Reenactment e “crisi” del documentario

Se c’è oggi un’asserzione che uniforma la grande maggioranza di interventi volti ad affrontare l’attualità del documentario, è che tale forma cinematografica pare versare ormai da qualche tempo in uno stato di perdurante “crisi”. Una crisi avvertibile a livello formale, indagabile dunque attraverso l’interazione del registro documentario con quelli della fiction e dell’animazione; o tramite l’adozione di punti di vista, codici e linguaggi mutuati da altri media o dispositivi di visione, rimediati (e così risemantizzati) nel nuovo formato filmico. Ma tale crisi è anche di funzione, o meglio di statuto, e segna un deciso cambio di rotta nel modo d’essere del documentario.

Una crisi che può essere pensata come la tensione generata da due poli opposti. Da una parte, nella cornice di un rapporto con l’immagine proiettato dalla temperie postmoderna in un orizzonte perennemente problematico, la supposizione di essere entrati in un’era postdocumentaria1: là dove ogni proposito di conoscenza veritiera del mondo è destinato a rimanere frustrato, inevaso, in quanto rivolto alla restituzione di una realtà che risulta come diluita, fino alla completa solubilità, nella labirintica trama delle sue incisioni mediali. Dall’altra, agli antipodi, il convincimento che quelle che coinvolgono oggi il documentario non siano altro che manovre di adattamento, utili semmai per intraprendere un salutare percorso di rigenerazione. Il cui esito, tuttavia, non può che essere l’approdo a un’immagine a cui è ancora possibile dare credito: un’immagine che sappia confermarsi, anche dopo la sbornia postmoderna, come un impegno per il reale2.

Questa tensione fa vibrare in special modo le corde del reenactment. Modalità filmica ambigua, elusiva, allergica a ogni ortodossia definitoria. Un fenomeno che i film studies hanno spesso preso in esame con trascurata sufficienza (scambiandolo impropriamente, per esempio, con formule quali docudrama o docufiction), quando invece meriterebbe di essere considerato un banco di prova prioritario su cui testare lo stato di salute del documentario contemporaneo, di cui sembra peraltro costituire un punto limite. E non solo per l’evidente paradosso di documentare il trascorso, ciò che non c’è più: una missione impossibile, che gli consente però di ricorrere a quel potere fantasmatico che gli è stato attribuito3. Ma anche in virtù della vasta gamma di soluzioni, spesso sorprendenti, che esso oggi propone allo scopo di perseguire tale intento.

Pratica vecchia quanto il cinema, e dunque non certo orfana di precedenti, il reenactment esplode tuttavia, si può dire definitivamente, solo negli anni Ottanta del secolo scorso, quando film come Shoah [id., Claude Lanzmann, 1985] e La sottile linea blu [The Thin Blue Line, Errol Morris, 1988] si impongono come casi esemplari di quello che Linda Williams definisce il «postmodern approach»4 al documentario. Un approccio che – in breve – suggerisce di non conferire (più) al documentario la qualifica di uno strumento osservazionale, di uno scandaglio utile a ricercare una verità degli eventi che si è fatta sempre più opaca e imperscrutabile; valutandolo, piuttosto, come un dispositivo performativo che consente di cogliere la natura circoscritta, contingente e instabile di tale verità5. Una verità che dunque, in contrasto con ogni intransigenza realista, non si manifesta in modo unitario e coerente (quasi fosse il “riflesso in uno specchio”, secondo la metafora decostruita proprio da Williams)6; ma, immaginando che quello specchio sia da tempo andato in frantumi, che si può approssimare solo attraverso uno sforzo di ricomposizione dei suoi parziali e molteplici frammenti7. Senza timore inoltre di miscelare, in differente misura, realtà e artificio, pratica documentaria e ricostruzione finzionale: anzi, impiegando la seconda per corroborare l’indagine sulla prima.

Intervistato da Claude Lanzmann, Abraham Bomba, barbiere ebreo polacco, ripete la stessa azione di cui era stato incaricato dopo la sua la deportazione a Treblinka: tagliare cioè i capelli agli internati subito prima che entrassero nelle camere a gas.

