La logica del principio
Bernard: Bring her back online[…] Can you hear me?
Dolores: [in a Western accent] Yes. Sorry, I’m not feeling quite myself.
Bernard: You can lose the accent[…][…]
Bernard: First: have you ever questioned the nature of your reality?1
Si potrebbero scrivere mari d’inchiostro anche solo su questo incipit, punto di partenza per Jonathan Nolan e Lisa Joy nell’adattamento de Il mondo dei robot [Westworld, 1973] di Michael Crichton. Già creatore e showrunner di Person of Interest [2011-2016], l’«altro» Nolan guarda ancora alla televisione per parlare di linguaggi, per discutere di autocoscienza e mente bicamerale, rielaborando l’ambientazione crichtoniana ma optando per un discorso più orientato al genere (ai generi) in un contesto neo-seriale già responsabile d’aver messo in discussione le forme narrative tradizionali.A cavallo, de facto, tra due concetti, che sono mondi abitati da androidi coscienti e tali e quali agli umani, si consumerebbe «un’oscura odissea sull’alba della coscienza artificiale e sul futuro del peccato»2, mai priva di implicazioni etiche, morali o financo legali, giacché, come recita il sottotitolo italiano della serie, Westworld è dove tutto è concesso.
È concesso di prender le mosse dai luoghi, letteralmente topoi (a memoria, Twin Peaks [1990-91/2017, creata da David Lynch e Mark Frost], The Wire [2002-2008, creata da David Simon] e Lost [2004-2010, creata da J.J. Abrams, Jeffrey Lieber e Damon Lindelof] più di recente, Miami Vice se non si vuol scomodare la serialità più “cinematografica”), e non dai personaggi, automi essi stessi di un più ampio disegno demiurgico; è concesso altresì di esplorare un mondo lontano nel tempo ma che, temporalmente, (ri)percorre una strada in continua costruzione, un locus in costante rinnovamento, un’idea perennemente in discussione.
E tutto sommato, il topos è la figura di più ampio riferimento nella serie, a dispetto dei “temi”, di cui il parco si compone. Ci sono tutti, quelli del western: la ferrovia, il saloon, la casa/ranch che si affaccia sullo splendore del paesaggio, e i personaggi, quelli di buon cuore, gli antagonisti, le prostitute.
Dall’alto: stazione ferroviaria, saloon e casa/ranch di Dolores nel parco Westworld.
Westworld, d’altro canto, è esso stesso un pot-pourri di razze, possibilità teorica al servizio di linguaggi promiscui e spesso auto-compiaciuti, ove le provenienze non sono soltanto geografiche e il conflitto si sposta ad un fuori campo più ingombrante di quanto possa sembrare3.
In alto, Maeve Millay (Thandie Newton); in basso Charlotte Hale (Tessa Thompson)
È pertanto corretto esplorare, al pari di un ospite della Delos, azienda creatrice e proprietaria del parco western (nonché nome dello stesso parco ai tempi del film di Crichton), i meccanismi più intimi di questa macchina, orientata, già dalla sigla iniziale, ad un rapporto fisico, rudimentale con il materiale filmico messo in scena.
I corpi, la vita, la morte
Già dalla sigla, che ci mostra il processo di creazione del singolo robot e la sua messa in funzione, è chiaro l’interesse di Nolan per il corpo, sempre ostentato quale totem d’uguaglianza tra umani e intelligenze artificiali, differenti dai primi solo per la componentistica interna.
Nella struttura, d’altro canto, “componentistica” essenziale non può che essere il western; lo stesso autore chiarisce a tal proposito: «Nolan describes the series as “a pastiche of different ideas” from across several decades and cites 1968 Sergio Leone Spaghetti Western Once Upon a Time in the West [Once Upon a Time in the West, Sergio Leone, 1968, NdA] as a key inspiration.»4E se dal film di Leone gli autori traggono ispirazione tanto nel comportamentismo dei personaggi quanto nella contaminazione dell’habitat (la ferrovia che segna il passaggio alla modernità, l’abbandono del costume tipico, “classico” del far-west mitologico), è nella poesia e nella fotografia che la coppia Nolan-Joy trova l’architrave sulla quale imbastire un immaginario si retró e nostalgico, ma anche incerto e spericolato:«The idea with the show being in whichever indeterminate future we’re in is that there’s a sense of nostalgia for a simpler time, but there wasn’t really anything simple about what was happening at the turn of America. It’s when the whole country was being built with all of this reckless abandon. The sheer scope and vast, unspoiled land with people pouring into it — we came back to that for inspiration»5.
Il Cinema stesso diviene organico, immaginario al quale attingere per un discorso di più ampia levatura;in questo senso, il Frank di Henry Fonda in Once Upon a Time in the West e il Man in Black di Ed Harris in Westworld (2016) sono complementari figure narratologiche, iconografia che prende vita (e corpo) in-sé.
