Il 20 febbraio torna nelle sale a distanza di 30 anni Wittgenstein [1993] del regista britannico Derek Jarman, alfiere del New Queer Cinema, ultimo suo lavoro prima della cecità (causata dall’AIDS) e del ripiegamento “anticinematografico” di Blue [1994]. Il film non è un classico biopic sul filosofo austriaco, uno dei pensatori più complessi e criptici del ‘900, ma è un’autentica illustrazione dell’evolversi del suo pensiero in un contesto asettico, teatrale, in cui le vicende assumono i contorni dell’esperimento mentale più che del film di finzione tradizionale.

Servendomi del film tenterò una lettura jarmaniana del cosiddetto “secondo Wittgenstein” (d’ora in poi W2) in contrapposizione al “primo Wittgenstein” (d’ora in poi W1), che rappresenta la fase meno chiara del pensiero del filosofo, perché sostanzialmente proveniente solo da testi incompleti e postumi. La distinzione tra W1 e W2 è invalsa tra gli storici della filosofia, che tendono a considerare le due fasi quasi come appartenenti a due filosofi distinti, dato che il secondo contraddice apertamente il primo.

Prima una premessa metodologica: esplorare o anche solo avanzare vaghe ipotesi sul pensiero di Wittgenstein è impresa che supera le mie forze e travalica i confini della rivista, e servirebbe un dispiego di letteratura sterminata, spesso contraddittoria e frastagliata. La sfida è usare proprio il film di Jarman come “fonte primaria” laddove le questioni si faranno più complesse. L’obiettivo è quello di capire cosa il pensiero di Wittgenstein può dire sul cinema attraverso l’unico film mai girato su di lui.

1. Wittgenstein (non) parla di cinema

Quella inaugurata da W1 è spesso definita nella storia della filosofia una linguistic turn: mettendo il linguaggio al centro della riflessione, W1 (così come W2) ritiene di poter risolvere tutti i problemi della filosofia, dovuti perlopiù a fraintendimenti nell’uso delle parole. Da quel momento una tradizione intera (di matrice anglosassone) concentrerà i propri sforzi teoretici sul linguaggio piuttosto che sulla metafisica, l’etica o la politica, o meglio affronterà i temi classici della filosofia sotto la specie linguistica. Si è poi cominciato a parlare di pictorial turn per la successiva evoluzione di questa linea di ricerca, quando si cominciano a porre le immagini (le rappresentazioni) sullo stesso livello del linguaggio. Ma come spesso avviene la storiografia semplifica e confonde: già W1 nell’unica opera pubblicata in vita, il Tractatus Logico-Philosophicus (TLP) (1921), 1 impostava la problematica del linguaggio sotto un’ottica “rappresentativa”, anticipando di gran lunga i tardi epigoni.