La messa in scena dell’omicidio del poliziotto, ricostruita da Errol Morris e affidata all’interpretazione di alcune comparse.

Tutto ciò risulta particolarmente valido se rapportato, più nello specifico, a un peculiare modello di reenactment filmico, oggetto di interesse in questa sede. Si tratta di quello che Ivone Margulies ha denominato «in person»8 reenactment: formula che chiama a raccolta differenti pratiche documentarie che mettono in scena la memoria di un evento passato tramite l’implicazione dei suoi testimoni diretti, sancendo così una coincidenza, una continuità, tra chi (ieri) ha vissuto l’esperienza originaria e chi (oggi) si cimenta nel ripeterla. Un’opzione che, sebbene restringa significativamente il perimetro del reenactment – non si tratta infatti di appropriarsi di un’esperienza altrui, bensì di confrontarsi nuovamente con la propria – dal finire del secolo scorso è stata adottata da numerosi esponenti di spicco del cinema documentario internazionale.

Si pensi, tra gli altri, ai sofisticati equilibri tra realtà e finzione raggiunti in Close Up [Nema-ye Nazdik, Abbas Kiarostami, 1990] e Pane e fiore [Nun va Goldoon, Mohsen Makhmalbaf, 1996]; ai folgoranti ritratti tracciati da Little Dieter Needs to Fly [id., Werner Herzog, 1998] e Wings of Hope [Julianes Sturz in den Dschungel, Werner Herzog, 1999], o da El Sicario – Room 164 [Gianfranco Rosi, 2010]; al tentativo, sempre sofferto, di filmmaker che predispongono un confronto con il traumatico passato del conflitto, come in The Battle of Orgreave [id., Mike Figgis, 2001], Valzer con Bashir [Waltz with Bashir, Ari Folman, 2009], Z32 [id., Avi Mograbi, 2008] e Between Fences [Bein gderot, Avi Mograbi 2016], Ghost Hunting [id., Raed Andoni, 2017], o con quello, parimenti drammatico, inerente a recenti fatti di cronaca, come in Reconstructing Utøya [Rekonstruktion Utøya, Carl Javér, 2018]; alla volontà di riunire, offrendo loro un’insperata occasione di dialogo, individui che in passato si sono affrontati da nemici, come in S21: La macchina di morte dei Khmer rossi [S-21, la machine de mort Khmère rouge, Rithy Panh, 2003], nel “dittico” L’atto di uccidere [The Act of Killing, Joshua Oppenheimer e Christine Cynn, 2012] e The Look of Silence [id., Joshua Oppenheimer, 2014], più recentemente in Teatro de guerra [id., Lola Arias, 2018]; o ancora, ad alcuni esperimenti condotti all’interno dell’ambito familiare, come i documentari Reconstruction [id., Irene Lusztig, 2002], Stories We Tell [id., Sarah Polley, 2012] e Sorelle Mai [Marco Bellocchio, 2010].

panh reenactmentRithy Panh, sopravvissuto al genocidio cambogiano perpetrato sotto la dittatura comunista di Pol Pot, incrocia le testimonianze di vittime e carnefici all’interno della ex prigione S-21 di Phnom Penh (divenuta oggi sede del Tuol Sleng Genocide Museum).

oppenheimer reenactmentAnwar Congo e Adi Zulkadry, a cui sono imputabili centinaia di omicidi durante la purga anticomunista avvenuta in Indonesia tra il 1965 e il 1966, rievocano le loro tecniche di morte davanti alla macchina da presa di Joshua Oppenheimer.

Nella stanza 164 di un hotel ubicato al confine tra Messico e Stati Uniti, un ex sicario dei narcos, la cui identità non viene mai svelata, ripercorre le attività criminali di cui si è reso protagonista nel tempo. Parla diffusamente, recita alcune delle sue azioni più efferate, su un album da disegno, illustra le sue gesta con tratti semplici, quasi infantili.

