Vestito per uccidere [Dressed to Kill, 1980] ha un doppio merito: oltre a segnare una tappa fondamentale nel percorso autoriale di Brian De Palma, è anche un’opera che incarna in maniera lampante una estetica e, perché no?, un’idea di cinema che avrebbe dominato gli anni Ottanta del cinema americano. Il film, che fu fino a quel momento il maggior successo di pubblico per il regista di Carrie – Lo sguardo di Satana [Carrie, 1976], si può infatti considerare un’opera imprescindibile per ragionare sul concetto di postmoderno al cinema1, oltreché capace di racchiudere in sé molte di quelle tendenze che avrebbero dominato gli schermi americani di tutto il decennio. Il cinema teorico di Brian De Palma, dunque, dopo l’esperienza non del tutto riuscita di Home Movies – Vizietti familiari [Home Movies, 1979] (ri)trova nel cinema di genere2, e in particolare nel thriller, il luogo prediletto (e forse naturale) per la propria riflessione.
A conti fatti, Vestito per uccidere è l’ennesima variazione hitchcockiana sul tema del doppio. Molteplici se non addirittura sfacciati sono i continui riferimenti ad uno dei capolavori del maestro del brivido: Psyco [Psycho, 1960]. Il tema dello sdoppiamento della personalità, da sempre caro ai generi noir e thriller3, ritrova, proprio negli anni Ottanta, nuova linfa vitale, sia a livello di plot che, più profondamente, di riflessione metalinguistica. Come scrive giustamente Franco La Polla, «mai come negli anni Ottanta il tema del doppio ha dominato nel cinema americano […], un’epoca che, attirata dalla e intenta alla superficie [neretto del redattore], ha sempre meno armi per distinguere l’identità.»4 Questa tematica, d’altronde, aveva già caratterizzato una delle opere-cardine della filmografia depalmiana, di qualche anno precedente a Vestito per uccidere: Le due sorelle [Sisters, 1972]. Eppure bisogna distinguere le due opere. In questi (pochi) anni, infatti, il modus operandi di De Palma nei confronti del cinema è leggermente cambiato. Come sottolinea Leonardo Gandini, «Le due sorelle è un thriller morboso e conturbante ma dallo svolgimento essenziale, mentre Vestito per uccidere rivela l’attuale inclinazione del suo autore per un cinema barocco, ridondante, percorso da una vena romantica e melodrammatica. Un cinema, se vogliamo, anche meno rigoroso da un punto di vista narrativo.»5 Dunque, un cinema barocco, di superfici (per riprendere la terminologia di La Polla), non rigoroso, che ripensa profondamente alle proprie modalità di rappresentazione; e in cui il plot sembra piuttosto un pretesto, un mezzo per giungere a quello che, a De Palma, interessa davvero: «[…] un catalogo di immagini-feticcio, attraversate da modalità costituzionalmente perverse di esibizionismo-scopofilia […], il dilaniamento del sembiante, del corpo fantasmatico dell’attore, simbolicamente lacerato con furore iconoclastico.»6
Superfici e riflessi
Gli anni Ottanta, scriveva La Polla, sono un’epoca privata di «armi per distinguere l’identità». Ed è proprio attorno ad una confusione identitaria che si sviluppa il plot, abbastanza aneddotico e superficiale, di Vestito per uccidere. Interpretato da Michael Caine, Nancy Allen e Angie Dickinson, il film di De Palma mette in scena tutta una serie di ossessioni, scopiche e sessuali, di donne e uomini inappagati o insoddisfatti della propria condizione. Proprio da un’insoddisfazione di carattere sessuale (e, come vedremo, scopica) prende il via la vicenda narrata in Vestito per uccidere. La bella e benestante Kate Miller, dopo una deludente (forse, l’ennesima) notte d’amore con il marito, segue maliziosamente fino a casa un uomo incontrato casualmente al museo. Dopo aver fatto sesso, viene ammazzata in ascensore da un maniaco camuffato da donna. Il figlio di Kate, Peter, con l’aiuto della bella Liz – e di tutto un armamentario tecnologico che lui stesso progetta e realizza7 –, si mette sulle tracce dell’assassino, riuscendo infine a smascherarlo. Si tratta del dottor Robert Elliott, un serio psichiatra dalla doppia, inquietante personalità.
