This essay on Philippe Grandrieux’s White Epilepsy has been translated: please click HERE for the ENGLISH VERSION.

 

  

Uno degli aspetti più significativi del cinema di Philippe Grandrieux risiede indubbiamente nel rapporto contrastato che le immagini dei suoi film intrattengono con la narrazione. Se buona parte della critica è infatti concorde nel sottolineare come il cinema di Grandrieux sia poco interessato alla costruzione di una struttura narrativa, bisogna altresì osservare che tutti e tre i lavori di finzione del regista, da Sombre [id., 1998] fino a Un lac [id., 2008], passando per Nuova vita [La Vie nouvelle, 2002], presentano una storia, riconfigurata di volta in volta con poche, impercettibili variazioni: l’amore impossibile di un uomo per una donna. In particolare, bisogna notare che in questi film la traccia narrativa, pur risultando ovviamente secondaria rispetto agli elementi più specificatamente “filmici” (p.e. illuminazione, soundtrack, montaggio, ecc.), assume un ruolo tutt’altro che marginale nel consentire allo spettatore di accedere all’universo grandrieuxiano. Pertanto, parlare di disinteresse del regista nei confronti della narrazione si tratta di una vera e propria semplificazione attuata ai danni di un corpus di opere invero stratificate e non analizzabili unicamente col grimaldello del “cinema-esperienza”. L’universo grandrieuxiano, anche quando sembra abbracciare una dimensione istintuale del filmare, mette sempre in atto, con incredibile precisione, una serie di procedimenti – tanto formali quanto, appunto, narrativi – con lo scopo confrontare lo spettatore con un universo inconscio di apparizioni fantasmatiche che, come nel cinema di David Lynch, risultano tanto più intense quanto più sono inserite in un contesto che vede il coinvolgimento emozionale dello spettatore.
Proprio questi procedimenti formali e narrativi diventano il soggetto esplicito del quarto film di Grandrieux, White Epilepsy. Girato quattro anni dopo Un lac, e dieci anni dopo La Vie nouvelle, il film esplora orizzonti visivi e narrativi originali, arrivando per la prima volta a un azzeramento di tutti quegli elementi – psicologie dei personaggi, progressione drammatica – presenti, seppure in una forma minimale, nei film precedenti del regista. Apparentemente, White Epilepsy racconta ancora una storia, sebbene questa sia leggermente differente da quelle dei precedenti lavori di Grandrieux. Il film registra sullo schermo una misteriosa cerimonia: di notte, quattro figure umane emergono dall’oscurità della foresta. Quello che dunque sembra essere un soggetto particolarmente grandrieuxiano – figure umane, nude, immerse nella notte – si rivela invero il meno riducibile a quello schema narrativo minimale che sorreggeva i lavori precedenti dell’autore. In White Epilepsy, il cinema di Grandrieux cerca di captare le forze che attraversano il reale tornando alla materialità del dispositivo (p.e. lavorando sull’esposizione, sulla velocità dei fotogrammi, sul sonoro), senza appoggiarsi a una traccia narrativa consolidata.
Questo non vuol dire, ovviamente, che il regista si disinteressi della dimensione più specificatamente narrativa della sua opera: piuttosto, Grandrieux stavolta fa coincidere definitivamente la storia del film con quella della sua realizzazione, attuando la configurazione di una nuova narrazione organizzata in termini di intensità.
Da questo punto di vista, White Epilepsy, al contrario dei lavori precedenti di Grandrieux, si configura più come un oggetto plastico che come un lungometraggio di finzione: primo capitolo di un trittico che si sviluppa su più piattaforme (video-installazioni, performance, ecc.), il film, pensato originariamente come una performance da svolgersi in teatro con una danzatrice, rappresenta un nuovo capitolo della ricerca del regista di un cinema “figurale”, capace – vedremo – di configurare attraverso modalità formali rigorose un’esperienza sensuale dello spazio filmico e delle forme che lo abitano1.

Autoriflessivo fin dal titolo, White Epilepsy è il film di Grandrieux che indaga nella maniera più diretta la nozione di figura. Dare una definizione univoca di figura è un’impresa pressoché impossibile2: la riflessione sul suo ruolo in campo artistico e filosofico ha attraversato, con forti oscillazioni di significato, alcuni dei più importanti testi teorici degli ultimi anni, soprattutto francesi, a partire da Discorso, figura (1971) di Jean-François Lyotard, fino ai lavori più recenti di Jacques Aumont (A cosa pensano i film, 1996) e Nicole Brenez (De la Figure en général et du Corps en particulier. L’invention figurative au cinéma, 1998).
In Italia, invece, è toccato al critico e studioso torinese Paolo Bertetto il compito di approfondire la riflessione teorica intorno all’analisi figurale del testo filmico. A tal proposito, risulta esemplare, nonostante la brevità, il saggio L’immagine filmica e il figurale presente nel libro Lo specchio e il simulacro: il cinema nel mondo diventato favola (2007), in cui Bertetto ricava direttamente da Lyotard due caratteristiche essenziali della figura: «la figura – scrive lo studioso italiano – è insieme configurazione formale di elementi visivi, emergenza della visibilità, evento e investimento dell’espressività soggettiva, formazione complessa legata all’antropomorfico […] ma […] anche defigurazione, violazione del profilo e dei contorni visibili, relazione con il desiderio e la forza, che la modificano e la alterano radicalmente.»3
A partire dalle parole di Bertetto, si potrebbe essere tentati di definire la figura come il fatto intensivo, fantasmatico, di un’immagine (Brenez la chiama «la forza di una rappresentazione […] ciò che nel visibile tende all’Inesauribile»4); come quel qualcosa che è oltre l’immagine ma, allo stesso tempo, può esistere soltanto dentro l’immagine. Di fatto, nel cinema di Grandrieux, ciò che Bertetto chiama l’emergenza della visibilità, l’irruzione del figurale nel testo del film, si accompagna sempre a un profondo lavoro di defigurazione, che sconvolge tanto l’ordine narrativo quanto la struttura materiale dell’immagine.
Da questo punto di vista, La Vie nouvelle ha segnato una data nella filmografia di Grandrieux. Nel capo d’opera realizzato nel 2002, il lavoro di defigurazione che accompagna l’irruzione del figurale nel testo filmico è duplice: da una parte, stravolge la superficie dell’immagine, il cui supporto spazia dal video alla pellicola (eccetto un paio di scene, La Vie nouvelle è stato girato su una pellicola 35mm); dall’altra, opera direttamente sulla superficie dei corpi filmati, disgregandoli attraverso il movimento spasmodico della macchina da presa oppure, come in una delle sequenze più importanti del film, attraverso l’utilizzo di una camera termica. Il risultato è che i corpi permangono nell’immagine come traccia incorporea di movimento o di calore, estrinsecandosi però nella forma sensibile di materia-cinema (luce, immagini, suoni).

