“Forse ero assorta in pensieri d’amore
quando chiusi gli occhi?
Lui comparve.
Se avessi saputo che era un sogno
non mi sarei svegliata.”
A questo waka di Ono no Komachi, poetessa giapponese del periodo Heian, Makoto Shinkai dice di essersi ispirato nel concepire l’idea di Your Name. [Kimi no Na wa., 2016].
Due parole in particolare sembrano aver catturato l’attenzione del regista giapponese, interessato, fin dalle sue prime produzioni, ad analizzare e rappresentare la mutevolezza dei rapporti tra individui, l’intensità dei sentimenti che guidano l’agire umano, il sottile confine tra sogno e realtà.
“L’animazione è, tra le forme d’arte, quella che meglio riesce a dare forma alla complessità della mente umana”1.
Questa tecnica magica che, attraverso un complesso gioco di linee e movimenti, permette a degli oggetti inanimati di prendere vita, è prima di tutto un prezioso strumento di apprendimento e scoperta per i più piccoli ma è anche un mezzo di costruzione identitaria per le giovani generazioni che, gettate nel mondo, devono capire come rimanere in piedi.
Il percorso dell’animazione giapponese in particolare segue di pari passo le trasformazioni culturali e sociali del proprio paese, teso tra la volontà di preservare antichi valori e tradizioni da una parte e l’inclinazione ad assorbire tecniche e tendenze d’oltreoceano dall’altra. Le sfide del progresso e della globalizzazione chiedono uno sforzo sempre maggiore ai giovani che, posti di fronte alle responsabilità, spesso preferiscono nascondersi al mondo, divorati delle proprie paure ed insicurezze.
Negli anime degli anni 2000 questa inquietudine generazionale prende la forma di veri e propri viaggi all’interno della propria coscienza, un «labirinto inestricabile»2 che spesso si scioglie nella dimensione del sogno.
«Possono le nostre menti essere testimoni di altri mondi mentre noi dormiamo?» si chiede Fred Alan Wolf.3 Forse questo nostro mondo ha troppe distrazioni per riuscire a percepire l’esistenza di altre realtà; è possibile, prosegue Wolf, che «mentre dormiamo le nostre menti, non essendo pienamente occupate con questa realtà, siano capaci di percepirne altre»;4 è pensabile che l’individuo, attraverso un universo finzionale quale quello dell’anime, sia in grado di attivare un procedimento di riscoperta del mondo e di se stesso, un’operazione di recupero attivo della memoria e sua estensione nel presente, che gli consenta di stabilire la giusta connessione con il proprio contesto sociale.
Un universo nel quale Shinkai si pone sia come autore, il cui scopo è quello di far riflettere lo spettatore, suggerendo interrogativi e ponendo questioni che investono l’intera collettività, sia come spettatore, il quale fruisce del mezzo per trovare le risposte alle domande che lo perseguitano.
«Avevo la sensazione di perdere qualcosa» afferma uno dei personaggi nel primo lungometraggio di Shinkai Oltre le nuvole, il luogo promessoci [Kumo no mukō, yakusoku no basho, 2004]
«Ho la sensazione che qualcosa sia andato perduto per sempre» dice il protagonista maschile in Your Name.
Nel tempo intercorso tra i due film, il regista sembra voler far rilevare l’ulteriore deterioramento cui sono state sottoposte le relazioni che tengono unite la collettività e la sempre maggiore incapacità dell’individuo di affrontare sia gli eventi che accadono quotidianamente sia quei fenomeni straordinari di fronte ai quali non si può sopravvivere se non cercando la solidarietà dei propri simili. Il riferimento è in particolare al drammatico terremoto del 2011 in Giappone, un evento che ha segnato profondamente le vite dei suoi abitanti, e, nelle parole del regista, cambiato veramente la propria percezione del mondo.5
Ma vediamo di riassumere brevemente la trama del film.