Il dottor Elliott… e il suo doppio.
«La pulsione sessuale si manifesta nelle forme, stravolte e deviate, proprie del fantastico: non solo il sadismo, ma il feticismo, la necrofilia, l’esibizionismo, il voyeurismo […], si proiettano dal piano tematico a quello del linguaggio senza interruzione di continuità.»8 Dunque, il film di De Palma passa in rassegna tutta una serie di ossessioni e perversioni calandole in un contesto a lui contemporaneo, e soprattutto inscrivendo nel tessuto filmico queste stesse ossessioni che racconta. Il risultato è un film ambiguo, difforme, onirico. Non stupisce che Vestito per uccidere sia stato accusato di misoginia e omofobia (la donna “punita” dopo la scappatella; il travestito omicida): eppure queste accuse hanno poco a che fare con un’opera il cui plot, come dicevamo, è semplicemente di facciata. Quello che interessa principalmente a Brian De Palma, infatti, è il funzionamento del sistema di suspance e la tensione creata fra i vari punti di vista dei personaggi e quello dello spettatore: come Hitchcock, egli è un regista-demiurgo, ma con la differenza che «[…] si preoccupa assai poco di truccare gli indizi, o di rendere imprevedibile la soluzione dell’”intreccio” […], mostrandosi ben più interessato alla pura fenomenologia della suspance.»9
Vestito per uccidere presenta un buon numero di sequenze di assoluto interesse teorico, e che bene sviluppano l’idea di fenomenologia della suspance di cui parlava più sopra Nepoti. Seppur riprendendo modelli di tipo hitchcockiano, De Palma vuole superarli non effettuando un semplice ricalco (e il riferimento al mondo artistico non è casuale: ricordate il plot di Complesso di colpa [Obsession, 1976]?) ma attualizzando l’operazione, ovvero inserendola in un discorso a lui contemporaneo (e perverso). Lo «statuto» dell’immagine, nel periodo in cui opera De Palma, è d’altronde mutato. Vestito per uccidere è a tutti gli effetti un film patinato, e che getta le basi per una trasfigurazione ontologica dell’immagine e del corpo cinematografici a cavallo fra gli anni Settanta e gli Ottanta. Scrive infatti, con un po’ di scetticismo, il grande studioso Franco La Polla proprio a riguardo di questo evidente scarto: «[…] l’attenzione riservata al corpo dal cinema degli anni Ottanta riguarda la riduzione dello spazio fra l’osservatore e l’osservato. […], al ritrovato e supposto “realismo” della New Hollywood, alle sue riprese esterne, alle sue locations […] a questa luce, sempre e comunque foriera di un corpo tridimensionale, concreto, quotidiano, palpabile, si sostituisce una luce artificiale, anzi artificiosa, che accorcia la distanza tra noi e il mostrato. Non è una questione di primi piani, ma la stessa sensazione che ci coglie quando, da qualunque distanza noi si stia osservando, ci troviamo di fronte a una superficie. […] la sensazione è che ora lo spettatore percepisca l’immagine come falsa, come non rispondente ai modelli di realtà che usualmente il cinema gli aveva proposto per anni […].»10 L’importanza di Vestito per uccidere risiede anche nell’aver funto da battistrada a tutta una serie di film, perlopiù neo-noir11, che, negli anni Ottanta, avrebbero riconsiderato non solo a modalità di intrattenimento, ma anche ad un più radicale ripensamento dell’immagine e del corpo.
