Gianfranco Rosi e Roberto Minervini sono due delle figure più importanti del cosiddetto «cinema del reale», ovvero di quel cinema che si distingue per il carattere «ibrido fra docu e fiction»1. Per spiegare e comprendere la compresenza di realtà e finzione nei lungometraggi dei due registi è necessario oltrepassare questa coppia oppositiva, cioè abbandonare un’idea di realismo ingenuo, caratterizzata da un’«utopia della trasparenza» tale per cui il cinema rappresenta la realtà così com’è, dato che «il dispositivo di ripresa non può mai catturare la vita come essa si sarebbe potuta svolgere se esso non vi avesse interferito»2. Per comprendere la complessità dei lungometraggi di Rosi e Minervini è utile prendere in considerazione il concetto di performatività, dove «la verità dell’immagine è da ricercare […] nella natura presente, processuale e contingente che l’immagine è in grado di esprimere»3, ossia nella relazione che si instaura fra due soggettività: quella dell’osservatore e quella dell’osservato, del regista e dell’individuo ripreso, ognuno dei quali contribuisce con il proprio «personale, soggettivo, mediato, individuale, parziale rapporto con la realtà»4.
Rosi e Minervini fondano i propri lungometraggi su un profondo coinvolgimento con le persone filmate: si inseriscono in comunità ristrette e partecipano alla loro vita quotidiana per mesi o anni, in modo da sviluppare un rapporto di intimità e fiducia con coloro che riprendono. I film di Rosi e Minervini testimoniano quindi la relazione venutasi a creare tra osservato e osservatore, che si esplica nell’auto rappresentazione di sé da parte della persona rappresentata e nella messa in forma dello sguardo di colui che rappresenta.
Come nota Simone Moraldi in un libro sul cinema documentario italiano degli ultimi anni, «nel momento in cui una persona viene messa in una situazione di rappresentazione essa automaticamente elaborerà e restituirà un’auto rappresentazione di sé»5, selezionando le vicende del suo passato e i tratti del proprio carattere da esibire, creando così un racconto di se stesso. Questa dinamica talvolta sfocia nell’«istrionismo», ovvero in un «surplus performativo: ciò che il soggetto compie oltre a ciò che egli è»6, dunque l’individuo ripreso finisce col recitare un ruolo e col coincidere con un personaggio.
L’auto-ritratto è rintracciabile in particolare durante le lunghe interviste-confessioni in cui le persone filmate da Minervini e Rosi si raccontano davanti alla macchina da presa: ciò si verifica, ad esempio, in El Sicario – Room 164 (2010), in cui un ex-assassino della narcomafia messicana ripercorre la propria carriera criminale, ma si manifesta anche nelle lunghe riprese in cui gli osservati rievocano il proprio doloroso passato, come nel caso di Judy, una delle protagoniste di Che fare quando il mondo è in fiamme? [What You Gonna Do When the World’s on Fire?, 2018].
È interessante notare poi come sia Minervini che Rosi abbiano architettato delle strategie finalizzate a favorire l’esaltazione performativa dei soggetti ripresi, ad esempio collaborando con questi ultimi durante il processo creativo di realizzazione del film o allestendo delle situazioni in grado di provocare una loro reazione emotiva. È soprattutto Minervini ad aver sviluppato un metodo incentrato sulla co-creazione insieme ai soggetti ripresi, dato che questi ultimi decidono insieme al regista che cosa filmare, selezionando e ricreando degli stralci della loro vita davanti alla macchina da presa secondo il processo del
re-enactment. Ne è un esempio evidente la scena della ballerina spogliarellista in Louisiana – The Other Side [The Other Side, 2015], addirittura proposta al regista dal marito della donna. Anche Rosi, pur non avendo mai strettamente collaborato con i soggetti ripresi, non ha disdegnato, soprattutto recentemente, un forte uso di scene create a tavolino basate sulle esperienze pregresse degli individui filmati. Ne sono esempi evidenti, in Notturno (2020), la recita teatrale dei pazienti psichiatrici e il pianto delle madri all’interno dell’ex prigione in cui sono stati torturati e uccisi i loro figli. Un’altra strategia, descritta da Minervini come «restored behaviour, ripristino del comportamento»7 e da Rosi come «messa in scena della regia del documentario»8, consiste nello scavare nella vita delle persone riprese per conoscerne il passato, così da allestire delle situazioni in grado di sollecitarne il potenziale performativo. Minervini, ad esempio, in Ferma il tuo cuore in affanno [Stop the Pounding Heart, 2013] chiede a madre e figlia di ripetere una conversazione sulla promessa di purezza fatta a Dio quando la protagonista, ora diciottenne, aveva quattordici anni; in Louisiana, invece, convince Mark a incontrare sia il fratello che non vedeva da anni sia la madre affetta da cancro. Rosi pone invece ai soggetti filmati alcune domande finalizzate a ottenere determinate reazioni: ad esempio, in Sacro GRA (2013) il regista chiede a Cesare, pescatore di anguille, di leggere e commentare un articolo di Repubblica riguardante proprio il pesce che costituisce il suo sostentamento; mentre in Below Sea Level (2008), dopo aver saputo dell’ossessione di Mike per le mosche, si documenta su questo argomento in modo da orientare le parole di quest’ultimo.