Nella loro diversa articolazione, tutti esempi che convergono nel puntualizzare un aspetto cruciale che concerne la logica del reenactment in prima persona. Se il gesto di ripetere la propria esperienza una seconda volta, infatti, non costituisce una procedura finalizzata a rappresentare fedelmente un referente perduto, proponendosi semmai come una critica al concetto stesso di rappresentazione9, si fa allora meno ostico individuare quale sia la verità a cui può ogni reenactment può effettivamente ambire. Che non è mai la verità storica del passato, di ciò che è stato, bensì quella fenomenologica di una circostanza, una situazione, colta dalla macchina da presa nell’immanenza del suo (ri)accadere.

Della ripetizione/1. Performance e ripresa

Ad accordare una prerogativa anti-rappresentativa all’esercizio della ripetizione è stato primariamente Gilles Deleuze, a cui si deve anche una lettura decisiva del senso più profondo del ripetere10. Una manovra che, per Deleuze, non assume i tratti della sommatoria, dell’azione additiva, e che quindi non si esercita aggiungendo una seconda volta alla prima (e poi una terza, e così via). Piuttosto, un movimento che si rovescia interiorizzandosi, «elevando la prima volta all’ennesima potenza»11: come accade con il ricorrere degli anniversari, o con le ninfee dipinte da Claude Monet12. Una condotta che mai presume dunque di poter ripetere l’identico: anzi, che risulta praticabile solo se intesa in rapporto a qualcosa di unico e insostituibile, che «non ha eguale o equivalente»13. E che non solo rifiuta quel dualismo platonico che nella metafisica classica distingueva due diversi ordini di realtà, uno (la copia) gregario dell’altro (l’originale); ma che, più radicalmente, si oppone all’idea stessa che vi sia un originale cui conformarsi.

A tale sovversione del platonismo va infatti ricondotta la formulazione del concetto di simulacro. Termine che risuona familiare nel vocabolario postmoderno, ma che, nell’accezione deleuziana, non condivide nulla del carattere intransitivo e autoreferenziale che avrebbe poi assunto in una certa filosofia a venire (si pensi, un nome tra tutti, a Jean Baudrillard). In Deleuze, infatti, la nozione di simulacro è da intendersi come l’esito di una mossa sempre animata da un intento positivo, di un’azione nietzscheanamente affermativa, che confessa il suo carattere trasgressivo nel rifiutare il giogo della Legge e della Morale. Deleuze fa ricadere questa idea di simulacro in primo luogo nel dominio dell’arte, e in misura ancor maggiore in quello del teatro. Laddove, del resto, uno dei maggiori motivi di interesse che caratterizza oggi il reenactment è proprio il suo accadere come performance del testimone che al contempo incarna, dandole letteralmente corpo, la ripetizione del vissuto. Sulla scena, la performance della ripetizione diviene allora un piano di immanenza da attraversare con empirismo libero ed “eretico”, e che abiurando la logica rappresentativa, si manifesta come un’autentica affermazione di realtà.

Tuttavia, anche nella prima fase dell’in person reenactment cinematografico succede qualcosa di analogo. È la fase cioè della ripresa, in cui la ripresa cinematografica si sovrappone, fino a coincidere, con la ripresa del passato, con quel «ricordare procedendo»14 che si oppone all’andamento retrospettivo della reminiscenza. Certo: qui, a differenza della scena teatrale, c’è un comparto produttivo che tramite un mezzo tecnico esercita una partizione del visibile, decidendo cosa inquadrare e come, dirige il cast, si rende responsabile della versione montata del lavoro (lo vedremo). Resta tuttavia il fatto che, in questa fase, al reenactorossia all’attore non professionista chiamato a ripete la propria esperienza davanti a una macchina da presa – viene richiesta una simile performance del corpo. Gli viene richiesta infatti una prestazione attoriale che si fonda anch’essa sull’intrinseca incertezza di cui è costituita la memoria: intesa sia come facoltà dell’intelletto che viene “agita” ripetendo, rivelandosi talvolta compromessa, fallibile e lacunosa; sia come riattivazione da parte di un corpo-archivio dotato di un proprio sapere, inciso nella pelle e custodito nei gesti, che recupera comportamenti passati nel presente dell’azione performativa (talvolta, fino a destabilizzare il reenactor stesso)15.

