And the names and faces of the tyrants change
But poverty, pain and murder remains
And the voices of truth are locked up in chains
Darkness remains, freedom in flames
The Jerks, Rage
Nel “Martial Law melodrama” di Lino Brocka Manila in the Claws of Light [Tagalog: Maynila, sa mga Kuko ng Liwanag, 1975], ambientato nella capitale filippina durante la dittatura militare di Ferdinand Marcos (1972-1986)1, l’operaio edile Julio (Rafael Roco, Jr.) e i suoi colleghi sono soggetti a una forma di sfruttamento soprannominata “taiwan”: se al termine della giornata lavorativa vogliono ricevere il salario, essi devono acquistarlo dal datore di lavoro abbonando il 10% della somma che spetta loro. Inoltre, su un salario giornaliero del valore nominale di 4 PHP, il capomastro trattiene per sé 1,50 PHP (forse una commissione caporalesca, sebbene l’esatta ragione della trattenuta non venga mai specificata nel film e i lavoratori che fanno troppe domande al capomastro finiscono licenziati oppure vittime di strani incidenti). Infine, se Julio e gli altri operai edili non hanno un posto dove vivere a Manila e desiderano dormire nelle baracche del cantiere, posso farlo in cambio di un’altra trattenuta sul loro salario. In questo modo, dopo aver passato l’intera giornata a spaccarsi la schiena in un ambiente di lavoro estremamente pericoloso, essi si ritrovano con in tasca una manciata di monete appena sufficienti per acquistare un pacchetto di sigarette e del riso.Ambientato alla fine degli anni Novanta del Novecento, Genus Pan [Lahi, Hayop, 2020] di Lav Diaz dimostra che molto poco è cambiato nel Paese dai tempi della dittatura di Ferdinand Marcos portati in scena da Lino Brocka in Manila in the Claws of Light. I venti minuti del prologo di Genus Pan – che mostra i minatori Baldo (Nanding Josef), Paulo (Bart Guingona) e Andres (Don Melvin Boongaling) ricevere dal capomastro il salario duramente guadagnato e prepararsi a fare ritorno alla nativa isola di Hugaw per qualche settimana di riposo – sono una perfetta illustrazione di come la maggior parte dei lavoratori filippini viva ancora alla giornata. Per tre mesi il cinquantenne Baldo, il cinquantenne Paulo e il ventenne Andres hanno vissuto “come topi” (sono le loro testuali parole), scavando tunnel alla ricerca dell’oro, proprio come fanno i membri della famiglia Santelmo nelle claustrofobiche spedizioni minerarie nelle viscere della terra che costellano Evolution of a Filipino Family [Filipino: Ebolusyon ng Isang Pamilyang Pilipino, 2004], affresco diaziano della storia delle Filippine dal 1971 al 19872. Un colpo di piccone male assestato, una mossa sbagliata o troppo brusca, e Baldo, Paulo e Andres avrebbero potuto essere sepolti vivi in qualsiasi momento: lo hanno visto succedere così tante volte durante il loro contratto di tre mesi, e hanno persino iniziato a sospettare che alcuni di questi incidenti non fossero affatto tali, perché le vittime spesso erano quegli stessi lavoratori che avevano osato lamentarsi dei salari da fame e dell’inesistente sicurezza sul lavoro in miniera.Al termine di questo infernale periodo di lavoro, è il momento di incassare il salario della paura, ma le traversie dei tre protagonisti non sono che all’inizio. In primo luogo, il direttore della compagnia mineraria esige una parte del salario dei suoi dipendenti come commissione caporalesca e come compenso per l’alloggio fornito durante il contratto, più una somma extra per tenere d’occhio gli effetti personali dei lavoratori durante la loro assenza. In secondo luogo, le autorità militari dell’isola di Hugaw – il Capitano (Popo Diaz) e il Sergente (Noel Sto. Domingo) che controllano il territorio per conto della famiglia Vargas – vogliono anch’essi una parte del salario dei minatori e, per ottenerla, sono disposti a rapire, imprigionare, torturare e uccidere a sangue freddo. Per non parlare del sottobosco di delatori e faccendieri che sfruttano le loro conoscenze tra i militari di stanza nell’isola di Hugaw per appropriarsi di quel poco che la popolazione locale è riuscita a sottrarre all’avidità delle autorità3. Ciò che rende la situazione ancora più tragica è il fatto che, come mostrato nell’incipit del film, il lavoratore sfruttato Baldo non disdegna di indossare a sua volta i panni del caporale e vessare i compagni e compaesani Paulo e Andres per ottenere parte del loro salario come compenso per aver convinto il direttore della compagnia mineraria ad assumerli. In sostanza, in Genus Pan come in Manila in the Claws of Light, durante la dittatura militare di Ferdinand Marcos come nelle Filippine democratiche post-1986, i lavoratori sono sfruttati e devono farsene una ragione. Devono tenere la testa bassa e la bocca chiusa, altrimenti sono carne da macello. Data l’intoccabilità di coloro che stanno al vertice della piramide socio-alimentare, l’unica cosa che lo sfruttato può fare per sopravvivere è servire gli sfruttatori fino a diventare anch’egli uno sfruttatore (“Qui sopravvive solo chi sa adattarsi! Usa il cervello, non le emozioni!”, dice Paulo ad Andres vedendo che il giovane cova rabbia nei confronti dello status quo e desidera ribellarsi).