L’ontologia del Tractatus è basata su fatti e eventi (il famoso incipit: “Il mondo è la totalità dei fatti”), riducibili alle loro componenti atomiche inanalizzabili, e che sono poi l’oggetto delle proposizioni. 2 A partire da TLP 2.1 intervengono le immagini: frasi come “L’immagine è un modello della realtà” (2.12) o “L’immagine è un fatto” (2.141) parlano chiaro; “Ciò che ogni immagine deve avere in comune con la realtà (…) è la forma logica, ossia la forma della realtà” (2.174) e “L’immagine logica può raffigurare il mondo” (2.19) aggiungono l’impressione che l’immagine sia un espediente retorico, una metafora, per parlare del rapporto tra linguaggio e realtà. Il linguaggio ha un suo corrispettivo nelle immagini e le immagini sono modelli della realtà, vie di accesso agli oggetti di cui tratta il linguaggio. È in questi termini che viene esposta solitamente questa parte dell’opera; ma molti commentatori hanno sottolineato la natura sostanziale e non meramente metaforica delle immagini nell’ontologia del Tractatus: già un esegeta classico come Anthony Kenny rilevava che “Wittgenstein cerca di chiarire la natura della proposizione attraverso una teoria generale della rappresentazione”, 3 in questo modo la teoria del linguaggio risulta essere (o deve comunque passare da) una preliminare teoria dell’immagine. Roberto Dionigi chiarisce questo punto: “Se la proposizione per dirsi tale deve essere l’immagine di uno stato di cose allora essa stessa deve essere immagine dell’immagine cioè deve riprodurne la forma e corrisponderle punto per punto” 4 per cui una proposizione – oggetto primario della teoria del linguaggio – altro non è che una immagine. Dionigi prosegue: “Pertanto il chiarimento dell’essenza dell’immagine deve precedere il chiarimento dell’essenza della proposizione”. Il linguaggio è subordinato all’immagine. Se poi aggiungiamo che W1 afferma esplicitamente “il fatto per essere immagine deve avere qualcosa in comune con il raffigurato” (TLP 2.16) vediamo come il filosofo intenda parlare di immagine in senso concreto, come rappresentazione visiva, raffigurazione di stati di cose ossia oggetti del mondo. 5 Si fa coincidere l’immagine (che era stata definita quasi tautologicamente un fatto) con la raffigurazione: l’immagine è quel tipo di fatto che è raffigurato. Il sottinteso è che sia raffigurato da qualche parte. Nonostante W1 rimanga sempre piuttosto astratto, in un passaggio si lascia andare a esempi guarda caso di tipo “artistico”: “il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore stanno tutti l’uno con l’altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo” (TLP 4.014). Curioso che Wittgenstein, che tanto ha parlato di immagini, non abbia mai citato il cinema in una sola riga da lui scritta; e non lo fa nemmeno quando elenca esempi di rappresentazioni che stabiliscono un ponte tra linguaggio e realtà, una intermediazione raffigurativa. Affermare che le proposizioni hanno una forma logica che è isomorfa a quella della porzione di realtà che “dicono”, e che sono quindi immagini, è come affermare che la forma d’arte più simile alla forma dinamica della realtà, il cinema, è la più prossima a parlare del mondo. E infatti Wittgenstein dirà tutta la vita che compito della filosofia non è dire le cose ma mostrarle: ciò che appunto fanno le arti visive.

Ma l’immagine può tutto? Racchiude in sé tutta la forma logica della realtà? “La sua propria forma di raffigurazione, tuttavia, l’immagine non può raffigurarla; essa la esibisce” (TLP 2.172), passaggio ancor più chiaro poco dopo: “L’immagine non può tuttavia porsi fuori della propria forma di rappresentazione” (TLP 2.174). Come a dire che l’occhio può vedere tutto tranne sé stesso, necessariamente è esso stesso il limite del mondo. Di nuovo W1 dice delle immagini ciò che dice del linguaggio: il linguaggio non può parlare di sé stesso, mostrare come esso stesso funziona, idea cripticamente sancita nella famosa asserzione che “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” (TLP 5.6).

Non esiste verità dell’immagine che sia extra-raffigurativa. L’immagine rappresenta dal di fuori l’oggetto (riprende l’oggetto, se parliamo di cinema) ma non sé stessa: è come se fosse il metalinguaggio descrittivo degli oggetti e per parlare di sé avesse bisogno di un metametalinguaggio di cui è oggetto a sua volta. Se descrivesse sé stessa all’interno dei propri codici espressivi diventerebbe semplicemente un altro degli oggetti della rappresentazione ma la sua “forma di rappresentazione” specifica rimarrebbe fuori. In breve sia il filmico che il profilmico sono “fatti”, nel senso wittgensteiniano, non possono darsi fuori dal linguaggio. Il profilmico non è un fatto che può esistere come tale fuori dal filmico (o meglio la sua essenza coincide con la sua raffigurazione). Il filmico non può essere guardato da un’altra prospettiva: quando Jodorowsky svela il set nel finale de La montagna sacra [La montana sagrada, A. Jodorowsky, 1973] non svela la forma propria della raffigurazione ma fa semplicemente entrare il set nel profilmico. Non si esce dalla prigione del linguaggio, che lo si intenda in senso verbale o visivo. C’è una differenza però: il linguaggio naturale secondo W1 è concepibile solo perché ha una struttura logica che è isomorfa a qualcosa di raffigurato. E dato che ciò che concerne il linguaggio non si può dire nel linguaggio stesso ma si può solo mostrare, esso è in qualche modo subordinato alla forma, all’immagine, a una ideale iconologia. Per W1 è la logica matematica che – col suo linguaggio formale – getta un ponte disambiguante tra linguaggio naturale e mondo. E in questo ha influenzato molti pensatori dell’epoca. 6 Ma come si è visto in molti passaggi W1 sembra anticipare la rivoluzione di W2 per come la interpreterà Jarman: serve un linguaggio che parli per immagini perché la forma del mondo sia esprimibile. 7