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Due fotogrammi de La Vie nouvelle. I corpi si estrinsecano nell’immagine nella forma incorporea di movimento (primo fotogramma in alto) e di calore (secondo fotogramma).

Il medesimo lavoro di defigurazione sensuale della superficie dei corpi e delle immagini si ripete anche in White Epilepsy – film non a caso girato totalmente in digitale –, con la differenza che qui Grandrieux porta all’estremo i procedimenti espressivi delle sue opere precedenti, esplicitando il processo che presiede alla costruzione delle immagini del suo cinema; più precisamente, facendo di questo processo energetico, o per meglio dire, incorporeo (l’immagine digitale è pur sempre il risultato di un processo di codificazione e decodificazione di informazioni), un momento fondamentale dell’irruzione del figurale nel testo del film5.
Da questo punto di vista, il primo riferimento del cinema di Grandrieux, e di White Epilepsy in particolare, non è l’opera di un regista, ma quella di un pittore, l’irlandese Francis Bacon, riletto attraverso uno dei più interessanti studi monografici che gli sono stati dedicati, la Logica della sensazione (1981) di Gilles Deleuze. È infatti sufficiente leggere qualche pagina della Logica della sensazione per comprendere immediatamente quanto sia profondo il legame fra la figura attivata in White Epilepsy e quella protagonista dei dipinti del Francis Bacon analizzato da Deleuze. È lo stesso regista, d’altronde, ad evocare, nelle interviste relative a White Epilepsy, i “concetti” deleuziani di “figura”, “figurale e di “evento”, contrapponendo il film alla logica narrativa (leggi illustrativa) del cinema tradizionale. «In White Epilepsy – confessa il regista – non ci sono più domande sui personaggi e sulla loro psicologia, su come la storia si sviluppa da questi personaggi. Tutto verte sull’evento: qualcosa accade. Interrogare l’evento è il nucleo del film, piuttosto che lo sviluppo della storia.»6
In una delle interviste citate da Deleuze e raccolte nel libro La brutalità delle cose: conversazioni con David Sylvester (1991), Bacon, mentre spiega il proprio modus operandi al critico, ammette che il desiderio di configurare il reale attraverso modalità pittoriche «totalmente illogiche» rappresenta forse l’elemento più importante del proprio metodo di lavoro. Grandrieux, che ha letto il libro curato da Sylevster, sembra aver assorbito proprio questo passaggio, proseguendo con i suoi film nella medesima direzione. Comunicare il mistero del reale – la presenza insensata delle cose – attraverso il mistero dei processi di rifigurazione a cui questo viene sottoposto dalla macchina da presa e dal lavoro della messinscena è infatti l’obiettivo di White Epilepsy e forse ciò avvicina maggiormente il film di Grandrieux all’opera del pittore irlandese. Di fatto, nel cinema di Grandrieux le immagini non si susseguono rispettando la traccia narrativa inizialmente proposta, ma sembrano piuttosto obbedire a una legge misteriosa che privilegia l’intensità e la qualità sensoriale, ipnotica, delle singole inquadrature sui personaggi e la linearità della narrazione. Non è un caso allora che White Epilepsy – che è il film di Grandrieux che azzera con maggiore radicalità la psicologia e la progressione drammatica – introduca “plasticamente”, fin dalla prima sequenza, lo spettatore dinanzi a un corpo totalmente mentale, fantasmatico: di fatto l’immagine risultante dal processo di riconfigurazione sopracitato – che è innanzitutto un processo figurale – non può che essere un’immagine attraversata da forze misteriose, un’immagine del desiderio che oggettiva un fantasma. Da questo punto di vista, l’incipit di White Epilepsy rappresenta un momento paradigmatico del film e del fare cinema grandrieuxiano: una donna emerge dall’oscurità – dal “nero” dello schermo -, inquadrata di spalle, con un piano fisso della durata di 6 minuti circa, comunicando nient’altro che il mistero della presenza insensata della carne.

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L’incipit di White Epilepsy rappresenta un momento paradigmatico del cinema di Grandrieux. Il corpo di una donna, ripresa di spalle, emerge lentamente dal nero dello schermo. La sequenza, oltre ad immergere lo spettatore in una realtà misteriosa e perturbante, sensorialmente densa, configura una sorta di duplicazione dell’esperienza di visione. Come in un vertiginoso gioco di specchi, l’attante è radicalmente immerso nell’oscurità; lo spettatore si trova al buio, nella sala cinematografica. Anche per questo, fruire White Epilepsy al cinema, assieme agli altri spettatori, rappresenta il naturale prolungamento del progetto filmico di Grandrieux. 