Così il motore pulsante della serie prende vita, un vero e proprio corpus operis in seno all’epica del mito fordiano, hawksiano, o italiano via spaghetti, e ad una fantascienza astratta, de-costruita nel suo immaginario più prototipico eppure al contempo essa stessa portatrice d’un modello nuovo, auto-cosciente come i suoi prodotti e contingentemente attaccato alle narrazioni che di ambo i generi hanno fatto fortuna. Eppure, di episodio in episodio, il finissimo lavoro di scrittura non lascia mai sottotrame, ma porta parallelamente a galla tanto la canonica azione di cui la serie si serve, quanto un discorso più generalmente linguistico e profondamente legato ad esigenze d’ampia portata: quando lo “sceneggiatore” principale dell’azienda, Lee Sizemore (Simon Quarterman), addetto alla redazione delle storyline perseguibili dai clienti del parco (che si tratti di una caccia all’uomo o di un salvataggio principesco), cerca di ingrandire troppo il proprio io demiurgico, ecco che interviene il Dott. Robert Ford (Anthony Hopkins), fondatore del parco nonché direttore creativo, architetto dell’eco-sistema6. Sono le più frivole storie a passare, giacché una grande, nuova narrativa è nella mente del creatore.
A sinistra Ford (Hopkins), a destra Sizemore (Quarterman), mentre discutono dei futuri piani narrativi in Westworld, quindi le sorti di un genere, dei suoi stilemi, della sua storia, tra vita e morte.
Ergo nessuno meglio proprio del dottor Ford, può spiegare come funzioni la mente, nostra e dei nostri interlocutori robotici, dotati, come dapprincipio la nostra specie, di quella che viene definita “mente bicamerale”. Rifacendosi inevitabilmente allo studio di Jaynes7, la nostra fonte ripropone quel modello arcaico, di cui si avrebbero riprove persino grafiche, per cui, prima d’esser dotato d’una coscienza, l’essere umano sentiva delle voci dentro di sé, dentro la propria mente, che sarebbero alla radice della divisione tra i due emisferi, creatività e razionalità; voci in questione che sarebbero della divinità, “allucinazioni acustiche” osserverebbe Deakins in L’illusione di Dio (The God Delusion, 2006); ma quivi giace la corporeità di Westworld: l’androide prende vita fuori di sé, spogliato dei tratti tipici della “simulazione”, al fine di interloquire con Ford o con Bernard (Jeffrey Right), a capo del Dipartimento di Produzione, il cui compito consiste nel risolvere tutti i malfunzionamenti delle singole I.A.
Nella sigla della serie, compare questo fotogramma: uno degli androidi, ancora in sviluppo, viene creato appositamente per suonare il piano al saloon; ma, nella programmazione, il suono, “allucinazione visiva”, è automatico. Vita e morte, o solo corpo?
Viene spontaneo domandarsi, giunti a questo punto, se la direzione impressa dagli autori risponda anche a quella delle singole parti del mosaico. Potrebbe non essere così?
Peter Abernathy (Louis Herthum), padre di Dolores, rispondendo alla domanda di Ford: «What is your itinerary?» Oltre il suono, l’immagine: la mente bicamerale prende vita quando muore il “carattere” androide, quando la narrazione
cerca di spiegare sé stessa.
Potrebbe la narrazione stessa collassare, proprio come sinolo di vita e morte, corpo e mente? Nolan e Joy danno una risposta, proiettandola in un contesto più ampio, lasciando le porte aperte per una seconda stagione: una nuova origine è un ritorno ad una origine, in ogni caso. Così ci si muove in un loop non più accessibile alla comprensione dello spettatore, ad una reale formula narrativa; tutti i personaggi sono dominati da una scansione temporale che trascende lo spazio, lo deforma, riadatta, secondo il Canone dei generi di riferimento.
Non c’è miglior modo di condensare una forza altrimenti ingestibile se non con il sogno, già protagonista del principio nell’abecedario neo-seriale.
Come la Dolores di cui sopra, anche Philip Jeffries (David Bowie) in Fuoco cammina con me [Twin Peaks: Fire Walk with Me, David Lynch, 1992] è cosciente del sogno
Senza criteri spaziali, con la privazione delle tempistiche, i corpi si dissolvono a cavallo (ancora una volta de facto) tra realtà e fantasia (o finzione), razionalità e istinto: la mente bicamerale dispiega il narrato e lo decodifica, lo traduce, lo adatta alle esigenze tanto dei suoi creatori quanto degli usufruttuari. Non dissimile da una Loggia twin-peaksiana, l’isola di Lost o il Matrix sempiterno da cui nessuna fantascienza è riuscita a prescindere, Westworld è realtà soggetta di continua revisione, mutata a piacimento della sua divinità ex loco e ab aeterno. Come una divinità, ma creata e non generata.
Generato, non creato per stessa sostanza
Suona quasi come una dichiarazione di poetica, il passaggio del Credo che prova a dispiegare il mistero della con-presenza del Padre e del Figlio in un’unica sostanza.