Lo sguardo di Hitchcock: la fenomenologia della suspance
Ma veniamo al film. L’incipit onirico di Vestito per uccidere, poi ripreso nel finale, ci permette di porre in rilievo alcuni aspetti cruciali dell’operazione depalmiana. Come scrive Nepoti, quella messa in mostra da Vestito per uccidere è «[…] un’ossessione racchiusa tra due incubi. […] Se la valenza orrorifica trae enfasi dalla morfologia allucinatoria dei due sogni che iscrivono il narrato, la parte di “realtà” della story è nondimeno incubica e persecutoria quanto la fobia onirica, mentre sogno e veglia sembrano frangersi reciprocamente i bordi, alla ricerca costante di un’interferenza.»12 La natura onirica che pervade l’intera pellicola si configura dunque, in maniera lampante, nella sequenza d’apertura: un momento idilliaco, quasi uscito dall’immaginario soft-core, sottolineato dalla musica suadente di Pino Donaggio, ma che, a breve, verrà squarciato dai violini assordanti di modello hermanniano.13
La macchina da presa si avvicina, sinuosa, alla stanza da bagno. Lo sguardo non è attribuibile a nessuno: si tratta di un nobody-shot. Vediamo la protagonista farsi la doccia mentre osserva, desiderosa, il marito che si rade davanti allo specchio. Piani ravvicinati e dettagli ci mostrano la donna in preda ad una vera e propria eccitazione sessuale, mentre il marito, indifferente, non la degna di uno sguardo. L’ossessione della donna di essere oggetto dello sguardo maschile non trova risposta. Scrive Koresky: «[…] Il punto focale del film, è relativo esclusivamente a chi appartenga questa fantasia; già dalla soffusa apertura soft-core, che fa lentamente capolino dietro l’angolo di un bagno aperto, De Palma stabilisce molteplici punti di vista, che diventano ulteriormente confusi, ripetuti e raddoppiati nel corso del film.»14 La confusione che si stabilisce (di chi è lo sguardo iniziale?) si intreccia alla componente, fortemente onirica, che caratterizza la sequenza. Continua infatti Korensky: «Come nella sequenza di apertura di Carrie, che trascina la rappresentazione di uno spogliatoio in un idillio erotico, la natura pornografica della scena e l’occhio lascivo della macchina da presa ci fa intuire che qualcun altro sta guardando: le fantasie di Kate non sono le sue.»15 Uno stacco brusco dopo che la donna viene aggredita nel bagno attesta che si trattava di uno sogno. Un movimento che, come vedremo, troverà il proprio corrispettivo nel finale.
Nella prima sequenza, Vestito per uccidere innesca un complesso gioco di sguardi voyeuristici: ma chi sta guardando?
Come già affermato, il film inscrive filmicamente nel testo le tematiche affrontate. Non stupisce quindi che Vestito per uccidere sia costituito essenzialmente su di una struttura binaria. Due volte, ad esempio, assistiamo ad una seduta psichiatrica del dottor Elliott: la prima vede protagonista la signora Miller, la seconda Liz. Una di giorno, l’altra di notte. E per due volte il dottor Elliott viene “provocato” dalle donne, quasi volessero dimostrare la propria capacità di attrarre lo sguardo maschile – provocazione che il dottore, psichicamente instabile, deve “scansare” rivolgendo il proprio sguardo allo specchio, al proprio riflesso (un po’ come faceva il marito di Kate, nell’incipit onirico). Scrive Leonardo Gandini: «Per le parti in cui lo sdoppiamento riguarda il dottore e Bobby, De Palma […] ricorre o all’uso della voce (Elliott ascolta in segreteria un messaggio di Bobbi), o al primo piano di un volto silenzioso (per ben tre volte, nel corso del film, lo psichiatra lancia sguardi furtivi allo specchio, dove ad essere riflesso è, ovviamente, lo sguardo dell’altro), o, ancora, allo split-screen […]. È chiaro che dal punto di vista narrativo questi elementi vanno presi come piccole spie, indizi che dovrebbero aiutare lo spettatore a comprendere chi si cela dietro la sanguinaria Bobbi; tuttavia a livello più generale essi manifestano lo sforzo compiuto per orchestrare il thriller in chiave formale, piegando [neretto del redattore] lo specifico cinematografico – nei suoi elementi di base: suono più immagine – alle esigenze di una storia di doppia personalità.»16
Il dottore, quando provocato sessualmente, rivolge il proprio sguardo allo specchio – al suo doppio.