Insomma, sia Minervini che Rosi non si limitano a catturare il modo in cui i soggetti dei loro film si auto rappresentano dinanzi alla macchina da presa, ma vi si relazionano, come in uno scambio reciproco. Non solo, entrambi i registi mettono in forma questi “auto-ritratti”, ad esempio tramite il montaggio. Esso «non è semplicemente il principio di organizzazione del racconto interno, […] ma la configurazione di uno spazio nuovo [in cui l’osservatore] fa i conti con la realtà che incontra»9. Ciò si verifica a partire dall’elaborazione del girato finale, che i due registi hanno dichiarato di visionare solo dopo aver terminato le riprese e di selezionarlo sulla base del medesimo criterio, descritto da Minervini come «memoria emotiva»10 e da Rosi nei termini di «selezione emotiva e mnemonica del materiale»11.
Terminata la selezione del materiale, i due autori creano racconti che procedono in senso paratattico, cioè per giustapposizione di frammenti narrativi costituiti dagli episodi della vita ricreati dalle stesse persone filmate, dalle interviste-confessioni in cui queste si raccontano e dai ritagli delle loro esistenze quotidiane. Tuttavia, i loro lungometraggi non si riducono alla somma di questi elementi ma diventano, grazie al lavoro di scrittura che avviene durante il montaggio, degli insiemi più ampi; e ciò si verifica ricomponendo creativamente questi frammenti in un’unità, sia disponendoli in un racconto, sia accostandoli gli uni agli altri in modo da aprire orizzonti di senso ulteriori.
Nel caso in cui la ricomposizione del materiale sia finalizzata alla creazione di un racconto, la progressione narrativa viene realizzata trasmettendo le informazioni relative ai singoli soggetti ripresi al fine di svelarne il passato (ad esempio le circostanze che hanno portato gli homeless di Below Sea Level a recarsi a Slab City e la storia traumatica di Judy in Che fare quando il mondo è in fiamme?) o di illustrarne la personalità e le abitudini (come i giochi di Samuele in Fuocoammare (2016) e l’uso di droga da parte di Mark in Louisiana). Oppure, delle piccole vicende vengono estrapolate e collocate all’interno del film sotto forma di leitmotiv, come succede, ad esempio, con la preparazione dei costumi di carnevale in Che fare quando il mondo è in fiamme? o la creazione della canzone di Mike in Below Sea Level.

