: Routledge, 1991, 149-181.
11. Ibid., 149-150.
12. https://www.youtube.com/watch?v=76344wnk1P8.
13. Deleuze, G. e Parnet, C. 2002. The actual and the virtual. In: Dialogues II (trans. Albert, E.R.) New York: Columbia University Press, 150.
14. Cfr. Deleuze, G. 2017. L’immagine-tempo. Cinema 2, Torino: Einaudi.
15. Ibid.
16. Deleuze 2017, 82-83.