La domanda che sorge automatica durante la visione della prima sequenza di White Epilepsy è la questione spinoziana intorno a cui ruota tutto il cinema “figurale” di Grandrieux: che cosa può un corpo? O meglio, che tipo di relazione si instaura tra il corpo che sta dinanzi alla macchina da presa e l’immagine che lo rifigura?
Pur senza addentrarsi nei territori della New French Extremity, White Epilepsy fa parte di quell’insieme di film francesi realizzati di recente che riflettono sulle modalità di configurazione del corpo. Di fatto, il soggetto del film di Grandrieux non è il rituale sensuale ed enigmatico, batailleano, che si consuma tra quattro figure nude in un bosco, di notte; piuttosto, è l’insieme dei procedimenti formali attraverso cui questa misteriosa cerimonia viene infine configurata. Gettati nell’oscurità, i quattro attanti protagonisti di White Epilepsy (i danzatori Hélène Rocheteau, Jean-Nicolas Dafflon, Anja Röttgerkamp e Dominique Dupuy) vengono stretti da Grandrieux in un’inquadratura dal formato rettangolare, con un insolito aspect ratio di 9:16, che richiama la forma di una feritoia (non a caso il seguito di White Epilepsy si intitola Meurtrière [id., 2015], che significa letteralmente “feritoia”) e dunque l’idea che lo spettatore stia assistendo, nascosto, a uno spettacolo proibito. Il formato verticale dell’immagine è un elemento essenziale del progetto estetico di Grandrieux: esso isola i corpi e li deforma, come nei ritratti di Bacon. Proprio a proposito della strategia figurativa del pittore irlandese, Deleuze, nella Logica della sensazione, nota come quest’ultimo sia solito isolare e delimitare le figure attraverso una figura geometrica, perché «isolare – scrive – è il modo più semplice, necessario ma non sufficiente, per rompere con la rappresentazione, spezzare la narrazione, impedire l’illustrazione, liberare la Figura [corsivo del redattore]»7.

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Sopra: Francis Bacon, Study for the human body, 1949. Il corpo umano, isolato dal tendaggio, diventa «figura».

In White Epilepsy, Grandrieux fa qualcosa di simile attraverso l’insolito formato verticale dell’immagine. I corpi del film sono chiusi in una cornice rettangolare, estratti e isolati: tra di loro non vi sono rapporti narrativi ma ciò che Bacon definisce matters of fact – relazioni che sfuggono all’approfondimento psicologico. Di fatto, ad abitare l’universo sensuale di White Epilepsy non sono più dei personaggi ma piuttosto delle figure.
Proprio la differenza di significato che intercorre in termini narratologici tra la nozione di “figura” e quella di “personaggio” rende esplicito il particolare rapporto che il cinema di Grandrieux intrattiene con le forme del racconto. Di fatto lo spettatore non accede al mondo di White Epilepsy attraverso la psicologia dei personaggi ma piuttosto attraverso l’illuminazione, la composizione delle inquadrature, il sonoro e il montaggio. Abbiamo già detto che nei film precedenti di Grandrieux la presenza di una traccia narrativa minimale rendeva quest’accesso più semplice, favorendo la costruzione di un intenso rapporto emozionale fra spettatore e immagini. Quelli costruiti da Grandrieux erano sempre universi popolati da figure, che emergevano però a stretto contatto con un tessuto narrativo riconoscibile. In White Epilepsy, invece, non vi è più una storia da raccontare: lo spettatore può accedere alle immagini soltanto esperendo sensualmente le forme del film.
Per questo, assieme al formato verticale dell’immagine, risulta altresì fondamentale l’oscurità impressa dal regista alla maggior parte delle inquadrature di White Epilepsy. Nella prima parte del film, i corpi dei protagonisti, prima di essere “de-rappresentati” attraverso gli strumenti formali caratteristici del cinema grandrieuxiano (il ralenti, l’out of focus, la sottoesposizione e la sovraesposizione), sono immersi nell’oscurità; le fasce del formato sono nere. Il formato, allora, sconfina nelle immagini del film, inglobando le figure, e viceversa. Qui il film attua, anche grazie al formato verticale, una rifigurazione e un’enfatizzazione del meccanismo di visione cinematografica: come i corpi degli attanti sono immersi nell’oscurità, così lo spettatore che si trova al cinema è immerso nel buio. Lo sconfinamento del formato nell’immagine segna inoltre l’inizio di quella che Raymond Bellour, nel fondamentale Fra le immagini (2002), definisce la “congiuzione” in uno stesso spazio del “corpo rappresentato” nel “corpo de-rappresentato”8, che, ricorda Nicolò Vigna nel suo articolo per Lo Specchio Scuro9, è il soggetto del cinema di Grandrieux. Di fatto, il formato verticale in cui vengono stretti i corpi di White Epilepsy non consente solo l’isolamento e l’estrazione, ma anche la deformazione della figura, passaggi essenziali perché perché lo spettatore possa esperire sensualmente l’universo di White Epilepsy e il film attivare un’esplorazione del “corpo senza organi”10 protagonista delle opere di Deleuze, Bataille e Antonin Artaud.

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Sopra: Three Studies for a Crucifixion (1944) di Francis Bacon.
Sotto: White Epilepsy di Philippe Grandrieux.