Torniamo alla proposizione 2.18: “Ciò che ogni immagine di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà per poterla raffigurare (…) è la forma logica della realtà” (corsivo mio). Quindi mentre le parole hanno una struttura logica soggiacente che si traduce in immagini, le immagini a loro volta attingono alla forma logica della realtà (cfr. TLP 2.1511). In pratica W1 aggiunge un passaggio ulteriore alla “gerarchia delle copie” che Platone in Repubblica e Ione esponeva per dimostrare che pittura e poesia sono di tre gradi distanti dalla realtà effettiva. 8 Se le Idee nell’Iperuranio sono la “vera” realtà, gli oggetti terreni prodotti dagli artigiani, che si rifanno alle idee, sono copie della realtà. Ma allora pittura e poesia che trattano di questi oggetti sono copie di copie. W1 distinguerebbe poesia (e filosofia o qualunque cosa sia dipendente dal linguaggio naturale) e pittura (e cinema): la prima starebbe sotto la seconda in quanto copia di copia di copia della realtà. Ecco che qui – implicitamente – Wittgenstein, se si considera la gerarchia platonista delle imitazioni, è come se appoggiasse l’idea di una sostanziale differenza di grado tra “arti” come il cinema e la poesia. Quindi tra l’imitazione della forma logica 9 e l’imitazione della imitazione della forma logica. Il linguaggio descrive un fatto, che “ha” una immagine, che a sua volta è un fatto che attinge alla forma logica della realtà.

Sembrerebbe di trovarsi di fronte a una ideale teoria cinecentrica del mondo ma le cose non sono così lineari e l’evoluzione del pensiero di Wittgenstein, cioè il passaggio da W1 a W2, sancisce un ritorno alla dimensione del linguaggio ordinario mantenendo però – e qui si inserisce il discorso di Jarman – l’ideale di un pensiero che “mostri” piuttosto che parlare.

2. Jarman (non) filma la filosofia

Come si è anticipato Jarman non mette semplicemente in scena la vita di Wittgenstein ma ne illustra il pensiero, anzi sottomette quella a questo; modifica in alcuni punti la realtà storica per permettere ad alcune nozioni di giungere alla coscienza degli spettatori. In questo il suo film non può che essere catalogato sotto l’etichetta di film-saggio 10 in quanto il suo intento è portare avanti una tesi (anche se in apparenza questa è la tesi di Wittgenstein e non quella di Jarman) e far convergere i procedimenti estetici in questo desiderata.

Alcune scene sono addirittura dialoghi tra il giovane Ludwig e un alieno di nome Mr. Green al quale il futuro filosofo deve spiegare gli oggetti della realtà attraverso l’uso del linguaggio: un esperimento mentale che Wittgenstein non scrisse mai ma che senza dubbio avrebbe apprezzato, una situazione-limite che fa emergere il compito chiarificatore e terapeutico della filosofia.

In fondo la convinzione neopositivistica di depurazione del linguaggio dalle pastoie metafisiche ha qualcosa di ascetico e non a caso lo stesso Tractatus si conclude con la riflessione sul Mistico; è necessario per il filosofo che vuole pensare il linguaggio (e quindi il mondo) nella sua radicalità liberarsi dalla educazione e dalla identità precedente (liberarsi di un io ingombrante) per accedere a una nuova dimensione. Jarman rappresenta questo processo in un campo medio in cui alcuni uomini e donne anonimi leggono insistentemente al futuro filosofo dei libri mentre lui si tappa le orecchie.

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Andiamo con ordine e vediamo come la pellicola del ‘93 affronta i temi discussi nel paragrafo precedente e dove avviene la frattura tra W1 e W2.