Dobbiamo dunque concepire ogni reenactment come un simulacro, nell’accezione sopra chiarita. Ossia un nuovo originale, che si afferma in quanto differenza in sé: cui sarebbe allora opportuno riferirsi non nei termini di reenactment dell’evento, ma di reenactment come evento16. Nel farlo tuttavia, data appunto la sua particolare “natura”, non possiamo però esimerci dall’attribuirgli anche il carattere di una scommessa, di una partita in bilico: una situazione mai mimetica, mai piattamente copiativa, anzi sempre pendente e impronosticabile. Una situazione, come già detto, magari guidata nei processi, ma mai prestabilita negli approdi: «un gioco aperto, senza esiti prefissati», mutuando un’efficace definizione da Renato Barilli17. Un gioco, cioè, in cui non si può contare su fini preventivamente accertati, perché non si può sapere in anticipo cosa può un corpo: quali siano le sue potenzialità, gli effetti di cui è capace, quali i rivolgimenti che è in grado di innescare18.

Lungi infatti dal costituire un mero esercizio mnesico, ogni reenactment si configura anzitutto come un processo di attraversamento, un lavoro di scavo condotto dal reenactor tra gli strati interiori del proprio sé. Un working through, come Lyotard definisce la processualità freudiana orientata a favorire l’emersione «di ciò che rimane costitutivamente nascosto dell’evento e del senso dell’evento»19. Tuttavia, proprio durante la fase di ripresa di ogni reenactment, il working through dei reenactor finisce per collimare con lo stesso work in progress del film. Ed è qui che la ripresa cinematografica aderisce con la massima presa alla ripresa del passato: conferendo all’immagine il potere di far emergere qualcosa che non è ottenibile senza la mediazione del dispositivo, e al reenactment un carattere sempre provvisorio e imprevedibile, oltre a un significato mai definitivo.

Nel contesto del reenactment, è allora proprio questa libera apertura ciò che consente alla ripetizione differente di rimuovere quell’istanza rappresentativa «che media il vissuto rapportandolo alla forma di un oggetto identico o simile»20. Difatti, secondo l’assimilazione della lezione freudiana di Deleuze – e dunque in una prospettiva spinoziana, anti-edipica, allergica a schemi predisposti, così come ad apparati disciplinanti – i meccanismi che presiedono all’emersione del passato si adoperano per assicurare in qualche modo una saldatura tra mantenimento identitario e apertura alla differenza: così, lavorando in maniera anti-mimetica, i processi ripetitivi implicati nel reenactment tentano di attualizzare una condizione pregressa inglobando tratti e distorsioni che ne alterano la costituzione originaria.

reenactment herzog denglerDieter Dengler, aviatore americano di origine tedesca fatto prigioniero durante la guerra del Vietnam, descrive le dinamiche della sua cattività. Non solo, come ovvio, a interpretare i suoi carcerieri sono giovani comparse, ma le riprese, che hanno effettivamente luogo nel Sud-Est asiatico, avvengono in una differente location rispetto ai fatti reali.

Sei anni dopo l’attacco di Anders Breivik, quattro sopravvissuti alla strage di Utøya si incontrano per condividere, ripetendola insieme, la comune esperienza dell’accaduto. Con loro, alcuni giovani connazionali che partecipano al reenactment, oltre a uno psicologo coinvolto nel progetto. Nell’immagine si può notare l’essenziale lavoro di stilizzazione operato dal documentario, girato in uno studio cinematografico spogliato di ogni elemento scenografico.

L’incertezza costitutiva della memoria fa sì che l’operazione filmica di Raed Andoni (regista palestinese che, in un garage, riunisce un gruppo di ex detenuti al fine di ricreare Al-Moskobiya, il principale centro di interrogatori israeliano) sia introdotta da un incipit, realizzato in animazione, che dà forma ai ricordi del regista, imprigionato nel centro all’età di diciotto anni.