Mitsuha vive in un piccolo paese sulle rive di un lago creatosi dal cratere di un frammento di cometa caduto sulla terra da oltre un millennio. Discende da una famiglia di sacerdotesse e con la sorella e la nonna portano avanti le tradizioni ed i rituali dei loro antenati, mentre il padre si è allontanato da loro, in seguito alla morte della moglie, per dedicarsi completamente alla vita politica. Taki è uno studente di Tokyo che vive con il padre e lavora per mantenersi agli studi. Nel sonno i due ragazzi si scambiano i propri corpi, vivendo l’uno nel corpo dell’altra per brevi periodi, non ricordando però al risveglio ciò che hanno fatto. Dopo lo stupore iniziale i due riescono a gestire la convivenza forzata, pur con qualche difficoltà, cominciando a sviluppare un legame profondo, fin quando questi episodi si interrompono bruscamente. Nonostante la difficoltà a ricordare lucidamente gli avvenimenti trascorsi, Taki parte alla ricerca di Mitsuha, realizzando solo successivamente che i loro scambi non avvenivano sulla medesima linea temporale. La ragazza aveva vissuto in una realtà di tre anni precedente fino all’arrivo di una cometa, che, nel dividersi a contatto con l’atmosfera terrestre, aveva colpito ancora una volta la città di Itomori, distruggendola quasi completamente e causando la morte di Mitsuha. Taki usa dunque il Kuchikamizake (bevanda fermentata di riso giapponese) prodotto da Mitsuha e consacrato al Dio del santuario durante una cerimonia rituale per scambiare un’ultima volta il suo corpo con quello della ragazza, in modo da poterla avvertire del pericolo ed aiutarla a salvare se stessa e la sua comunità. Una volta portata felicemente a termine la missione di salvataggio, i due tornano alle loro vite, dimenticandosi l’uno dell’altra ma non della sensazione di essere sempre alla ricerca di qualcosa o di qualcuno…
A confronto una foto dell’edificio che ospita il grande schermo della Yunika Vision vicino alla stazione di Shinjuku e la sua riproduzione nel film di Shinkai.
La prima cosa che stupisce del film di Shinkai è la straordinaria verosimiglianza della rappresentazione, la sua cura per il dettaglio quasi maniacale; se l’anime è il regno della fantasia per eccellenza, Shinkai vuole comunque sottolineare che non può esserci il sogno senza una vita reale alla quale tornare.
«Questo sogno è fatto molto bene» dice Mitsuha durante uno degli scambi. Scriveva Henri Bergson: «Il sogno è la vita mentale tutta intera meno lo sforzo di concentrazione”.6 Durante la veglia viviamo in uno stato di tensione continua tra gli stimoli che provengono dal mondo esterno e i ricordi che da tali stimoli vengono risvegliati e riportati alla nostra attenzione; nel sogno tuttavia questa tensione si allenta e i “ricordi immobili, sentendo che ho appena rimosso l’ostacolo, sollevato la botola che li manteneva nel sottosuolo della coscienza, si mettono in movimento […] Il ricordo vorrebbe ottenere una materia che lo riempisse, gli desse peso e, insomma gli desse realtà.»7
Il rapporto tra materia e memoria, superficie e profondità, uomo e spirito, analizzato da Bergson, viene inserito da Shinkai nel quadro più ampio della filosofia giapponese e del suo particolare concetto di natura, il cui termine Shizen 自然 (composto da due kanji, il primo dei quali 自 Shi vuol dire ‘sé stesso, da sé’ mentre il secondo 然 Zen vuol dire ‘così com’è’) indica il suo essere così come è per se stessa, presente in tutte le cose, in perpetuo mutamento, tessuto nel quale l’uomo può integrarsi solo riconoscendone l’incessante potenza del divenire, la propria caducità ed imperfezione di fronte ad essa.