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Per stabilire la certezza delle proposizioni il giovane Ludwig e Mr Green sono costretti prima a “mostrare” le cose (“Cos’è una mano?” chiede Ludwig; “Questa ad esempio” risponde l’alieno esibendo la sua) esattamente l’operazione auspicata da W1; poi attingono alla realtà cioè al set e come esempi di proposizioni certe, vale a dire banalmente empiriche, l’alieno propone: “Questo studio cinematografico è a Waterloo”. Ma qualcosa di non certo permane: “Come faccio a sapere che tu sei Ludwig Wittgenstein?”, domanda alla quale il filosofo non sa rispondere. Anche questo passaggio è perfettamente in linea con W1 laddove in TLP 5.631 e 5.632 (“Il soggetto non è parte ma limite del mondo”) si definisce l’io allo stesso modo dell’immagine e del linguaggio: qualcosa che vede il mondo ma ne sta necessariamente fuori, è in esso col suo linguaggio indefinibile. O guardiamo l’uno o l’altro, come Wittgenstein e il suo amante che guardano il film di Jarman e riflettono su cosa significa “vedere” ma a quel punto siamo noi a non vedere più il film e a vedere solo loro (almeno il film-oggetto. Nel concreto vediamo ancora il film di Jarman e non possiamo uscirne come non possono farlo i suoi abitanti).

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Quando Wittgenstein è ormai, grazie alla pubblicazione e alla diffusione del Tractatus, un pensatore rinomato e insegna a Cambridge ecco che Jarman ce lo mostra disegnare la sagoma di un cane alla lavagna davanti a studenti attoniti. Il significato della parola “cane” sta nella sua forma visiva e egli invita a cercare lì il significato e non in una qualche teoria interiore.

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In questa scena c’è una leggera confusione tra le posizioni di W1 e W2 ma è anche vero che Jarman sta rappresentando un pensiero nel suo farsi e lo stacco tra le due fasi chiaramente non può essere stato netto come si percepisce dagli scritti. Ciò che conta però è che qui ancora (diversamente da ciò che ci verrà mostrato in seguito) Wittgenstein dimostra di cercare la verità del linguaggio nelle immagini, è ancora convinto che la forma logica degli enunciati abbia qualcosa a che fare con la forma logica della realtà, è persuaso che tra le due ci sia una visibile parentela. La scena è la di-mostrazione lampante della proposizione 2.141 citata più sopra: Jarman esibisce una filosofia, quel claim che Wittgenstein anela ma che con l’atto dello scrivere non può per definizione realizzare.

Nella lezione successiva, a mutazione ormai avvenuta, la scena si presenta in modo diverso: Wittgenstein è in piedi davanti a una lavagna vuota, non ci sono più immagini e dichiara il suo scacco: “Credevo che il linguaggio ci desse un’immagine del mondo” ma deve arrendersi all’evidenza che non solo non è così (per i paradossi spiegati nel paragrafo precedente) ma la stessa forma logica degli enunciati non riesce a esprimere una serie di verità linguistiche che solo l’uso che se ne fa comunemente può chiarire. Ecco perché ora compito della filosofia non è logico ma pragmatico: descrivere il linguaggio ordinario.

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Confrontando le due scene con metodo wittgensteiniano vediamo che sotto l’apparente struttura simile soggiace una “forma visiva” differente. Se W1 campeggiava scontroso, ripreso talvolta leggermente dal basso, con molti primi piani e pochissimi controcampi sugli interlocutori, adesso Jarman dedica più spazio e attenzione a tutti gli uditori, dedicando loro singole inquadrature, mentre il filosofo (ora W2) è schiacciato in un campo medio accerchiato dagli stessi. I vari volti sono le varie “forme di vita”, come dice Wittgenstein, i vari punti di vista attraverso i quali si esprime e va indagato il linguaggio, senza la pretesa di aspirare a un linguaggio ideale. La lezione ancora successiva è ancora più chiara: non solo Wittgenstein esprime le sue ultime verità ma stavolta manca tra gli uditori il Russell interpretato da Michael Gough, simbolo della concezione logica del linguaggio definitivamente abbandonata.