È allora nel suo far scaturire la novità processando la dissonanza che l’esercizio del ripetere una volta in modo terapeutico cerca di prevenire, o di contenere, il ripetere a oltranza in modo incoercibile. Permettendo, da un lato, di distinguere le forme dell’elaborazione consapevole (working through) dalle trappole e dai sabotaggi della coazione a ripetere (acting out)21. E ribadendo, dall’altro, che la ripetizione cui dà vita il reenactor non si profila come una manovra autoreferenziale e impermeabile all’esterno, quasi fosse una nostalgica azione di recupero condotta in solitaria verso il proprio rimosso. Andandosi per converso a definire, e rimarcando così la logica non autotelica del procedimento, come un gesto di consegna, un gesto testimoniale. Un gesto relazionale compiuto davanti a una macchina a presa, e quindi inevitabilmente un gesto in cerca di un destinatario, di uno spettatore che se ne sappia fare carico. Quello spettatore che, a conti fatti, risulta però ancora assente in questa fase.

Della ripetizione/2. Il secondo tempo delle immagini

La fase di ripresa infatti non basta. Convertire in immagine l’azione del testimone-performer, predisporla come documento autonomo, è condizione necessaria, ma non sempre sufficiente, affinché il reenactment in prima persona dispieghi pienamente la sua prestazione testimoniale. Serve una fase ulteriore, un supplemento di mediazione: serve infatti che le immagini delle riprese non siano solo selezionate e mostrate, bensì montate, coinvolte in un raffronto che chiama a raccolta diversi contenuti provenienti da altre fonti, altri archivi, altri immaginari. Occorre quindi che l’intervento affermativo della ripresa trovi compimento in quello dialettico della post-produzione. O, in altri termini, che la reinterpretazione di un evento da parte di un soggetto implicato sia messa in relazione con le diverse immagini che, di quello stesso evento, costituiscono invece le tracce mediali.

Se Deleuze è dunque il riferimento principale delle teorie del reenactment di stampo performativo, Walter Benjamin è il nome a cui guardano gli approcci interessati alla ripetizione come strumento storiografico. Vale a dire, gli approcci che riconoscono nelle attuali forme del reenactment la manifestazione di un’altra “crisi” – quella della Storia – avviata alla scoccare del tramonto delle grandi narrazioni moderne. Tuttavia, è importante sottolineare che ricorrere al reenactment non significa affatto assecondare un ludico espediente postmoderno, giocando a rimpiattino con il tempo perduto: piuttosto, significa scorgere nella strada che ci separa da quest’ultimo un tragitto non irremeabile. I reenactment mirano infatti a trasformare la continuità informale del passato, intesa come indeterminazione caotica e inesausta, in un’esperienza discreta e definita: si rivolgono cioè a ciò che è trascorso come a qualcosa che è ancora possibile intercettare, cogliere, attraversare. Così facendo, l’accadimento ripetuto diviene storico occupando il tempo, affermando il suo statuto di evento finito. Tuttavia, come già in Benjamin, in questo processo la storia non ha caratteristiche di chiusura o di prescrizione, in quanto la concezione storica di cui il reenactment si fa promotore è identificabile con un «campo di possibilità»22.

È proprio allora l’intervento della ripetizione a decretare la rottura con il presente ereditato: il tempo, ammonisce Benjamin, «in cui di volta in volta dominano […] gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre»23. Favorendo una re-visione che non accetta mai di ribadire, o peggio celebrare, il significato già acquisito di un evento, e che di esso privilegia invece frammenti che non sono mai stati in essere: quelli che appartengono ai vinti, agli oppressi, e che esigono di essere compiuti. Una concezione della storia che, a differenza di quella postmoderna, crede quindi nel riscatto e nella redimibilità, chiarendo così le ragioni per cui i reenactment trovano agiatamente riparo sotto la copertura di Benjamin. Lì, infatti, rivelano la loro natura di azioni inattuali condotte a favore del tempo venturo: azioni cioè che, reinterpretando il passato per mezzo di una presa di distanza (che è senz’altro temporale, ma a seconda dei casi anche ironica, parodica, polemica, straniante), lo reinquadrano all’interno del decorso temporale, coltivando in questo modo la memoria del passato in funzione di quella dell’avvenire, del «futuro anteriore»24.

