L’acqua e il fuoco

Una doppia luce illumina il cinema di Josef von Sternberg. L’acqua, il fuoco: congiunti. Le immagini emergono, alla lettera. Vengono a galla, bruciano sulla superficie, spiccano intorno a oggetti e soggetti circostanti. La diva, come la dea, immagine dell’immagine, affiora, a gradi. Scorre liquida, scia di luce, prima forma compiuta della prolettica materia, che affoga: cioè prende fuoco.

I titoli di Venere bionda [Blonde Venus, 1932] incidono l’acqua, la vegetazione vi si specchia. Un chiaroscuro fluido, ondulato, con il sole che brilla nello spazio tra Marlene e Dietrich, trait d’union luminoso tra la carezza del nome e la frustata del cognome di cui diceva Cocteau.

Venere bionda - 1

Poi, manda i raggi in mezzo al suo nome e quello di Herbert Marshall, è una spada fiammeggiante di passione (patire e appassionarsi), sole ingannatore tra il maschile e il femminile, sempre congiunti separati nei film di Sternberg. Quel sole scalda, rifulge di luce, è una meta lampante, come nel primo film dell’autore, The Salvation Hunters [1925], dove i protagonisti erano trionfanti figli del sole, «ready for happiness! Away from mud – towards the sun!». Ma il suo brillio può risultare freddo come la luna. I marinai de I dannati dell’oceano [The Docks of New York, 1929] erano illuminati dalle femmine disegnate sulle caldaie, sublimate effigi senza corpo. Marlene emana chiarore dal volto, s’impone sul buio maschile, il nero delle vesti, proprie e altrui, l’oscurità avvolgente. La fotografia di Bert Glennon, per la terza volta con il regista austriaco1, è contrastatissima, asseconda figurativamente l’unione e la separazione, il fuoco e l’acqua, opposizioni complementari, linee ondulate di umidità e calore. I lampi liquidi accendono, sfumano, purificano, scorrono, ri-generano.

salvation huntersUn fotogramma di The Salvation Hunters.

Una ninfa nuotante muove via le scritte del film, che svaniscono. Questa immagine di forme fluttuanti, acqua corpo rami sole, dissolve in quella delle fronde del salice (grazia e pianto all’unisono) attorno alla pozza d’acqua, un piccolo lago. Lago di luce, lago-cinema che dà (al)la luce. Successivamente, con I misteri di Shanghai [The Shanghai Gesture, 1941] e L’isola della donna contesa [The Saga of Anatahan, 1953], i film usciranno direttamente dai fondali (finti) del mare, in mezzo ai pesci (veri) nuotanti tra i titoli, oceano ricostruito nell’acquario, vicino all’idea dell’acqua falsa sognata dall’autore. Un’umidità circolatoria di ondulazioni artificiali sprigionata dall’energia (in)visibile del cinema: fiamme, pneuma e soffio vitale che increspano i fotogrammi, ri-plasmano il mondo.

Dei sette film della coppia Sternberg-Dietrich, Venere bionda, opera di mezzo, proemio delle incandescenze barocche conclusive de L’imperatrice Caterina [The Scarlet Empress, 1934] e di Capriccio spagnolo [The Devil is a Woman, 1935], vere lingue di fuoco estetico, e di liquidi sentimenti, è il meno considerato2, sebbene la libertà sfrenata di questi ultimi due titoli costituisca un approdo che parte proprio dalle sue sperimentazioni. Lo stesso autore non ne era affezionato, visto che dovette girarlo controvoglia, a seguito della bocciatura del soggetto ideato da lui e la Dietrich: un inno all’amore acqua-fuoco in perenne mutazione, che lega e separa eliminando ogni scoria.

Nel gennaio del 1932, raccontata a Benjamin Percival Schulberg, il capo della Paramount, la storia del futuro film ebbe subito l’approvazione. In marzo, divenuta sceneggiatura a firma di S. K. Lauren e del fido, affilato Jules Furthman, con molti particolari precedentemente omessi, iniziarono i problemi. Al punto che Schulberg non esitò a definirla «the goddamndest piece of shit I’ve ever read in my life»3. In aprile, una versione due volte emendata, era ancora troppo audace.  Pure a volerla accettare, c’era il timore che lo Studio Relations Committee (SRC) dell’Associazione dei produttori e distributori di pellicole cinematografiche (MPPDA: Motion Pictures Producers and Distributors Association) avrebbe cautelativamente imposto tagli e riscritture per evitare la possibile censura governativa. Mancavano due anni all’istituzione della Production Code Administration (PCA) per l’effettiva applicazione del Codice Hays e tuttavia, tra gennaio e aprile, fu tutto un interloquire tra i vertici Paramount e il MPPDA riguardo al film. Opponendosi a uno spurgo ulteriore del soggetto, fiamma di distruzione posta sulle cime innevate della Paramount, Sternberg si allontanò dalla major rischiando una pesante multa per danni. Venne riarruolato quando pure Marlene rifiutò di essere diretta da Richard Wallace per la stessa depurata storia.4 Nel frattempo, sulle lunghe e complicate controversie del film5, denominato inizialmente East River, poi Song of Manhattan, dopo ancora Velvet, la stampa aveva abbondantemente spettegolato. Nel maggio del 1932, iniziarono finalmente le riprese e, con la trama rivisitata e corretta, a Sternberg fu perlomeno lasciata piena libertà registica.