Come si è avuto modo di specificare nell’articolo dedicato a La Vie nouvelle, nell’analisi di Deleuze della pittura di Bacon il “corpo senza organi” è strettamente connesso alla nozione di figura. Deleuze e Bacon concordano che è impossibile attuare una rappresentazione razionale e ordinata dell’irrappresentabile: con modalità non dissimili da quelle che caratterizzano l’informe batailleano, le figure dei quadri di Bacon eccedono il discorso, sfuggendo a qualsiasi tentativo di riduzione illustrativa, attraversate da forze misteriose che le allungano e le sfigurano, fino a trasformarle. Di fatto, il rapporto di coalescenza tra visibile e invisibile è il soggetto principale della cosiddetta arte figurale, dalla letteratura erotica di Bataille fino al cinema di Grandrieux.
Nel tentativo di esplorare questo rapporto (che si specchia, a livello narrativo, nella differenza di significato che intercorre tra la parola “figura” e “personaggio”), White Epilepsy fa subire al visibile e e all’udibile complesse modalità di riconfigurazione. Di fronte all’impossibilità di rappresentare l’irrappresentabile, Grandrieux in White Epilepsy eleva a soggetto quel processo intensivo e allucinato di configurazione/de-figurazione del visibile e dell’udibile che è non solo effetto ma anche causa, essenza del figurale.
Nel fare questo, Grandrieux, oltre al formato, utilizza due particolari procedimenti espressivi: il ralenti e la deformazione post-prodotta delle immagini e dei suoni.
Il ralenti, inscritto filmicamente, durante le riprese, attraverso una variazione del frame rate, agisce in modo tale da “spezzare” la rappresentazione dei corpi, che diventano, utilizzando nuovamente un’espressione cara a Deleuze, «Figure liberate», ovvero figure non sottoposte al primato della narrazione e dell’intelligibile. Se filmare il Reale, le réel, secondo Grandrieux, è l’obiettivo principale del cinema, White Epilepsy è il film del regista che più si avvicina a realizzarlo. Lo stesso Grandrieux, interrogandosi sulle proprietà sensuali del mezzo filmico, si chiede: «che cosa sarebbe il cinema se potesse rendere le immagini direttamente [corsivo del redattore], senza interruzioni, senza rappresentazioni?»11. La prima parte di White Epilepsy cerca di rispondere a questa domanda. Filmare senza la mediazione della rappresentazione il Reale vuol dire, di fatto, assottigliare la distanza che intercorre tra il cervello dello spettatore e i corpi che passano sullo schermo. È la questione, intimamente bateilleana, nonché epsteiniana, intorno a cui ruota tutto il cinema di Grandrieux: come rendere, attraverso il cinema, qualcosa che non può essere rappresentato? O, per meglio dire, come renderlo sensualmente?
La scelta di girare in digitale, svincolando una volta per tutte l’immagine dalla realtà a cui si riferisce ed enfatizzando piuttosto il processo interiore ed erotico di costruzione del film, si rivela da questo punto di vista cruciale. Non vi sono stacchi di montaggio nella prima parte di White Epilepsy, ma solo dissolvenze in nero. Il digitale, infatti, ancor più della pellicola, permette al regista – che è anche operatore di ripresa, con la conseguenza che lo shooting si trasforma in una vera e propria esperienza erotica – di lavorare sulla durata e sulle proprietà deformanti, allucinate, “figurali”, dell’immagine, preservandone altresì le qualità sensuali attraverso accorgimenti tecnici quali, ad esempio, la variazione dei tempi di esposizione e l’intensità dell’illuminazione. Nel film di Grandrieux, d’altronde, non agiscono soltanto forze d’isolamento prodotte dal formato verticale e rettangolare, ma anche forze di dilatazione – di defigurazione – indotte dai prolungati tempi di ripresa (cfr. il collage qui sotto).

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Nella sequenza di apertura di White Epilepsy, Grandrieux attua un vero e proprio “studio del corpo umano”, alla maniera di Bacon. Il corpo nudo dell’attante è sottoposto alla variazione dell’illuminazione e alla forza del tempo.

Il sonoro di White Epilepsy si costruisce attraverso il medesimo processo di configurazione/de-figurazione a cui sono sottoposte le immagini del film: anch’esso rallentato, è pressante, ansiogeno e vibrante. Grandrieux, assieme alla moglie Corinne Thévenon, ha raccolto i suoni sul set per poi modificarli artificialmente assieme ad altri suoni raccolti successivamente alla fine delle riprese. Il risultato è un tappeto sonoro complesso, costruito perlopiù finzionalmente, che somma, deformandoli, il respiro degli attanti e i rumori del bosco di notte, permettendo così allo spettatore di accedere a un universo inquietante, che con la realtà intreccia un rapporto fantasmatico e “altro”.
I momenti in cui i due procedimenti espressivi sopracitati – il ralenti dell’immagine e la deformazione artificiale del sonoro – vengono utilizzati con maggiore intensità sono la sequenza dell’omicidio e il finale di White Epilepsy. Dopo una serie di inquadrature prolungate, associate una dopo l’altra secondo una logica intensiva, con protagonisti due corpi coinvolti dalla macchina da presa in un ralenti infinito e allucinato, una donna si avvicina a un uomo; entrambi sono nudi. Quella che poteva sembrare una danza sensuale si rivela, alla fine, un’aggressione: la donna attacca l’uomo, da dietro, come un insetto, e lo sopraffà. L’uomo sembra che stia urlando, ma lo spettatore può soltanto sentire, deformati e amplificati, il respiro della donna e il rumore dell’erba che si spezza, sotto i loro piedi. L’effetto, di nuovo, è di scarnificazione e lacerazione delle usuali modalità di rappresentazione.
La struttura intensiva di White Epilepsy, culminante con la sequenza dell’omicidio, consente, nel finale, il passaggio dal figurativo al figurale, la cui irruzione nel film è sottolineata da Grandrieux attraverso un perentorio stacco di montaggio – il primo di White Epilepsy. Improvvisamente, e senza apparente giustificazione narrativa, l’inquadratura viene occupata interamente dal primo piano innaturalmente illuminato del volto sanguinolento di una donna. Lo stacco, accompagnato da un fragore del soundtrack, è assimilabile a uno squarcio, una ferita nel corpo di White Epilepsy.

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Secondo Bertetto, «il figurale non è solo processo, ma anche immagine, fissazione del fantasma, oggettivazione di figure dell’inconscio. È non solo lavoro (preconscio, inconscio), ma anche prodotto del lavoro. È non solo meccanismo, ma anche immagine attivata dal meccanismo.»12
Dunque il figurale è letteralmente il soggetto delle ultime sequenze di White Epilepsy. Il finale del film, infatti, materializza nell’immagine e nei suoni il prodotto del “lavoro” di dilatazione temporale e deformazione visuale e sonora delle sequenze precedenti, imponendo una riflessione di carattere generale sulle modalità attraverso cui il cinema di Grandrieux è solito inscrivere nel testo l’impronta del figurale.
Ricollegandosi a Discorso, figura di Lyotard, Bertetto nota che le modalità di oggettivazione del figurale condividono «l’irruzione, l’emergenza forte e violenta, […] che può anche operare attraverso percorsi di disgregazione o di de-figurazione intenzionale del tessuto testuale»13. Deleuze, nella Logica della sensazione, in riferimento alla pittura di Bacon, ha spiegato bene questo processo di apparizione e immediata defigurazione della figura; le sue parole, assieme a quelle di Bertetto, risultano particolarmente appropriate per descrivere le modalità attraverso cui la figura, nel finale di White Epilepsy, è “lavorata” dal figurale fino ad essere trasformata in Icona, in pura immagine sensuale.
Scrive Bertetto: «tre sono i modi di connivenza della figuralità con il desiderio: trasgressione dell’oggetto, trasgressione della forma, trasgressione dello spazio»14. Attraverso l’utilizzo spinto all’estremo delle loro possibilità di espedienti tecnici quali il ralenti, l’illuminazione extra-diegetica, la sovraesposizione e l’out focus, Grandrieux sfuma e deforma i contorni del volto della donna, dissipando i tratti riconoscibili della sua figura. L’immagine che ne risulta, lacerata, irregolare, sensuale, ha l’intensità allucinata e abissale di una frase di Bataille, e come quest’ultimo esplora l’informe e i limiti dell’espressività.