Ciò avviene in particolare nella fase di post-produzione che caratterizza spesso l’in person reenactment cinematografico: in quel preciso momento di arresto in cui le immagini delle riprese si trovano inserite «in una costellazione carica di tensione»25 con una ben determinata epoca anteriore. Quando, cioè, le immagini della performance del reenactor vengono integrate in un’operazione di montaggio che convoca altri elementi con cui raffrontarle dialetticamente (interviste altrui, che consolidano, o al contrario minano, il resoconto del reenactor; elementi provenienti da archivi pubblici e privati; documenti storici video e fotografici; registrazioni sonore e vocali; ecc.), allestendo un confronto intermediale che concorre dunque a fare del documentario contemporaneo un imprescindibile laboratorio visuale dell’autenticazione26.

dengler reenactment herzogLa fotografia mostra Dieter Dengler sei mesi dopo il suo salvataggio, e costituisce un elemento di una colonna visiva ben presente nel film, composta da materiali d’archivio con cui Werner Herzog, in fase di montaggio, puntella il resoconto del protagonista.

Il finale del film di Ari Folman illustra in modo esemplare i meccanismi intermediali citati poco sopra. In questo raffronto, si nota infatti come al primo piano del protagonista, ripreso in animazione (a sinistra), faccia seguito il contro-campo della sua soggettiva, costituito questa volta da una ripresa giornalistica (a destra) che documenta i reali massacri occorsi nei campi profughi libanesi di Sabra e Shatila nel 1982.

reenactmentL’istallazione artistica The Third Memory [id., Pierre Huyghe, 2000] rievoca una rapina del 1972 avvenuta in una banca di Brooklyn. Grazie allo split screen con cui è concepita, lo spettatore si trova a dover condurre un continuo “montaggio mentale” tra le immagini di destra, in cui l’autore della rapina, John Wojtowicz, rimette in scena la propria versione dei fatti quasi trent’anni dopo gli eventi, e quelle di sinistra, in cui l’attore Al Pacino interpreta la parte di Wojtowicz nel film Quel pomeriggio di un giorno da cani [Dog Day Afternoon, Sidney Lumet, 1975].

A spalancarsi, insomma, è da una parte tutta una serie di contributi che si intrecciano all’esperienza del reenactor: non per ammutolirla ma, al contrario, per fornirle una rinnovata eloquenza, frutto di un dialogo corale e non di un soliloquio. E dall’altra, la sterminata disponibilità di found footage che intasa oggi la nostra cultura visuale, i cui prelievi costituiscono le voci di un controcanto che della stessa performance mira ad autenticare la pregnanza. Non basta insomma ripetere il passato con i corpi: bisogna congiuntamente ripeterne le immagini, concedendo loro un secondo tempo fatto di relazioni, di scambi, anche di contrasti27. Ed è proprio nel solco di questa reciprocità che l’immagine documentaria proposta dal reenactment contemporaneo, sebbene consapevole di dover rinunciare al miraggio della trasparenza assoluta, può continuare a qualificarsi in modo costruttivo, referenziale e transitivo.

Così, dopo che il reenactor, promosso ad “attore sociale”28 in forza dell’esperienza attraversata, ha consegnato a una macchina da presa la sua performance, e dopo che il regista è intervenuto su quest’ultima con il suo supplemento di mediazione, inizia la partita dello spettatore. Che, osservando in differita quel corpo rimettere in scena la propria storia, intende quel ripetere come un gesto che lo chiama in causa: ma che, come detto, è anche tenuto a risignificarlo tramite la moltiplicazione della dialettica con gli altri materiali con cui quel tornare a fare gli viene presentato, in accordo a dinamiche di costruzione condivisa del senso che sono alla base di ogni reenactment in prima persona. Un dispositivo che infatti, pur muovendo da essa e dal suo valore di esemplarità, non si esaurisce mai nella ripetizione di una vicenda soggettiva e personalistica: bensì, che cerca sempre di sprigionare, dalla ferita inferta al singolo, un significato rilanciato in un orizzonte comune. Chiedendo allo spettatore di ricostruire, e al contempo trascendere, una vicenda individuale a partire dalla propria sintesi dei materiali disponibili. E consentendogli dunque, con il suo intervento attivo, di far retroagire la possibilità sul tempo trascorso: sempre al fine però di prendere posizione rispetto alla propria epoca.