Lo shift filosofico qui è rimarchevole: se in un testo scritto affermiamo che il linguaggio non è immagine del mondo (W2) perché non ci può far vedere quello che fa (essendo esso per necessità fuori dal mondo che descrive), in un film cambia il senso della proposizione. Ci viene mostrato chi fa/attua la proposizione, lo scacco del verbale è meno paradossale perché espresso visivamente, il soggetto che la pronuncia è nel mondo (il mondo narrativo, certo, ma il mondo specifico descritto dal linguaggio-cinema). La verità è dipendente dal contesto d’uso, come vorrebbe W2, e Jarman non nasconde (anche nel necrologio finale) di preferirlo al suo clone: per lui sono lo stesso individuo, non accetta in un certo senso la distinzione operata dagli storiografi, perché vede la sua filosofia come il prodotto coerente di una ricerca umana interiore che guarda caso coincide in parte con una scoperta legata alla sessualità. Difatti Wittgenstein accetta e vive concretamente la sua omosessualità, cosa che nella realtà non fece mai (morì probabilmente vergine), e dalla relazione con uno studente trae parte delle intuizioni che lo conducono alle verità finali. Jarman durante il film ci ha mostrato un pensiero, condotti per mano alla verità filosofica di Wittgenstein che è per lui innanzitutto una verità esistenziale. Ci ha mostrato attraverso la raffigurazione del gesto x che non c’è struttura logica dietro il gesto x (io stesso non posso esibirla: il lettore può capire il gesto solo guardando la scena corrispondente nel film). Ovviamente il paradosso di Wittgenstein si riproduce all’interno dello stesso linguaggio visivo del cinema. Il film può mostrarci la verità di una pragmatica del linguaggio irriducibile alla sua forma logica ma non può mostrarci la forma logica delle sue “verità visive”, per il motivo detto sopra (il paradosso di Jodorowsky potremmo chiamarlo).

Jarman come il secondo Wittgenstein non può più credere al potere terapeutico delle immagini perché stanno per scomparire dalla sua vita: la cecità incipiente porterà a rivalutare l’assenza di immagini in Blue. Ma dà una personale risposta alla questione contemporanea (e molto anglosassone) sui rapporti che intercorrono o dovrebbero intercorrere tra filosofia e cinema: il cinema può fare filosofia? La risposta di Wittgenstein, astrattamente, è che la filosofia non dice ma mostra. Jarman la completa concretamente mostrandoci la banale verità che il cinema fa esattamente la stessa cosa.

NOTE

1 L’edizione a cui farò riferimento è L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi 1961.

2 Per una introduzione al tema rimando a A. Newen, Filosofia analitica, trad. it. di V. Zini e P. Scaltriti, Einaudi 2010, pp. 64-67 e a L. Perissinotto, Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli 1997.

3 A. Kenny, Wittgenstein (1973), trad. it. di E. Moriconi, Bollati Boringhieri 1984.

4 R. Dionigi, La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia, Quodlibet 2001, p. 42 (ma vedere i capp. I e II).

5 D’altronde la relazione di raffigurazione è una delle condizioni necessarie “perché in generale qualcosa sia una immagine” (R. Dionigi, op. cit., p. 43).

6 Uno dei testi chiave a tal proposito, di dichiarata ispirazione wittgensteiniana, è R. Carnap, La costruzione logica del mondo (1928), trad. it. di E. Severino, Mondadori 2009, dove viene detto: “Il linguaggio fondamentale del sistema di costituzione è il linguaggio simbolico della logicistica” (p. 275).

7 Merita uno studio a sé l’analogia tra il procedimento che Wittgenstein auspica per la logica in Some remarks on Logical form (1929) e le intuizioni alla base della creazione della Teoria matematica delle Categorie avute da Saunders MacLane così come descritte in W. Lawvere, S. Schaunel, Conceptual Mathematics, Buffalo Press 1991, Prologo. Il filosofo austriaco fa una analogia tra il rapporto che intercorre tra retta e sua proiezione su un piano e quello che dovrebbe intercorrere tra enunciato e mondo; la nozione matematica di categoria descrive le relazioni tra oggetti matematici tramite relazioni tra forme, donando centralità al concetto di morfismo: la somiglianza poco indagata tra il paper di Wittgenstein e l’approccio di MacLane è sorprendente.

8 G. Reale, Per una rilettura e una corretta interpretazione del dialogo “Ione” in Platone, Ione, trad. it. di G. Reale, Giunti 2017, pp. 49-53.

9 Wittgenstein e i neopositivisti hanno sostituito le formule della logica alle idee, ma l’impressione è quella di essere rimasti all’interno del paradigma platonista, in cui l’ideale a cui attingere non è nell’iperuranio ma nella matematica (“La logica è trascendentale” (TLP 6.13)). Non a caso è Alfred North Whitehaed, uno dei padri del paradigma logicista ad aver affermato: “L’intera storia della filosofia occidentale è una nota a pie’ pagina a Platone”.

10 Cfr. I. Perniola, Chris Marker, o del Film-Saggio, Lindau 2011.