Lo split-screen, una delle soluzioni cinematografiche preferite da De Palma, è usata in Vestito per uccidere in maniera ingannevole: mostra infatti contemporaneamente il dottor Elliott e Bobby.
Ma la sequenza in cui Brian De Palma si confronta direttamente con il cinema di Hitchcock – nonché la più celebre dell’intera pellicola – è indubbiamente quella del museo. La location si rifà dichiaratamente al film-ossessione di De Palma, La donna che visse due volte [Vertigo, 1958]. Ma con un’importante variazione: se nel capolavoro di Hitchcock noi ci identificavamo con lo sguardo maschile, ovvero quello di Scottie intento a pedinare la bella Madeleine, qui, a fungere da “catalizzatore”, è quello femminile di Kate. Il suo è uno sguardo che non riesce a dominare il mondo, o più semplicemente a trovare una risposta: persone (e quadri!) le sono indifferenti. Ancora una volta, è uno sguardo mancato a turbare la nostra eroina.
La messa in scena della sequenza è tutta orchestrata attraverso campi e contro-campi: un gioco al rimbalzo, perfettamente simmetrico, tra guardante e guardato: una modalità che si rifà dichiaratamente al maestro del brivido. Si tratta di una composizione in blocchi molto precisa, che Raymond Bellour nei suoi celebri studi hitchockiani ha sviscerato e analizzato ampiamente.17 De Palma, dunque, attraverso questo attento gioco di rimandi e simmetrie, porta all’esasperazione quel sistema di suspance messo in atto da Alfred Hitchcock.
La celebre sequenza del museo, tutta giocata da campi e contro-campi di modello hitchcockiano.
La sequenza prosegue in esterni. Attraverso un virtuosistico long-take, la macchina da presa, dall’alto, piomba come un avvoltoio sulla protagonista. Un passaggio dal totale al dettaglio che è, ancora una volta, una “mutuazione” del modello hitchcockiano: in questo caso, il referente originale è Notorious – L’amante perduta [Notorious, 1946] e la sequenza è quella, celeberrima, della chiave. De Palma, attraverso un dolly e un carrello laterale, ci conduce dal volto della donna al dettaglio del guanto che aveva perso, ora tenuto dall’uomo nel taxi. In questa rapida carrellata, il regista inserisce un elemento subliminale: l’assassino tra la folla. Si tratta di un espediente “ludico” non distante dall’opera di un altro grande film post-hitchcockiano18, Profondo rosso [1975].
Salita sul taxi, Kate ha un rapporto amoroso con l’uomo. Il taxista osserva voyeuristicamente la scena mentre una bizzarra soggettiva della donna accompagna, con un barocco movimento, lei che si stende. Un urlo di piacere chiude la scena, sovrapponendosi al suono di un clackson: una trovata ironica che rimarca la natura anche comica della pellicola.19
Un complesso movimento di macchina ci porta da un campo lungo al primo piano del volto di Kate; segue una carrellata laterale fino al dettaglio del guanto tenuto in mano dall’uomo “misterioso” conosciuto al museo. Nel tragitto compiuto dalla macchina da presa, possiamo scorgere fugacemente il volto di Bobby tra la folla.