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Non solo l’oggetto filmato è trasgredito e radicalmente trasformato, sottratto alla logica della rappresentazione e lavorato dall’inconscio: anche la forma e lo spazio subiscono il medesimo trattamento. Nel finale, la forma di White Epilepsy è infatti «oltrepassata nelle sue componenti tradizionali di ordine, armonia, equilibrio, per diventare forza anomala e irregolare»15 attraverso l’illuminazione sempre più forte e il sonoro innaturale; allo stesso modo, lo spazio del film, occupato interamente dal primo piano del volto della donna e da intensi bagliori di luce, si apre al tempo e «agli spostamenti e alle dislocazioni libere e arbitrarie dei fantasmi interiori.»16

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La penultima sequenza di White Epilepsy, pertanto, inscrive nelle immagini e nei suoni del film il soggetto di tutto il cinema di Grandrieux: il “corpo figurale”, che irrompe nel film come uno squarcio nella rappresentazione.
Il figurale di White Epilepsy è irruzione, disvelamento, lacerazione, trasgressione dell’oggetto, della forma e dello spazio. Il film di Grandrieux si configura allora come un’esperienza erotica, in quanto il processo di irruzione del figurale nel testo del film è innanzitutto un procedimento di sconvolgimento sensuale delle forme.
È in questo senso che White Epilepsy tematizza il procedimento che dà luogo a quella che Deleuze chiama la sensazione: «un’onda di ampiezza variabile percorre il corpo senza organi; vi traccia zone e livelli secondo le variazioni della propria ampiezza. A un certo livello – conclude Deleuze -, nel punto di incontro dell’onda con le forze esterne, appare una sensazione [corsivo del redattore]»17.
In Che cos’è la filosofia? (1991), Deleuze e Guattari scrivono che «la carne è soltanto il rilevatore che scompare [corsivo del redattore] in ciò che rivela: il composto di sensazioni»18.
Di fatto, la sparizione del volto della donna del finale di White Epilepsy accompagna l’insorgere sensuale di un altro corpo: il “corpo” del cinema. In altre parole, la dissoluzione della figura prefigura un rinnovato ispessimento dello spazio filmico, che, configurandosi come una massa opaca di luci, suoni e colori, diventa esperibile sensualmente. Elevando a soggetto il processo erotico di costruzione delle immagini e dei suoni del proprio cinema, White Epilepsy si presenta allora come un metatesto centrale nella filmografia di Grandrieux. Attivando una nuova tipologia di narratività che fa coincidere il processo erotico di costruzione delle immagini con il soggetto stesso del film, White Epilepsy esplora il rapporto tra figura e cinema con un’intensità inedita per l’opera del regista, configurando per lo spettatore un’esperienza sensuale delle forme del film.

 

NOTE

1. Con spazio filmico si fa riferimento alla definizione data dal regista e critico francese Éric Rohmer nel libro L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau (1984). Qui Rohmer definisce lo spazio filmico come lo “spazio virtuale” in cui gli elementi “astratti” che formano plasticamente il cinema – p.e. la luce, il movimento e le forme – diventano “concreti”.

2. A proposito del cosiddetto “pensiero figurale”, si consiglia la lettura del breve libro del critico australiano Adrian Martin, Last Day Every Day: Figural Thinking from Auerbach and Kracauer to Agamben and Brenez (2012).

3. Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano, 2007, p. 183.

4. Nicole Brenez, Figuration Defiguration: Propositions, Admiranda no. 5-6-7, 1990.

5. «Il figurale non va considerato come parola, linguaggio, ma come evento, lavoro»

L’estratto citato è tratto da Paolo Bertetto, op. cit., p. 188.  

6. Philippe Grandrieux, in (a cura di) Amos Borchert e Dennis Vetter, Interview with Philippe Grandrieux, NEGATIV, http://www.negativ-film.de/interview-with-philippe-grandrieux/ 

7. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione (1981), Quodlibet, Macerata, 2004, p. 15.

8. Raymond Bellour, Fra le immagini, Mondadori, Milano, 2002, p. 175. 

9. Nicolò Vigna, https://specchioscuro.it/philippe-grandrieux/.  

10. Il corpo senza organi è un concetto filosofico introdotto da Antonin Artaud e rielaborato da Deleuze e Félix Guattari. Ne L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), i due filosofi scrivono: «il desiderio passa certo per il corpo, per gli organi, ma non per l’organismo […] Il corpo senza organi è la sostanza immanente, nel senso spinoziano della parola» (p. 373). Ma la definizione più calzante del corpo senza organi del cinema di Grandrieux si trova nella Logica della sensazione: «al di là dell’organismo, ma anche come limite del corpo vissuto, c’è quello che Artaud, suo scopritore, ha chiamato corpo senza organi. […] L’organismo non è vita, bensì la imprigiona. Il corpo è interamente vivo, e tuttavia non organico. […] È un corpo intenso, intensivo. […] la Figura [di Bacon] è esattamente il corpo senza organi (disfare l’organismo a vantaggio del corpo, disfare il volto a vantaggio della testa); il corpo senza organi è carne e nervo; è percorso da un’onda che traccia in esso vari livelli» (Deleuze, op. cit., p. 103-104).

11. Philippe Grandrieux, Sur l’horizon insensé du cinéma, in «Cahiers du cinéma hors série: Le Siècle du cinéma», novembre 2000, pp-90-93.