La ricomposizione dei frammenti in unità viene raggiunta anche portandoli a colloquiare tra loro, cioè accostandoli grazie ai tratti comuni e, al contempo, giustapponendoli a partire dai loro contenuti divergenti. Ciò può riguardare gli spazi, come accade in Notturno, che accosta varie località geografiche del Medio Oriente accomunate dalla guerra; i personaggi, come si verifica in Sacro GRA, che presenta vari individui aventi estrazione sociale differente ma accomunati dal fatto di essere espressione del variegato milieu peri-urbano di Roma; le diverse modalità documentarie12, in particolare giustapponendo quella partecipativa all’osservativa, come accade in Fuocoammare, che separa l’immersione nelle vite degli abitanti di Lampedusa alla testimonianza delle barche contenenti i cadaveri dei migranti, oppure in Lousiana, diviso fra il racconto dell’esistenza di Mark e il pedinamento del gruppo paramilitare; infine, l’aderenza a rappresentazioni stereotipate e sedimentate nell’immaginario collettivo, come archetipi narrativi e generi cinematografici. Questi ultimi si ritrovano, ad esempio, in The Passage (2011), che echeggia il road movie; nel sottoproletariato di Sacro GRA, i cui tratti macchiettistici ricordano la commedia all’italiana; oppure nel melodramma familiare a cui fa riferimento Ferma il tuo cuore in affanno, nel quale inoltre si racconta la vita di due adolescenti che incarnano tradizionali stereotipi del western: il cowboy e la devozione religiosa. Per quanto riguarda gli archetipi narrativi, invece, Louisiana presenta alcuni personaggi a partire da diversi luoghi comuni del Dixieland, descritta come terra di drop-out e di junkies (anche da importanti scrittori come Mark Twain, basti pensare a Huckleberry Finn), mentre gli homeless di Below Sea Level rievocano le opere di alcuni grandi autori della letteratura americana, come John Fante e Nelson Algren.

Per concludere, si può quindi affermare che la dicotomia tra realtà e finzione da cui si è partiti venga assorbita, nel cinema di Minervini e Rosi, dal concetto di performatività, secondo cui la verità del lungometraggio è posta nell’
hic et nunc dell’incontro fra osservatore ed osservato, mentre la componente finzionale è determinata dalle modalità con cui i soggetti si relazionano fra loro durante tale incontro, creando un rapporto di scambio continuo tra l’autorappresentazione dell’osservato e lo sguartdo dell’osservatore.

NOTE

1. C. Uva, V. Zagarrio, Gli scenari della contemporaneità, in C. Uva, V. Zagarrio (a cura di), Le storie del cinema. Dalle origini al digitale, Carocci, Roma, 2020, p. 42.

2. S. Bruzzi, New Documentary, Routledge, Abingdon/New York, 2006, p. 37, citato in S. Moraldi, Questioni di campo. La relazione osservatore/osservato nella forma documentaria, Bulzoni Editore, Roma, 2015, p. 69.

3. S. Moraldi, Questioni di campo, cit., p. 39.

4. Ivi, p. 45.

5. Ivi, p. 225.

6. Ivi, p. 174.

7. A. Stellino, P. Sardella, Giocare a carte scoperte, in “FilmIdee”, 22 giugno 2015, https://www.filmidee.it/2015/06/giocare-a-carte-scoperte/, (ultimo accesso maggio 2021)

8. P. Bianchi, I non-luoghi non esistono. Intervista a Gianfranco Rosi, in “Cineforum”, 529, 2013, pp. 22-23.

9. D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano-Udine, 2018, p. 23.

10. D. Zonta, L’invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema, Contrasto, Roma, 2017, p. 44.

11. Ivi, p. 24.

12. Si fa riferimento alla classificazione e descrizione delle modalità documentarie elaborata da Bill Nichols in Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano, 2006. La modalità osservativa consta nell’assenza di «commento fuori campo, senza musica aggiunta o effetti sonori, senza intertitoli ne’ ricostruzioni storiche» (p. 116), oltre al «modo particolare [del regista] di essere presente “sulla scena”, scegliendo di apparire come invisibile ed esterno agli eventi» (p. 118). Quella partecipativa è data dal fatto che l’autore «va sul campo, partecipa alla vita degli altri, acquista un sentimento concreto o intimo di come sia la vita in un dato contesto» (p. 122).