Dopo aver fatto l’amore, Kate scopre, frugando fra le carte del suo novello amante, ch’egli è affetto da sifilide. La musica extra-diegetica enfatizza il momento, inducendo lo spettatore a credere che si tratti di una svolta narrativa importante. Ma De Palma ci sta (ancora) ingannando. Si tratta di un esempio di MacGuffin hitchcockiano20: l’episodio non avrà alcun peso nell’economia del film. La donna, infatti, verrà uccisa poco dopo. Come in Psyco infatti, la protagonista viene eliminata dopo un terzo del film. La sequenza dell’omicidio della donna è strutturata sulla dilatazione temporale (esponenziale) di un evento, all’interno di uno spazio chiuso come accade nella celeberrima scena della doccia in Psyco – citata nella gestualità e nella recitazione della Dickinson. Si tratta di una sequenza importante perché sancisce una sorta di “transfert” tra Kate e Liz, che diventerà la nuova protagonista del film.
La sequenza dell’omicidio di Kate riprende la celeberrima sequenza della doccia di Psyco. Anche qui, infatti, il protagonista viene ucciso a metà del film. Segue un “transfert”, tutto giocato attraverso sguardi e riflessi, tra Kate e quella che sarà la nuova protagonista, Liz.
La fenomenologia della suspance di Brian De Palma di cui avevamo parlato si basa dunque sulla estrema (e paradossale) dilatazione della tecnica hitchcockiana del montaggio. Come scrive Jacqueline Nacache: «la suspance deve tutto al montaggio parallelo o alternato che permette a due luoghi e due (o più) azioni di coesistere nella stessa sequenza. Da qui l’estensione temporale, la famosa dilatazione che accompagna tutte le sequenze di suspance, tanto più paradossale in quanto il momento della suspance è vissuto come un fattore di narrazione veloce, mozzafiato. Ma il tempo della suspance è in tutti i suoi aspetti un tempo paradossale. Infatti, come l’ellissi, la suspance è un momento narrativo vuoto, per qualche momento, non c’è letteralmente più niente da raccontare. Dal tempo del racconto si passa a una temporalità astratta, che il montaggio può estendere all’infinito, e il cui unico obiettivo è quello di produrre emozione.»21 Ne è un ulteriore esempio la sequenza onirica che chiude il film. Elliott, dopo essere stato smascherato, viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico, da quale, però, riesce a fuggire.22 Giunto a casa della famiglia di Peter, dove alloggia per la nottata anche Liz, si nasconde furtivamente nell’ombra, pronto ad assalire la donna che sta per fare la doccia. Si tratta di una variazione dell’incipit, solo che ora, al posto di Kate, c’è Liz. Campi e contro-campi mostrano la ragazza che cerca di raggiungere un rasoio col quale potrebbe difendersi, ma l’uomo, incredibilmente, è già alle sue spalle e le recide la gola. Stacco: la donna stava sognando. Un movimento a salire della macchina da presa mostra la donna che urla nel letto, rimando così, idealmente, lo stesso movimento che aeva chiuso il sogno iniziale di Kate.
Il doppio infinito: incipit ed excipit rimano idealmente consegnando l’intera opera al registro del sogno.
Il film sancisce così, ancora una volta, la sua natura di doppio. Perché nell’universo onirico, doppio e finzionale di Vestito per uccidere il sogno – o, per meglio dire, l’incubo – non ha mai fine.
NOTE
1. Nel suo fondamentale saggio sul postmodernismo. Fredric Jameson indicava proprio negli anni Ottanta il periodo di maggior diffusione dell’immagine postmoderna al cinema. Cfr. F. Jameson, Postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, I coriandoli, 1989.
2. L’incontro con il genere di suspance ha sempre prodotto opere di grande livello: basti pensare a Le due sorelle e Obsession – Complesso di colpa.
3. Da La donna del ritratto [The Woman in the Window, 1944] di Lang a Lo specchio scuro [The Dark Mirror, 1946] di Siodmak, da Delitto per delitto – L’altro uomo [Strangers on a Train, 1951] a Chi giace nella mia bara? [Dead Ringer, 1964] di Paul Henreid, il tema del doppio abbraccia da sempre l’universo noirish del cinema americano.