12. Paolo Bertetto, op. cit., p. 191-192.

13. Ivi, p. 189.

14. Ivi, p. 185.

15. Ibidem.

16. Ibidem.

17. Gilles Deleuze, op. cit., p. 105.

18. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 2002, p. 184.

 

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L’articolo è stato scritto in italiano: cliccare QUI per la versione in ITALIANO.

  


One of the most important aspects of Philippe Grandrieux’s cinema is the troubled relationship between the images and the narration. All of his three fiction films present a story, or more precisely, the skeleton of a story: a man in love with an unattainable woman. Shot four years after A Lake [Un lac, 2008], and ten years after A New Life [La Vie nouvelle, 2002], White Epilepsy [2012] makes this troubled relationship with the narration explicit. Apparently, White Epilepsy tells a story, even if a bit different from the other ones. The film is about a mysterious ceremony: at night, four human figures emerge from the forest. What seems a very Grandrieux-esque subject – human figures plunged into darkness – is instead literally deprived of any kind of traditional narrative structure. Indeed, Grandrieux looks for the forces that traverse the body in the materiality of cinema (e.g. working on the physical presence of the actors, on the exposure, the frame rate and the soundtrack), going back to pure sensation by breaking with the narrative. In this regard, White Epilepsy is more a plastic, undefinable object than a traditional fiction film: conceived as the first movement of a triptych that spreads over multiple platforms (video installations, performances, film), the film represents a new chapter in Grandrieux’s search for a figural cinema able to configure for the spectator a sensual experience of the film forms.
Self-reflexive as it is, starting from its title, White Epilepsy explicitly investigates the notion of figure. Giving a straight definition of figure is almost an impossible task: the reflection on its role in art and philosophy has traversed the most important theoretical texts of recent years, mostly French, from Discours, figure (1971) by Jean-François Lyotard, to the more recent work of Jacques Aumont (A quoi pensent les films? 1996) and Nicole Brenez (De la Figure en général et du Corps en particulier. L’invention figurative au cinéma, 1998). In Italy, the film critic and scholar Paulo Bertetto has summarized a film theory about the simulacrum and the figural analysis of the film text in his book Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola (The Mirror and the Simulacrum. Cinema in a World That Has Become a Fable). In the chapter of the book titled L’immagine filmica e il figurale (The Film Image and The Figural), Bertetto derives directly from Lyotard two essential characteristics of the figure: «The figure – the Italian film scholar writes – is a formal configuration of visual elements, emergence of visibility, event and investment of subjective expressiveness, complex formation bound to the anthropomorphic […] but […] also defiguration, violation of the profile and the visible world, relationship with the desire and force, from which it is radically altered» (Bertetto 2007).
Starting from Bertetto’s words, the spectator might be tempted to define the figure as the intensive, phantasmatic aspect of an image (Brenez calls it «the force of a representation, what forever remains to be constituted, that which, in the visible, tends to the Inexhaustible» [Martin 2012]); as something that is beyond the film image but, at the same time, can only exist inside the image. In fact, in Grandrieux’s cinema, what Bertetto calls the emergence of visibility, the irruption of the figural in the film text, is always accompanied by a deep work of de-figuration, that disrupts the structure of the image itself. From this point of view, La Vie nouvelle has marked a date in the filmography of Grandrieux. In the masterpiece realized in 2002, the work of de-figuration which accompanies the eruption of the figural in the film text is twofold: on the one hand, it radically changes the image’s surface, whose support ranges heterogeneously from video to film (except few scenes, La Vie nouvelle was mostly shot on 35mm); on the other hand, it operates directly on the surface of the actors’ bodies, deforming them through the spasmodic movement of the hand-held camera or, as in one of the most important sequences of the film, through the use of a thermic camera. The result is that the bodies remain in the images as an incorporeal trace of physical movement or heat, but express themselves primarily through the materiality of cinema (lighting, images, sounds).

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Philippe Grandrieux, La Vie nouvelle.

The same work of sensual defiguration of the bodies’ and images’ surface is repeated in White Epilepsy, which is entirely shot in digital, with the difference that here Grandrieux brings to the extreme the expressive modes of his earlier works, making the process of construction of the images explicit; more precisely, making this energetic, incorporeal process (the digital image is the result of a process of codification and decodification of information) an essential step for the irruption of the figural in the film text. From this point of view, the first reference of Grandrieux’s cinema, and White Epilepsy in particular, is the work of the Irish painter Francis Bacon, re-read through one of the most interesting monographic studies dedicated to him, The Logic of Sensation (1981) by Gilles Deleuze. It is sufficient to read some pages of this book to immediately understand how deep the relationship between the figure of White Epilepsy and the one of Bacon’s paintings is. Grandrieux himself, talking about his film, refers to Deleuze concepts of figure, figural and event, opposing them to the narrative (illustrative) logic of the traditional cinema. «In White Epilepsy there are no more questions of characters and the psychological map of the characters throughout the movie, of how the story grows out of these characters – instead the question is more about the event: something happens. Questioning the event is rather in the centre of the movie itself compared to the development of the story» (Grandrieux 2012).
In one of the interviews quoted by Deleuze and published in the book The Brutality of Fact (1991) edited by David Sylvester, Bacon has said that the desire to configure the reality through “completely illogical” pictorial modes is a fundamental element of his working method. With cinema, Grandrieux adopts a similar modus operandi. Conveying the mystery of the Real – the senseless presence of things – through the mystery of the refiguration process to which the world is subjected by the camera work is the goal of White Epilepsy and what brings Grandrieux’s films closer to Bacon’s paintings. In other words, in Grandrieux’s cinema the mise en scène is no more a matter of realism, but of intensity. This is why, starting from the opening shot, White Epilepsy introduces the spectator to a mental, phantasmatic body: the image resulting from the refiguration process above – which is primarily a figural process – is an image haunted by strange, invasive forces. From this point of view, the opening shot of White Epilepsy represents a paradigmatic moment of the film and Grandrieux’s cinematic modus operandi: the body of a woman emerges from the darkness – from the “black” of the screen – conveying nothing but the senseless presence of the flesh.