La visione panteista di Shinkai si concretizza nel Musubi, termine dai molteplici significati; come dice la nonna di Mitsuha, «intrecciare i fili è musubi, i legami tra le persone sono musubi, lo scorrere del tempo è musubi. Le corde intrecciate che noi creiamo rappresentano il flusso del tempo. Convergono e prendono forma. Si intrecciano e si aggrovigliano. A volte si sciolgono, a volte si spezzano, per poi legarsi nuovamente… Questo è musubi, questo è il tempo.» Una connessione di fili come una trama di linee, le stesse con le quali Shinkai dà vita al proprio lavoro e sostanzia il flusso armonico delle immagini. Un atto di creazione che pone le immagini (materia) di fronte a un corpo (lo spettatore) pronto a percepirle e ad attivare un processo di «espansione, con il quale la memoria, sempre interamente presente a se stessa, stende i suoi ricordi su una superficie sempre più larga e finisce così per distinguere, in un ammasso fino ad allora confuso, il ricordo che non ritrovava il suo posto».8
Lo spettatore, come l’attore, entra all’interno di quei circuiti bergsoniani nei quali l’esperienza reale si incontra e si misura con la propria immagine virtuale, in un rimando continuo e reciproco tra l’oggetto reale che si trova alla base di un ipotetico cono rovesciato e l’insieme dei ricordi puri che, sospesi all’estremità opposta, attendono di essere recuperati ed attualizzati. Gilles Deleuze, nei suoi libri teorici, riprende e approfondisce il pensiero di Bergson introducendo il concetto dell’immagine-cristallo, «punto di indiscernibilità di due immagini distinte, l’attuale e il virtuale»9 creata da una scissione del tempo, un suo sdoppiamento «in due direzioni eterogenee, di cui una di slancia verso l’avvenire e l’altra ricade nel passato».10
L’immagine della cometa che si divide nel film di Shinkai evoca quello stesso schema che Deleuze aveva rappresentato pensando alla scissione di Bergson, l’immagine reale e il suo doppio, il riflesso, che si attraggono e si respingono «secondo un duplice movimento di liberazione e di cattura»11 in un tempo che solo un veggente, colui che osserva, analizza, elabora, può vedere nel cristallo.
L’incontro tra Mitsuha e Taki al katawaredoki (quel momento del giorno in cui non è né giorno né notte, il mondo sembra sfumare in qualcos’altro e il non umano diventa accessibile) è una di queste immagini-cristallo.
Dopo aver perso i contatti con Mitsuha, Taki non riesce a darsi pace, i suoi ricordi cominciano a svanire, deve fermare il tempo, attualizzare il ricordo attraverso la matita (anche in questo caso l’artista si proietta nel personaggio da lui creato, dall’attante al veggente), trovare la ragazza e dunque trovare se stesso, la parte che si è smarrita o che rimane ancora avvolta nell’ombra.
Taki visita il tempio nel quale Mitsuha aveva depositato il Kuchikamisake; nel bere la bevanda con la quale la ragazza aveva offerto metà di se stessa alla divinità, egli diventa nuovamente Mitsuha, ma questa volta rivive l’esistenza della ragazza sin dal momento in cui questa viene al mondo, come se Taki si gettasse nel vasto oceano della sua memoria, memoria-mondo di un giá-là,12 nella quale cercare di riannodare i fili nell’eterno flusso del tempo, atto fondativo e rifondativo che permette a Taki di ridefinire il proprio essere. Dal nero, momento in cui, nell’universo di Mitsuha, la cometa ha posto fine alla sua esistenza, si passa al risveglio in un tempo passato e in un nuovo universo di mutate possibilità, per riscrivere la storia e riorientare il futuro.
Quando al crepuscolo Taki e Mitsuha sono in grado di vedersi, «due facce che non si confondono»,13 due immagini reciproche in cui avviene uno scambio, ecco che si concretizza l’immagine-cristallo, l’esperienza pura del tempo, la «forma inalterabile riempita dal cambiamento».14
La forma, che è elemento fondamentale nel cinema di Shinkai per esprimere la sua poetica; cerchi, linee, punti, tangenti, il suo cinema porta in sé tutti i segni di una geometria che costruisce e destruttura, annulla e ricrea, sospende il tempo e lo manipola.
Se Deleuze pensava più ad una linea retta sulla quale innestare continui movimenti di retrogradazione, di ritorno non cronologico ad un passato mai stato presente, il movimento di Shinkai sembra piuttosto installarsi su una temporalità circolare mutuata dalla tradizione giapponese e dal suo valore del sacro; non sterile ripetizione ma rapporto attivo e creativo, di mediazione, che permetta di conciliare la cultura giapponese con le influenze occidentali, i valori tradizionali con la tecnologia contemporanea, in un contesto nel quale i confini rimangono costantemente fluidi e riscrivibili.
