«Municipio di Kennington, servizio utenti, sono John May», risponde così al telefono, con una forma di asindeto, il protagonista del film Still Life [id., Uberto Pasolini, 2013], figlio atipico della modernità che rimuove tutto ciò che è apparentemente superfluo, ovvero di un periodo storico dominato dalla legge tirannica della comunicazione efficace, rapida, essenziale e brachilogica, al punto che persino le congiunzioni vengono espunte.

«Questo ufficio si occupa di rintracciare i parenti di chi è morto nel municipio e, in mancanza di…», continua il protagonista, ma l’interlocutore subito lo interrompe, dando vita a un vuoto, a un non detto che non viene colmato e che impedisce allo spettatore di comprendere, almeno per il momento, quale sia esattamente l’occupazione di John;1 per colmare quella mancanza John avrebbe voluto – e dovuto, per via del suo ruolo di pubblico ufficiale – aggiungere: «e, in mancanza di parenti, questo ufficio si occupa della sepoltura delle persone che sono morte in solitudine».

John non riesce a concludere la frase perché viene interrotto, dall’altra parte del ricevitore, da un uomo arrabbiato con il proprio padre (a tal punto da cambiare cognome) e che si preoccupa in primo luogo di chi deve saldare i conti (il bravo funzionario, però, precisa, speranzoso, che «non c’è obbligo per i parenti di pagare il funerale»). Tuttavia la telefonata si chiude con un nulla di fatto, un altro caso archiviato, un altro funerale celebrato senza parenti e amici, ma organizzato con premura da John, che cura tutto nei minimi particolari: sceglie la lapide e la bara, scrive il discorso commemorativo poi letto dall’officiante (a posteriori potremmo supporre che in uno di questi elogi John descriva addirittura se stesso: «Crebbe godendo delle piccole cose che la vita offriva»), fa sì che le musiche siano coerenti con la cultura e la religione del defunto, assiste in silenzio alla desolata cerimonia funebre, infine segue con discrezione la bara mentre questa viene condotta al camposanto e inserita nel loculo da lui accuratamente scelto, oppure svuota con garbo l’urna non reclamata.

still life pasoliniL’immagine presenta opportunamente tanto la solitudine del defunto quanto quella di John, accomunati tra l’altro dalla posizione centrale nell’inquadratura.

Ben presto lo spettatore intuisce che John è un uomo ordinario e abitudinario: ogni giorno, con gesti precisi e attenti, sistema il cappotto sull’appendiabiti e riordina la scrivania del tetro e spoglio ufficio comunale, dispone accuratamente il suo pasto frugale e taglia con metodo la buccia della mela. Di sera, però, illuminato soltanto dalla luce della lampada del soggiorno, John si accosta al mondo dei morti: sfoglia con riguardo il grande album fotografico a cui ha dato forma e volume nel corso del tempo, raccogliendo e incollando le immagini dei defunti dimenticati (evidentemente trasgredisce il noto ammonimento: “mai portarsi il lavoro a casa”). S’affolla tra le pagine la varietà dell’esistenza: giovani uomini, signore attempate, coppie innamorate e sorridenti, musicisti, sportivi, soggetti nitidi e altri invece maldestramente sfocati, qualcuno in divisa, qualcun altro estremamente elegante, fototessere consunte e immagini intatte, fotografie a colori e in bianco e nero.

Questo avvicinamento del protagonista all’Erebo viene più volte presagito dall’istanza narrante, come quando John si sdraia a terra tra le lapidi del cimitero e un’inquadratura soggettiva mostra allo spettatore lo sguardo che solo un morto, supino, può avere: il cielo affollato dai rami e dalle foglie dell’albero che, come suggerisce il custode del cimitero non sorpreso di trovarlo in quella posizione, «farà ombra a chi verrà a trovarla».

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still life recensioneIn alto, l’inquadratura oggettiva che mostra John tra le lapidi del cimitero, dopo l’ennesimo funerale a cui partecipa. Sotto, la soggettiva che rivela allo spettatore lo sguardo dei morti.

O come quando – vera e propria prefigurazione –, guardando verso la finestra del dirimpettaio da poco scomparso, il protagonista vede la propria immagine riflessa dal vetro e quindi “contenuta” dall’appartamento, ormai vuoto, del morto.

still lifeInteressante quadro nel quadro giocato sul riflesso dello specchio scuro che è la finestra del vicino.

È proprio la morte del vicino Billy Stoke (e non sfugga la paronomasia con stone, la pietra tombale, così come May è il mese della rinascita primaverile) ad avviare la seconda parte del film, quella in cui John comincia la ricerca dei parenti e degli amici dell’uomo. Quello di Stoke è infatti l’ultimo caso, l’atto conclusivo di una carriera durata più di vent’anni; poche ore dopo il ritrovamento del corpo di Billy, il capo convoca il dipendente per comunicargli che la sua sezione verrà incorporata e che, vista la situazione finanziaria difficoltosa, il comune ha deciso di «tagliare un po’ di rami secchi»: come suona beffarda, adesso, la metafora, che instaura una simmetria tra i lussureggianti rami dell’albero che adombrava John al cimitero e questi rami, privi di vita e quindi rinsecchiti, che la modernità deve recidere in nome della rapidità, dell’efficienza, del profitto.