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The first question that arises from the opening sequence of White Epilepsy derives directly from Spinoza’s philosophy: what can a body do? Or, more precisely, what is the relationship between the body in front of the camera and the film image that refigures it? In fact, the real subject of White Epilepsy is not the sensual, Bataillean and enigmatic ritual consumed between four naked figures in the woods, at night, but the formal procedures through which this mysterious ceremony is configured. Plunged into the darkness, the four protagonists of White Epilepsy (the dancers Hélène Rocheteau, Jean-Nicolas Dafflon, Anja Röttgerkamp and Dominique Dupuy) are pressed by Grandrieux in a rectangular image, characterized by the unusual aspect ratio of 9:16, which recalls the shape of a slit (it is no coincidence that the following of White Epilepsy, the second chapter of Grandrieux’s triptych, is titled Meurtrière, which means literally “slit”), and therefore the idea that the spectator is watching, hidden, a forbidden ritual. The vertical format of the image is essential to Grandrieux’s aesthetic: it literally cuts and deforms the bodies, as in Bacon’s portraits. In The Logic of Sensation, Deleuze describes the painter’s formal process, which consists in isolating and delimiting the form through a geometrical shape: as he writes, «isolating is the most simple way, necessary but not sufficient, to break the representation, the narrative, to prevent illustration and liberate the figure» (Deleuze 1981). Grandrieux does the same in White Epilepsy, through the unusual vertical format of the images. The bodies of the film are closed in a rectangular frame, extracted and isolated: there is no narrative relationships between them but what Bacon himself has called «matters of fact» (Bacon 1993). They are not characters but figures that haunt the sensual world of White Epilepsy.

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Francis Bacon, Study for the human body, 1949. 

The difference of meaning between the words “figure” and “character” makes explicit Grandrieux’s relationship with film narration. The spectator does not give access to the world of White Epilepsy through the psychology of the characters but through the framing, the lighting, the sound and the editing. In Grandrieux’s previous films, the minimal narration made this access easier. In White Epilepsy, there is not a story anymore; the spectator can have access to the images only by experiencing sensually the film forms. This is why the darkness impressed by Grandrieux to the majority of the shots in White Epilepsy is so important. In the first part of the film, the protagonists’ bodies, before being “de-represented” by the typical formal devices of Grandrieux’s cinema (slow motion, out of focus, variation of exposure), are immersed in the darkness; the bands of the format of the images are black. The format then digresses into the images of the film, swallowing the figures, and vice-versa. It is the beginning of an immersive experience, which Raymond Bellour, in the fundamental Entre les images (1990), has defined as the “fusion” of the represented body with the de-represented one, that is the subject of Grandrieux’s cinema, as Nicolò Vigna writes in his essay on the French director’s work published on Lo Specchio Scuro. In fact, the vertical format in which the bodies are pressed does not only allow isolation and extraction, but also deformation, that is an essential step because the spectator can experience sensually the world of White Epilepsy and the film can have access to the “body without organs”, the liberated body of the works of Deleuze, Bataille and Antonin Artaud.

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Francis Bacon, Three Studies for a Crucifixion, 1944.
Philippe Grandrieux, White Epilepsy.

In Deleuze’s analysis of Bacon’s painting, the concept of “body without organs” is used in close relation with the one of figure. Deleuze and Bacon agree that it is impossible to represent rationally the unrepresentable: like the Bataillean “formless”, the figure of Bacon’s paintings exceeds any words or illustrations. In particular, Bacon’s figures are traversed by mysterious forces from which they are stretched and deformed. The coalescence relationship between visible and invisible is the main subject of figural art, from Bataille’s erotic literature to Grandrieux’s cinema: this is why in White Epilepsy the director makes the intensive and hallucinated modes of reconfiguration of the visible and audible more explicit. Grandrieux develops two particular expressive devices: the slow motion and the post-produced distortion of images and sounds.
The slow motion, realized through a variation of the frame rate during the shooting, has the task to “break” the representation of the bodies, which become, using again an expression taken from Deleuze, “liberated figures”, figures that are no more subjected to the primacy of the narrative and the intelligible. If confronting with the Real, le réel, is the main goal of cinema according to Grandrieux, White Epilepsy is the film of the director that comes closest to achieve it. Grandrieux himself, wondering about the sensual properties of his cinema, asks: «What would the nature of cinema be if it rendered images directly, without interruptions, without representations?» (Grandrieux 2000). The first part of White Epilepsy tries to answer this question. Confronting without any distance with the Real means, in fact, bringing the bodies of the screen closer to the spectator’s brain; making him think and believe the unthinkable, feel the impossible. This is the intimately Bataillean and Epsteinean question that innervates Grandrieux’s work: how can something that cannot be represent but exists in the authors’ mind be refigured through cinema? Or, more precisely, how can it be refigured through sensual forms? Indeed the choice of shooting in digital, liberating once for all the image from the reality to which it refers and emphasizing the inner and subtly erotic process of construction of the film images, is crucial. There are no cuts in the editing in the first part of White Epilepsy, just fades to black. The digital camera, in fact,  allows the director – who is also the camera operator, with the consequence that the shooting is transformed into an erotic, bodily experience – to work on the duration of the shots and the deforming, hallucinatory and figural properties of the film images, preserving at the same time their sensual quality though the variation of exposure and lighting intensity. So, in White Epilepsy there are not only the pressure forces produced by the vertical rectangular format but also expansive forces created by the duration of the shots (see the images above).