In Your Name. troviamo innumerevoli esempi di questa tensione. Shinkai combina le figure della tradizione con i moderni apparecchi di trasmissione, i paesaggi naturali con le architetture create dall’uomo, i sistemi di comunicazione mitologici, quale il Kuchikamisake che permette l’incontro tra i due ragazzi, e quelli tecnologici, quale il telefono che consente il dialogo fra i due mondi.
Un sistema circolare che rimanda all’Ensō, il cerchio vuoto della cultura Zen, che unisce il visibile e il nascosto, il vuoto e il pieno; un cerchio aperto, capace di accogliere l’assoluto e che richiama il simbolo occidentale dell’infinito; figure che anche in questo caso Shinkai accosta nel film quando rappresenta il lago di Itomori, circolare prima dell’arrivo della cometa, con la forma dell’otto rovesciato dopo il suo passaggio; entrambi simboli del flusso vitale costante che di continuo si increspa in infinite pieghe, infiniti mondi possibili, che non sono incompossibili, come sosteneva Leibniz, ma «tante isole di regolarità avvolte e bagnate dal mare del caos»,15 nel quale il nostro pensiero coglie indizi, tracce, segni utili alla costruzione di un’identità intesa come divenire, come processo.
Le ripetute aperture delle porte che vediamo nel film delineano accessi a mondi possibili, universi paralleli, soglie sulle quali «gli esseri sono come smembrati, sono tenuti aperti da serie divergenti e dagli insiemi incompossibili che li trascinano fuori di sé».16
«Chiediamo soltanto un po’ d’ordine per proteggerci dal caos»17 dicevano Deleuze e Guattari, tuttavia per vincerlo è necessario attraversarlo. L’artista, come il filosofo e lo scienziato, devono operare all’interno di un caosmos, composizione tra caos e cosmo, armonia e disordine, nel quale serie divergenti si confrontano su un piano d’immanenza per «[d]are consistenza senza perdere nulla dell’infinito in cui il pensiero è immerso»18 e attraverso la frantumazione dell’io in una pluralità di mondi formare una propria personalità.
Un’arte dinamica come quella barocca che Deleuze analizza approfonditamente nel suo libro La piega. Leibniz e il barocco e che, nel suo essere forma dal carattere irregolare e mutevole, la avvicina all’arte giapponese del mondo fluttuante di Hokusai Katsushika.
«Hokusai, nelle sue stampe da matrici in legno, non solo giustappone prospettive differenti e organizzazioni dello spazio divergenti (o incompossibili), ma fa rivivere quella tensione interna tra profondità e superficie, volume e piano, che anima la topologia deleuziana.»19
Le Trentasei vedute del Monte Fuji [Fugaku Sanjūrokkei, 1826-1833] sono l’esempio più evidente della coesistenza di diverse prospettive rappresentate dall’artista de La grande onda di Kanagawa nelle sue opere, stampe nelle quali, alla bidimensionalità della tradizione pittorica giapponese, egli affianca la tridimensionalità della prospettiva lineare importata dall’Occidente.
Prendiamo per esempio la sala Sazai del tempio dei Cinquecento Arhat [Gohyaku-rakanji Sazaidō]. Le figure dei turisti sul balcone sono disegnate da un punto di vista più alto di loro, ma il paesaggio che si estende davanti a noi non è visto dall’alto, piuttosto allo stesso livello.
Il punto di fuga che potrebbe essere naturale trovare nel monte Fuji si allunga invece verso l’orizzonte del cielo, nel quale l’occhio è libero di perdersi.