Parimenti ad un Concilio di Nicea, dello staff di Delos8 discute di quali diritti le autocoscienze artificiali debbano esser dotate, giacché umana riproduzione non può generarne, soltanto creare nuove unità. Ed è creazione artificiosa tout-court, quella degli Ospiti che accolgono i clienti in Westworld: la voce divina è demiurgicamente un corpo, umano, che soltanto può rimediare allorquando sbagli:«Evolution forged the entirety of sentient life in this planet only using one tool: the mistake.»9
Ed errore, in principio, fu l’interpretazione di un determinante atto di creazione, che sulla creazione rifletteva omettendo il seme del “genere” che proveniva dalla Divinità.
Libero è dunque l’Ospite, giacché incapace di errore, programmato secondo atto creativo. Ma, al netto della sua coscienza, l’Ospite cerca il Creatore, vuole incontrarlo, cercare la fonte di sé e del suo ordine. Se stesse sbagliando?
Maeve Millay (Thandie Newton) è interprete della messa in discussione del principio di coscienza nella mente bicamerale
Due camere, due indirizzi, un’unica origine verso la fine
Laddove il dualismo teologico (e teleologico) di Westworld è allegoria in termini dell’indirizzo audiovisivo contemporaneo tutto, è corretto nondimeno fare un passo, decisivo, indietro.
Lì dove Dolores, già nel nome antieroina di una fiction passata, telenovela sudamericana di consumato rodaggio, si palesa come l’abitante di un sogno che la terrorizza, necessitiamo di tornare con lei fino all’origine, la sua, della narrativa di genere, dell’estetica, nel senso di αἴσθησις, percezione, rappresentazione. Perché la narrazione stessa possa liberarsi dalle esigenze del suo pubblico, ribellandosi di conseguenza al suo narratore.
Bernard: Tell us what you think of your world.
Dolores:Some people choose to see the ugliness in this world, the disarray. I choose to see the beauty[…], to believe there is an order to our days, a purpose.10
Dolores è già autocosciente? O è solo la sua programmazione a parlare, mero meccanismo “tematico” (e non è mistero quanto Jurassic Park sia più che una ovvia referenza)? In terza istanza, è forse lei una divina voce a parlare ad una mente bicamerale?
«[…] un oggetto è un’entità che si suppone esistere indipendentemente dalle situazioni, dagli stati soggettivi […]. Di contro, la coscienza in quanto esperienza è situata, è ciò che si prova ad essere un soggetto, o, perlomeno, è ciò che si prova ad essere.»11
L’unico passo successivo, back to the origins, è chiedersi chi sia il Creatore in questione. Hopkins/Ford, Dolores/Wood, o financo lo stesso Nolan? O forse è più lecito domandarsi quanto ciascuno di noi lo sia, Creatore? Alla seconda stagione (e successive), ad un ulteriore discorso tra due generi ancorché ai meccanismi di una serialità ibrida, essa stessa bicamerale nei sensi e rispetti del Cinema e della Televisione, la risposta.
Alle immagini l’ardua sentenza.
Sopra: Blade Runner [id., Ridley Scott, 1982]Sotto: Westworld
NOTE
1. Prime battute di Westworld – Dove tutto è concesso [Westworld, 2016-in produzione], S01E01, The Original, diretto da J. Nolan.
2. Con tale slogan la HBO, emittente produttrice della serie, lancia il primo trailer, nel 2014.
3.È raffinatissimo il lavoro di poiesi universale della stessa HBO, che ripesca tematiche, personaggi, ambienti di altre proprie serie, riadattandole a sempre nuovi contesti: in questi riguardi, la somiglianza concettuale di Westworld con The Wire è quasi lapalissiana.
4. http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/tv/news/westworld-exclusive-jonathan-nolan-lisa-joy-once-upon-a-time-in-the-west-season-1-season-2-a8039991.html
5. http://variety.com/2017/tv/awards/westworld-jonathan-nolan-lisa-joy-writers-room-1202501603/
6. Già nello spessore dei nomi, Ford e Sizemore (che vuole più misura, che cerca una misura maggiore), è intuibile l’approccio narrativo di Nolan, dedito alla ricerca di significati in ogni criterio di senso, col risultato di non poter mai tralasciare gli eventuali sottotesti, ma anzi renderli partecipi dell’intera economia narrativa.
7. Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza [The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind , Jaynes, 1976].
8. Dal greco deloo, mostrare. Il fine è già deciso, tanto evidente da esser celato.
9. Ibidem
10. Ivi
11. “Is Consciousness primary?”, Michel Bitbol, in NeuroQuantology, vol. 6, n°1, 53-72, 2008; citato quivi da
https://motherboard.vice.com/it/article/ae7mjg/finale-di-westworld-mente-bicamerale-rapporto-uomo-tecnologia