L’impiegato protagonista, in effetti, non è produttivo: come afferma il capo, John è «scrupoloso, ma molto lento, e ancor più costoso», in quanto preferisce i funerali alle cremazioni. È inutile allora spiegare che l’intenzione è sempre stata quella di dare dignità alla morte rispettando le ultime volontà dei trapassati: «Quando ci sono le indicazioni religiose…» diventa quindi l’ennesima frase troncata, strozzata, morta in gola, interrotta dalla logica puramente economica della contemporaneità, riprodotta dal torrentizio, imperturbabile e subdolo discorso del capo.

John è un uomo solo, non ha famiglia, parla poco e raramente esprime le sue emozioni (numerosi i primi piani, soprattutto nella prima parte del film, che mostrano i suoi occhi inespressivi). La forma è in ciò coerente: il protagonista viene più volte accolto da inquadrature che lo isolano, lo separano, lo dividono dagli altri – talvolta neppure in campo (come nei passages londinesi) oppure grottescamente distanti (come all’interno dell’ufficio del superiore).

still life pasoliniL’emarginazione del protagonista è ben dimostrata dalle inquadrature che seguono i suoi spostamenti all’interno della città.

In un’importante scena ambientata in un bar, alcune persone entrano in campo soltanto grazie al riflesso parziale di uno specchio posto vicino al protagonista; ma il movimento mondano e la vita restano fuori, distanti, il chiacchiericcio rimane all’esterno dell’immagine e l’uomo, che pure guarda fuoricampo, è solo. La scena può ricordare – ma è soltanto una suggestione dovuta alla presenza determinante dello specchio – la situazione di isolamento che vive Suzon nel celebre Un bar aux Folies Bergère di Manet oppure l’emarginazione di alcuni personaggi di Hopper.

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Pur facendone inevitabilmente parte, John è quindi in disarmonia e in disaccordo con un mondo in cui «l’idea della morte perde progressivamente la sua onnipresenza e icasticità»;2 la modernità è travolgente e nel suo movimento incessante e vorticoso investe la vita e sopprime la morte, «progressivamente espulsa dal mondo percettivo dei viventi».3

Il tentativo di John è invece quello di riportare i morti nel mondo dei vivi, di dare vita a una comunicazione ininterrotta, di intrecciare un “duro filamento”,4 di rimettere i morti «nel nostro impasto / quotidiano»:5 «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe di inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce».6

Al cinico e insensibile discorso del capo («La verità è che i morti sono morti, i funerali sono per i vivi: se non trovi nessuno, non soffre nessuno, giusto? Per chi rimane è forse meglio non sapere. Niente funerale, niente tristezza né lacrime») John risponde sorpreso e con amarezza: «Non ho mai considerato la cosa da questo punto di vista». Se soltanto le avesse conosciute, avrebbe forse ribattuto con le parole della canzone Secondo me di Brunori Sas: «Se c’è una cosa che mi fa spaventare / del mondo occidentale è questo imperativo di rimuovere il dolore».7

Il finale, che qui si tace, sembra mettere in scena la volontà più intima di John, che, non stentiamo a credere, avrebbe condiviso il pensiero laico del poeta Giovanni Raboni:

Uno dei pochi pilastri della mia fede – ammesso che di fede si possa parlare – è l’idea della comunione dei vivi con i morti, che non vuol dire che io pensi che c’è un oltrevita nel quale si incontrino i morti. Penso che i morti ci siano, cioè penso che si continui a vivere anche con le persone che non ci sono più, che continuino a fare parte della nostra vita… Attraverso la memoria, attraverso la continuità dei pensieri e delle emozioni.8

NOTE

1. D’altra parte la reticenza è una figura che torna spesso nel corso del film, come quando, durante le sue ricerche, John tenta di descrivere il proprio lavoro a un cuoco curioso e ci riesce solo in parte e in negativo, con una perifrasi: «Lavoro con persone che non cucinano più».

2. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino, 2014 [I ed. italiana 1962], p. 258.

3. Idem.

4. Come recita il titolo di una bella poesia di Mario Luzi.

5. La poesia da cui si cita, La commemorazione dei defunti, è in G. Raboni, Tutte le poesie, vol. I, a cura di R. Zucco, Einaudi, Torino, 2014, pag. 84.

6. Sono i primi versi dell’ultima strofa de La spiaggia di Vittorio Sereni, ultima poesia della raccolta Gli strumenti umani: cfr. V. Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, Mondadori, Milano, 1995, p. 184.