Il soggetto deve dunque ripensare se stesso continuamente, rispetto al caos, al Fuori, all’Altro, che non è solo un altro soggetto ma anche un altro da sé, il doppio che «non è mai una proiezione interiore, è al contrario un’interiorizzazione del fuori. Non uno sdoppiamento dell’Uno ma un raddoppiamento dell’altro. Non una riproduzione dello stesso, ma una ripetizione del Differente. Non l’emanazione di un Io, ma la immanentizzazione di un sempre altro o di un Non-io. Nel raddoppiamento non è l’altro che è un doppio, sono io che mi vivo come il doppio dell’altro: non incontro me stesso all’esterno; ma trovo l’altro in me.»20
Nella società contemporanea questo fenomeno viene complicato dalla presenza di un sistema di pensiero e di azione regolato da comportamenti sociali ormai istituzionalizzati orientati al massimo profitto con il minimo sforzo, all’oggetto da consumare piuttosto che alla coscienza da formare. Si sono perse le radici e con esse la capacità di ricordare, «chi sei tu?», un interrogativo che ricorre molte volte nel film di Shinkai. All’inizio del film Taki è solo uno studente perso in una grande città, inconsapevole del resto del mondo. Attraverso l’interiorizzazione di Mitsuha (il fuori e la memoria), egli affronta un processo di trasformazione, sia di crescita verso l’età adulta sia di arricchimento nella formazione di una propria individualità, che gli permette di acquisire coscienza del suo essere nel mondo.
Una volta terminati gli studi, Taki cerca lavoro come architetto e durante un colloquio spiega qual è la sua massima aspirazione: «nessuno sa se anche Tokyo un giorno scomparirà dalle mappe perciò vorrei dare il mio aiuto per realizzare un paesaggio architettonico che possa lasciare ricordi commoventi». Egli ha appena espresso uno degli ideali più significativi dell’estetica giapponese, il mono no aware, termine «usato per descrivere un’accettazione serena di un mondo fuggevole, un dolce piacere che si trova nelle occupazioni mondane destinate presto a svanire, un concetto che deriva dalla consapevolezza che si è con il mondo e che lasciarlo è, dopotutto, nello stato naturale delle cose».21
Nonostante Taki abbia perso molto di ciò che vissuto, in lui è rimasto il sentimento, la sensazione di aver provato qualcosa di importante, la nostalgia, quella che Svetlana Boym definisce la nostalgia riflessiva, una nostalgia che «si sofferma sui ruderi, sulla patina del tempo e della storia, sui sogni di un altro luogo e un altro tempo».22
Così quando Taki visita la mostra dedicata alla città di Itomori, intitolata proprio «Nostalgia», la visione delle foto del paese attiva in lui un processo di riconoscimento che fa emergere dal mare dei suoi ricordi una sensazione tale da spingerlo a ritrovare quei luoghi perduti, quel qualcosa di indefinito che sente mancargli.
«Ma allora questo posto esiste davvero, non era solo un sogno», dice Taki quando, al termine del suo pellegrinaggio a Itomori, giunge finalmente nel cratere del santuario, dove è custodito il Kuchikamisake di Mitsuha. Tuttavia il luogo non è esattamente uguale a quello che abbiamo visto quando Mitsuha vi aveva precedentemente depositato il fluido sacro, la sua conformazione è leggermente diversa, il letto del torrente che lo circonda si è ampliato. Ancora una volta l’animazione di Shinkai si fa espressione delle tensioni che attraversano la nostra esistenza, degli infiniti processi di rideterminazione della memoria che si sviluppano nel tempo ma anche nello spazio, di un presente dai contorni fluidi e flessibili nei quali l’identità va continuamente ripensata e riscritta.