4. F. La Polla, Sogno e realtà nel cinema di Hollywood, Il Castoro, Milano, 2004, p. 336.
5. L. Gandini, Brian De Palma, Gremese, Roma, 1996, pp. 58-59.
6. R. Nepoti, Brian De Palma, Il Castoro, Milano, 1995, p. 61.
7. In Vestito per uccidere c’è la presenza, forse anche un po’ invasiva eppure importante, di Peter Miller, un giovanotto brillante esperto di marchingegni elettronici. Il ragazzo è, com’è stato più volte ribadito da molti commentatori del film, una sorta di alter-ego del regista. Egli infatti costruisce (e de-costruisce) apparecchi meccanici che gli permetteranno di smascherare il colpevole (la polizia, nel mondo di Vestito per uccidere, non ha alcun peso). Prima, attraverso un apparecchio che gli permette di ascoltare cosa dicono delle persone in un’altra stanza nella stazione di polizia, poi, grazie ad una sorta di videocamera che fotografi il volto dell’assassino che esce dallo studio del dottor Elliott. Audio e video: i due elementi che costituiscono l’essenza del cinema. Vestito per uccidere, dunque, anticipa il discorso metalinguistico di Blow Out [id., 1981] sulla destrutturazione della realtà e la sua riproducibilità attraverso il mezzo (cinematografico).
8. R. Nepoti, Op. cit., p. 61.
9. Idem. p. 59.
10. F. La Polla, Op. cit., 332-333.
11. V’è, poi, un’altra interessante sequenza di thrilling, ovvero quella in metropolitana anticipata dall’inseguimento in taxi. Qui, il film anticipa quegli ambienti notturni metropolitani che diventeranno abituali in molto cinema americano degli anni Ottanta: una stilizzazione patinata in mondi notturni, pericolosi e onirici: pensiamo a I guerrieri della notte [The Warriors, Walter Hill, 1979], Cruising [id., William Friedkin, 1980], Tutto in una notte [Into the Night, John Landis, 1985], Fuori orario [After Hours, Martin Scorsese, 1985].
12. R. Nepoti, Op. cit., p. 58.
13. Il celebre compositore Bernard Herrmann ha infatti partecipato alla partitura delle colonne sonori di ben due film “hitchcockiani” di Brian De Palma, Le due sorelle e Complesso di colpa.
14. «[…] already from the steamy, softcore opening shot, which slowly peeks around the corner into an open-doored bathroom, De Palma has established multiple possibilities of point of view, which only become further confused and repeated and doubled as the film continues.» Michael Koresky, Final Fansasy: Dressed to Kill, http://reverseshot.org/symposiums/entry/784/dressed_to_kill
15. «As with the opening sequence of Carrie, which slowed down a post-gym-class locker-room into an erotic idyll, the pornographic nature of the scene and the lascivious eye of the camera all clue us in to the fact that someone else is watching: Kate’s fantasies are not her own.» Idem.
16. L. Gandini, Op. cit., pp. 52-55.
17. Cfr. con le celebri analisi di Gli uccelli [The Birds, 1963] e di Intrigo internazionale [North by Northwest, 1959], ora contenute in R. Bellour, L’analisi del film, Kaplan, Torino.
18. Il pesante trucco dell’assassino ricorda il travestitismo di Polanski in L’inquilino del terzo piano [Le Locataire, 1976], altro film hitchcockiano che gioca con i cliché de La finestra sul cortile [Rear Window, 1954], film citato anche in Vestito per uccidere per l’uso della soggettiva con il binocolo.
19. Secondo la celebre critica Pauline Keal, il film è infatti un sophisticated horror comedy: Cfr. P. Keal, http://www.geocities.ws/paulinekaelreviews/d5.html
20. Cft. F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nat Edizioni, Milano 1997.
21. J. Nacache, Il cinema classico hollywoodiano, Le Mani, Genova, 2001, pp. 79-89.
22. Una delle sequenze più disturbanti dell’intera pellicola, dai tratti assolutamente finzionali e con un’illuminazione (metalinguistica) da set cinematografico.