NOTE

1. Ivelise Perniola, L’era postdocumentaria (Milano-Udine: Mimesis, 2014).

2. Daniele Dottorini, La passione del reale (Milano-Udine: Mimesis, 2018).

3. Bill Nichols, ‘Documentary Reenactment and the Fantasmatic Subject’, Critical Inquiry, 35, Autumn 2008, pp. 72-89.

4. Linda Williams, ‘Mirrors without Memories: Truth, History, and the NewDocumentary’, Film Quarterly, 46, 3, Spring 1993, pp. 9-21.

5. Sul tema, si legga anche Stella Bruzzi, New Documentary (Abingdon-New York: Routledge, 2006, 2a edn).

6. L. Williams, cit.

7. Il concetto di “approssimazione” è sviluppato in Stella Bruzzi, Approximation: Documentary, History and the Staging of Reality (Abingdon–New York: Routledge, 2020), in particolare nel capitolo sesto, Documentary re-enactment: the ‘model’ approximation.

8. Ivone Margulies, In Person. Reenactment in Postwar and Contemporary Cinema (New York: Oxford University Press, 2019).

9. Inke Arns and Gaby Horn, History Will Repeat Itself: Strategies of Re-enactment in Contemporary (Media) Art and Performance (Frankfurt am Main: Revolver, 2007).

10. A partire ovviamente da Differenza e ripetizione, tr. di Giuseppe Guglielmi (Milano: Raffaello Cortina, 1997).

11. Ivi, p. 10.

12. Ibidem, citando Charles Péguy.

13. Ibidem.

14. D. Dottorini, op. cit., p. 178, in riferimento al concetto di Gjentagelsen (ripresa/ripetizione) in Søren Kierkegaard.

15. Sull’esempio della lezione di Richard Schechner, di cui si rimanda a Introduzione ai performance studies, cur. da Dario Tomasello (Bologna: Cue Press, 2018), pp. 81-83.

16. Sylvie Jasen, Reenactment as Event in Contemporary Cinema, 2011. Tesi dottorale discussa presso il Dipartimento di Cultural Mediations della Carleton University (Ottawa, Canada).

17. Renato Barilli, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna (Milano: Bompiani, 1981), p.173.

18. Gilles Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, cur. da Aldo Pardi (Verona: Ombre Corte, 2007).

19. Jean-François Lyotard, L’inumano. Divagazioni sul tempo, tr. di Emilio Raimondi e Federico Ferrari (Milano: Lanfranchi, 2001), p. 46.

20. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 29.

21. Samuel Antichi, The Black Hole of Meaning (Roma: Bulzoni, 2020).

22. Antonio Caronia, Never Twice in the Same River, in Antonio Caronia, Janez Janša, Domenico Quaranta (a cura di), Re:akt! Recontruction, Re-enactment, Re-reporting (Brescia: Link, 2014), p. 7.

23. Walter Benjamin, Opere complete, cur. da Enrico Ganni (Torino: Einaudi, 2014), VII, p. 486.

24. Marina Montanelli, Il principio ripetizione, Studio su Walter Benjamin, (Milano-Udine: Mimesis, 2017), p. 11.

25. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, tesi n.17, in Angelus Novus, cur. da Renato Solmi (Torino: Einaudi, 2014), 4a edn, p. 85.

26. Pietro Montani, L’immaginazione intermediale (Roma–Bari: Laterza, 2010).

27. Jennifer Steetskamp, Found Footage, Performance, Reenactment: A Case for Repetition, in Jaap Kooijman, Patricia Pisters, Wanda Strauven (eds.), Mind the Screen (Amsterdam: Amsterdam University Press, 2008), pp. 333-344.

28. Bill Nichols, Representing Reality (Bloomington: Indiana University Press, 1991), p.42.