Secondo Zygmunt Bauman «[l]a ricerca di identità è l’incessante lotta per arrestare o rallentare il flusso, di solidificare il fluido, di dare forma all’informe».23 Una lotta impari tuttavia, poiché in questa modernità liquida nella quale conta vivere all’istante, ogni cosa sfugge, si deteriora, si smaterializza nel momento in cui si tenta di fissarla e definirla. Una realtà dove non vi sono norme da seguire ma opportunità da cogliere, desideri da soddisfare e insicurezze da ricacciare. I fili del musubi che a volte si intrecciano, a volte si sciolgono, a volte si spezzano, sono oggi incerti legami che faticano a mantenere la loro solidità e a tessere una trama tra passato, presente e futuro, capace di assicurare la coesistenza tra esseri umani intesa come relazione e interazione reciproca, non solo come comunità fondata sulla «buona creanza».24
Un equilibrio difficile quello che cerca Shinkai, una mediazione sensibile tra la corporeità dell’esperienza e l’insopprimibile desiderio di rivolgere gli occhi al cielo, tra il mondo fenomenico e l’armonia del cosmo, nelle pieghe di un tempo destinato infinitamente a sfaldarsi e nel quale «[t]u continui a spostarti, tentando di venirne fuori. Forse non ce la farai, a fuggire dal tempo, nemmeno arrivando ai confini del mondo. Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiù. Perché ci sono cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo.»25
NOTE
1. Maria Roberta Novielli, Animerama. Storia del cinema d’animazione giapponese, Venezia, Marsilio, 2015, pag. 224
2. Maria Roberta Novielli, op. cit., pag. 226
3. Fred Alan Wolf, Parallel Universes: The Search for Other Worlds, New York, Simon & Schuster, 1988, pag. 254
4. Fred Alan Wolf, Ibidem
5. Vedi intervista rilasciata a Little White Lies, pubblicata il 16 novembre 2016: https://lwlies.com/interviews/makoto-shinkai-your-name/
6. Henri Bergson, L’energia spirituale, trad. it. Giuseppe Bianco, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008 (edizione digitale)
7. Henri Bergson, op. cit.
8. Henri Bergson, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, a cura di Adriano Pessina, Roma-Bari, Biblioteca universale Laterza, 2014 (edizione digitale)
9. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, trad. it. Liliana Rampello, Torino, Piccola biblioteca Einaudi, nuova ed. 2017, pag. 97
10. Gilles Deleuze, op. cit. pag. 96
11. Gilles Deleuze, op. cit. pag. 82
12. Gilles Deleuze, op. cit. pag. 115
13. Gilles Deleuze, op. cit. pag. 82
14. Gilles Deleuze, op. cit. pag. 22
15. Davide Tarizzo, La metafisica del caos, saggio introduttivo in Gilles Deleuze La piega. Leibniz e il barocco, Torino, Piccola biblioteca Einaudi, nuova ed. a cura di Davide Tarizzo, 2004 (edizione digitale)
16. Gilles Deleuze, op. cit.
17. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Che cos’è la filosofia, a cura di Carlo Arcuri, trad. it. Angela De Lorenzis, Torino, Giulio Einaudi editore, 1996 (edizione digitale)
18. Gilles Deleuze, Félix Guattari, op. cit.
19. Fabio D. Palumbo, L’estetica del mondo fluttuante: il “giapponismo” di Deleuze, Laboratorio dell’ISPF, XIII, 2016, pag. 7
20. Gilles Deleuze, Foucault. trad. it. Pier Aldo Rovatti e Federica Sossi, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1987, pagg. 99-100
21. Donald Richie, Ozu, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1977, pag. 52, (trad. mia)
22. Svetlana Boym, Ipocondria del cuore: nostalgia, storia e memoria, in Boym, S., F. Lubonja, et al., Nostalgia: saggi sul rimpianto del comunismo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 49
23. Zygmunt Bauman, Modernità liquida, trad. it. Sergio Minucci, Roma-Bari, Laterza, 2011, pag. 88
24. L’espressione “buona creanza”, tradotta dall’originale “civility”, viene definita da Richard Sennett: “l’attività che protegge le persone le une dalle altre ma consente loro di godere della reciproca compagnia. Indossare una maschera è l’essenza della buona creanza. Le maschere permettono una socievolezza pura, isolata da circostanze quali il potere, i malanni e i sentimenti privati di quanti le indossano. Scopo della buona creanza è proteggere tutti dall’essere tediati dagli altri”, in Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista, Milano, Bompiani, 1974, e ripresa da Zygmunt Bauman in Modernità liquida, op,cit., pag. 104
25. Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia, trad. it. Giorgio Amitrano, Torino. Giulio Einaudi editore, 2013, pag. 513