Credits: Sine Olivia Pilipinas.
Su questo sfondo più cupo che mai si dipana il plot di Genus Pan, che attraverso long takes in bianco e nero segue il viaggio di Baldo, Paulo e Andres dalla miniera fino a casa, e la loro lotta per preservare un briciolo di umanità di fronte alla violenza, all’egoismo e alla rapacità bestiali che caratterizzano gran parte degli abitanti dell’isola di Hugaw – una società che, a un secolo dalla Dichiarazione d’Indipendenza delle Filippine dai colonizzatori spagnoli (1898), rimane feudale, sfruttatrice e predatoria, dimostrando, per dirla con Lav Diaz, “questo circolo vizioso eternamente ripetuto che noi [filippini] sembriamo incapaci di spezzare”:
prima vennero gli spagnoli, poi gli americani, poi i giapponesi… e, tragicamente, dopo secoli di sfruttamento, tortura e imposizioni, un potere malvagio dentro di noi è diventato il nostro oppressore. Si tratta del tipico scenario post-coloniale: dopo che i colonizzatori lasciarono le Filippine, i colonizzati hanno lottato con la loro identità e hanno finito per copiare quello che i colonizzatori avevano fatto. Così, coloro che ora hanno il potere nelle Filippine sono per la maggior parte filippini che sfruttano la propria gente. Naturalmente ci sono ancora molte multinazionali che sfruttano il nostro ambiente, la nostra manodopera e le nostre debolezze. Ma penso che oggi il problema non sia tanto il mondo esterno che ci invade, come accadeva in passato. Oggi la minaccia viene dall’interno, dal colonizzatore che è in noi, dall’imperialista che è in noi.4
Infatti, come afferma Lav Diaz in Genus Pan attraverso un programma radiofonico su differenze e similitudini tra i vari generi di ominidi, non ci può essere alcuna rivoluzione sociale e politica, e dunque nessun vero cambiamento nello status quo feudale, senza un’evoluzione della specie Homo Sapiens, ovvero senza che le persone guardino a lungo e profondamente dentro se stesse per capire cosa significa essere umani, cosa separa l’umanità dal suo parente più prossimo, lo scimpanzé del genere Pan. Coerentemente con gli intenti didattici di Lav Diaz, in Genus Pan l’astratta questione filosofica sull’ontologia dell’umano è scomposta in una serie di sotto-domande specifiche e concrete legate al viaggio fisico e spirituale attraverso la foresta dell’isola di Hugaw dei tre protagonisti, determinati a raggiungere sani e salvi la propria casa e a difendere il proprio salario dai “predatori”. Per esempio, Baldo si pentirà di aver agito da caporale e restituirà il denaro sottratto agli amici Paulo e Andres? E, indipendentemente da quello che Baldo deciderà di fare, riusciranno Paulo e Andres a perdonarlo per averli vessati e derubati di una parte dei loro guadagni? Nell’immensa solitudine e oscurità della foresta vergine, riusciranno Baldo e Paulo a confessare il terribile crimine da loro commesso quattro decenni prima in un’altra foresta mentre lavoravano al seguito di un circo gestito da un sadico clown, in modo da porre fine a una vita di rimorsi e paranoia? Al suo ritorno a casa, Andres si farà intimidire dalle minacce dei potenti e smetterà di indagare sulla morte del fratello Peping, ucciso a colpi di machete dai soldati sul libro paga della famiglia Vargas?
Credits: Sine Olivia Pilipinas.