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The sound of White Epilepsy is constructed through the same configuration/de-figuration process displayed by the film images: it represents a slow motion, hallucinatory and vibrant force. Grandrieux, with his wife Corinne Thévenon, has recorded part of the soundtrack directly on the set (e.g. the breathing of the dancers) and then has modified it artificially through other sounds recorded after the end of the shooting, in the woods, at night. The result is a complex “sonic space” that duplicates the visual one and allows the spectator to enter a phantasmatic universe, confronting through his senses with the presence of the Other and the invisible.
The moments in which the two above-mentioned expressive procedures – the slow motion of the film images and the artificial deformation of the sounds – are used with greater intensity are the sequence of murder and the end of White Epilepsy. After a series of hypnotic long takes, in which two bodies are involved by the camera in an infinite and hallucinated slow motion dance, a woman approaches a man. Both of them are naked. What could at first appears as a sensual dance is in fact an aggression: the woman attacks the man, from behind, like an insect, and overcomes him. The man seems to be yelling, but what the audience hear is the woman’s breath, and the trampled grass. The effect, again, is one of transformation of the usual representation: narration is erased; everything is reduced to the intensive truth of the figure, which allows the passage from the figurative to the figural, whose irruption in the film is underlined by Grandrieux through a sudden cut of the editing – the first one of White Epilepsy. Suddenly, without any apparent narrative logic, the frame is entirely occupied by the close-up of a woman’s bleeding face, shot in slow motion, unnaturally enlightened. This sudden cut of the editing is accompanied by an impressive roar of the soundtrack, which becomes a wound in White Epilepsy‘s film body.

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According to Bertetto, «the figural is not only a process, but also an image, the visualization of the phantasm, the objectification of unconscious figures. It is not only a (pre-conscious, unconscious) work, but also the product of this work. It is not only the mechanism, but also the image activated by this mechanism.» (Bertetto 2007) So the figural is literally what the final sequences of White Epilepsy are about. The ending materializes in the image and sounds the product of the above analyzed work of the previous sequences of the film, imposing a general reflection on the modes through which Grandrieux’s films usually inscribe the figural in the frame. This is why Bertetto’s film theory, derived from Lyotard’s and Deleuze’s philosophy, is essential. Bertetto writes that the modes of objectification of the figural share «the irruption, the strong and violent apparition, […] which can also operates through the disintegration or intentional de-figuration of the text» (Bertetto 2007). Deleuze, in The Logic of Sensation, referring to Bacon’s paintings, has explained very well this process of appearance and immediate de-figuration that characterizes the figure in opposition to the character: his words, together with those of Bertetto, are particularly appropriate to describe the modes in which the figure, in the ending sequences of White Epilepsy, is transformed by the figural into an Icon, a pure sensual image. Bertetto writes that «there are three modes of connivance of the figural with desire: through the transgression of the object, the form and the space» (Bertetto 2007). In White Epilepsy, Grandrieux explores these three modes. Pushing to the extreme formal devices such as slow motion, non-justified lighting, overexposure and out of focus, Grandrieux blurs and deforms the silhouette of the woman’s face. The resulting image has the sensuality and the hallucinatory and abysmal intensity of a Bataillean phrase, exploring the formless and the limits of expressiveness.

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Therefore not only the figure is transgressed and radically transformed, removed from the logic of representation and worked by the unconscious: even the film form and space are subjected to the same process. Using again Bertetto’s words, the film form of White Epilepsy is «exceeded in its traditional components of order, harmony, balance, to become an abnormal and irregular force» (Bertetto 2007) through the increasingly intense lighting and unnatural soundtrack; similarly, the space of White Epilepsy, now entirely occupied by the close-up of the woman’s face and traversed by flashes of light, is «related to the movement and arbitrary dislocation of the inner phantasms» (Bertetto 2007).

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The last sequences of White Epilepsy inscribe in the images and sounds the subject of all the films of Grandrieux: the figural body, the body populated only by intensities, that enters White Epilepsy like a burst in the representation. The figural of White Epilepsy is irruption, revelation, transgression of the framed object, form and space. This is why seeing White Epilepsy becomes a sort of erotic experience: the process of irruption of the figural in the text is primarily a sensual process that transforms the film forms and affects the spectator’s body.
It is in this regard that White Epilepsy is the film of Grandrieux that explicitly thematises what Deleuze defines as sensation. As Deleuze writes, «a wave with a variable amplitude flows through the body without organs; it traces zones and levels on this body according to the variations of its amplitude. When the wave encounters external forces at a particular level, a sensation appears» (Deleuze, 1981). In What Is Philosophy?, Deleuze and Guattari write that «flesh is only the developer which disappears in what it develops: the compound of sensation» (Deleuze, Guattari, 1994). The disappearance of the woman’s face at the end of White Epilepsy accompanies the sensual apparition of another body: the “body” of cinema. In other words, the dissolution to which the figure is destined allows the revelation of the film material world: an opaque mass of lights, sounds and colours experienceable by the spectator through his own senses.
So, making the erotic process of construction of the images and sounds the real story of the film, in White Epilepsy Grandrieux definitely solves his troubled relationship with narration, pushing his cinema to its core.

 

BIBLIOGRAPHY

Bacon, Francis (1993), “The Brutality of Fact: Interviews with Francis Bacon” (David Sylvester), Oxford: Alden Press.
Bellour, Raymond (1990), Entre les images, Dijon: Les presses du réel.

Bertetto, Paolo  (2007), Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano: Bompiani.
Deleuze, Gilles (1981), Francis Bacon: The Logic of Sensation, trans. trans. Daniel W. Smith, New York: Continuum.

Deleuze, Gilles, Félix Guattari (1994), What Is Philosophy?, trans. H. Tomlinson and B. Burchell, New York: Columbia University Press.
Grandrieux, Philippe (2000), About the “insane horizon” of cinema, trans. Maria Palacios Cruz, http://www.diagonalthoughts.com/?p=1423, accessed Jenuary 2016. 
Grandrieux, Philippe (2012), “Interview with Philippe Grandrieux” (Amos Borchert, Dennis Vetter), NEGATIV, http://www.negativ-film.de/interview-with-philippe-grandrieux/, accessed Jenuary 2016.
Grandrieux, Philippe (2015), “«Cinema is a back and forth movement between ideas and sensations»: Interview with Philippe Grandrieux” (Lorenzo Baldassari, Nicolò Vigna), Lo Specchio Scuro, https://specchioscuro.it/interview-philippe-grandrieux-intervista-grandrieux/, accessed Jenuary 2016.
Martin, Adrian (2012), Last Day Every Day: Figural Thinking from Auerbach and Kracauer to Agamben and Brenez, New York: Punctum Books.