Concentrandosi su quest’ultima questione, i sessanta minuti finali delle due ore e quaranta di Genus Pan rivelano la “sozzura” dell’isola di “Hugaw”5 e mettono sotto accusa la brutalità della locale cleptocrazia e dei suoi tirapiedi. Smessi i panni del road movie, l’ultima ora di Genus Pan mostra da che parte stanno i personaggi e cosa essi intendono fare nei confronti dell’oppressivo sistema feudale in cui vivono. Cosa sono disposti a rischiare Andres e i suoi compaesani per far trionfare la verità e far sì che i malfattori paghino per i loro crimini? Chi avrà il coraggio di mettere la propria vita in gioco per combattere l’ingiustizia e cambiare in meglio le cose? Chi si arrenderà alla violenza dominante e si adatterà alle circostanze? Spostandoci dalle Filippine anni Novanta del mondo diegetico alla realtà odierna in cui il film è stato realizzato ed esibito (una mossa che purtroppo non viene spesso compiuta nei confronti del cinema di Lav Diaz, poiché il discorso critico tende a privilegiare l’aspetto stilistico su tutto il resto), le sopracitate domande assumono la massima rilevanza. Infatti, durante la presidenza di Rodrigo Duterte (2016-2022?), la brutalità poliziesca e militare, e la legislazione contro cybercrime, traffico di droga e terrorismo vengono correntemente utilizzate per intimidire e mettere a tacere attivisti dei diritti umani, politici, giornalisti e artisti critici verso il malgoverno e la corruzione dell’establishment filippino. L’esempio più noto a livello internazionale è forse quello della senatrice Leila de Lima, incarcerata con false accuse di traffico di droga per aver denunciato pubblicamente i massacri extragiudiziari compiuti durante la “guerra alla droga” dichiarata da Rodrigo Duterte nell’estate 2016 e tutt’ora in corso (in Genus Pan si allude en passant alla vera storia della senatrice Leila de Lima attraverso il personaggio di Aling Imang). Senza contare che il canale televisivo di ABS-CBN – un conglomerato multimediale ostile a Rodrigo Duterte, e un supporter creativo e finanziario del cinema di Lav Diaz a partire dal 2015 – è stato recentemente messo fuori onda a causa di pressioni presidenziali. Considerando che ABS-CBN era stato messo fuori onda anche all’inizio della dittatura militare di Ferdinand Marcos, Genus Pan è un film più urgente che mai nel suo appello al popolo filippino (e a tutti i popoli della Terra) a continuare la lotta contro sfruttatori e oppressori, affinché la storia non si ripeta.
Traduzione italiana dell’articolo (originariamente apparso in inglese su MUBI Notebook) a cura dell’autore. Per maggiori informazioni sulla vita e l’opera di Lav Diaz, si veda il libro di Michael Guarneri intitolato Conversations with Lav Diaz, di prossima uscita per Massimiliano Piretti Editore (ISBN 9788864761022).
NOTE
1. Per una disamina della produzione melodrammatica di Lino Brocka durante il regime dittatoriale di Ferdinand Marcos si veda José B. Capino, Martial Law Melodrama: Lino Brocka’s Cinema Politics, Oakland: University of California Press, 2020.
2. Peraltro, la canzone d’amore cantata dai minatori nella scena iniziale di Genus Pan aveva già fatto la sua comparsa in Evolution of a Filipino Family, eseguita da Puring (Angie Ferro) e da un gruppo di contadini.
3. Particolarmente efficace, in questo senso, è la performance di Joel Saracho nel ruolo di Inggo. Solitamente impiegato da Lav Diaz in ruoli da buono, in Genus Pan Joel Saracho interpreta un malvagio “pigro bastardo” che usa fake news, minacce, ricatti e persino l’omicidio per appropriarsi dei risparmi della popolazione dell’isola di Hugaw. La performance da cattivo di Joel Saracho – indubbiamente basata su uno studio della postura e della mimica dei gorilla simile a quello condotto da Marlon Brando per interpretare Stanley Kowalski in Un tram che si chiama Desiderio [A Streetcar Named Desire, Elia Kazan, 1951] – culmina nella inquietante, indimenticabile inquadratura finale di Genus Pan.
4. Michael Guarneri, “No Forgiveness without Justice”, 2017, https://www.debordements.fr/Lav-Diaz-2017. Nel passaggio citato, Lav Diaz si riferisce alla colonizzazione spagnola (1521-1898), alla colonizzazione statunitense (1898-1946) e all’occupazione giapponese (1942-1945) delle Filippine.
5. Come spiegato da Baldo nel prologo di Genus Pan, la parola “hugaw” significa “sozzo, sporco”. “Hugaw” è anche il titolo di un cortometraggio di Lav Diaz realizzato per il film collettivo Lakbayan [id., 2018] usando il materiale girato per Genus Pan tra fine 2017 e inizio 2018.