Alla base della prima sceneggiatura, c’era la dissoluta vicenda di una partita a quattro. La protagonista, Helen, cantante tedesca, sposava un americano conosciuto in Germania tradendolo con un politicante corrotto, senza rimostranza alcuna da parte del marito, un uomo senza carattere, il quale aveva però a sua volta un’amante. Alla fine, il divorzio avrebbe consentito alla donna di vivere con l’altro, insieme al figlio avuto dal legittimo consorte. Anche per via dei luoghi implicati, Germania e Stati Uniti, il soggetto era chiaramente ispirato alla storia d’amore tra Sternberg e Marlene, vissuta col beneplacito del marito dell’attrice, Rudy Sieber, legato invece a Tamara Matul. La stessa bimba della coppia Sieber-Dietrich, Maria Elisabeth (Riva), trasformata in bimbo, rientrava nella trama. Che non risparmiava ulteriori situazioni scandalose: l’alcolismo del marito, la prostituzione della moglie; le esibizioni, da parte di lei, nell’immaginario Magnolia Club di Harlem, dove ballerine e musicisti erano perlopiù neri. Peraltro, nome e ubicazione del locale, erano gli stessi di un discusso libro del periodo, Strange Brother (1931) di Blair Niles, relativo alla vita omosessuale della Harlem Renaissance6, e di sicuro la tematica in questione non sarebbe mancata.

La seconda sceneggiatura vedeva Helen esplicitamente innamorata di entrambi gli uomini. Fu su questa versione, per errore o per strategia, che venne realizzata su Screenland una breve novelization del film, come da consuetudine della rivista7. In quella definitiva, Helen, la cantante tedesca, giunta a New York City, è costretta a tornare in palcoscenico, per pagare un costoso trattamento medico al marito americano, chimico non proprio abbiente e tutto d’un pezzo. Nel locale dove si esibisce, conosce un politicante, non più così corrotto, a cui si concede per avere subito i soldi, e del quale finisce per innamorarsene mentre il marito è in Germania, a curarsi. Quando quest’ultimo torna, intenzionato a divorziare, e chiedendo il figlio per sé, lei fugge sempre più a sud col bambino, tra la povertà che incombe, la caccia della polizia e le inevitabili cadute nel degrado. Scoperta, consegna il pargolo al padre e torna a ricalcare le scene in Europa, a Parigi, ostentando un’orgogliosa e atarassica solitudine. Lì incontra il vecchio amante, che convince la donna a tornare in famiglia e il marito a perdonarla.

Un film catalogo

Per paradosso, compensazione ai limiti imposti o grazie al pieno controllo registico, Venere bionda risulta un film libero, delirante, composito e scomposto8, un catalogo di ruoli anche atipici per Marlene, ben più vasto rispetto ai lavori precedenti, che pure avevano scisso la diva9. Difetti a parte, ravvisabili soprattutto nel ritratto superficiale dei due personaggi maschili, rappresenta un inventario sternberghiano, una rassegna stilistica e tematica del mondo del suo autore. La riscrittura del soggetto non cancella i risvolti autobiografici né tantomeno mette a freno la visionarietà dell’autore. Dall’acqua iniziale si passa al focus domestico, che sfavilla vie di fuga e spinge ai numerosi cambi spaziali, rinnovando costantemente il film. L’elemento ricorrente liquido (laghi, mare) si accompagna a quello, altrettanto consueto, dei mezzi di locomozione (navi, treni, auto, carri): il fuoco, lo spostamento (non soltanto fisico)10. Le fiamme sono anche (specialmente) quelle amorose, in quanto, è noto, «L’amore è la prima ipotesi scientifica per la riproduzione oggettiva del fuoco».11 L’acqua indica il naturale fluttuare di questo amore, il fuoco ne sancisce l’immolazione, il cambiamento, il passaggio da uno stato all’altro. Il triangolo amoroso è correlato alla scelta, motivo consueto, e determina, prima di essa, l’indecidibilità umana tra bene e male, l’innamorarsi come benedizione e maledizione a un tempo.

Riappaiono i reietti e i poliziotti dei primi film, la caccia all’uomo (alla donna), il jazz e la cultura nera che pervadeva La mazzata [Thunderbolt, 1929], anche se ridimensionati rispetto alle intenzioni originarie. E ricompare l’amore filiale di un film perduto, Il calvario di Lena Smith [The Case of Lena Smith, 1929], tema successivamente spinto in territori edipici, espliciti ne La mazzata, indiretti in An American Tragedy [1931]12. Anche qui il rapporto tra madre e figlio ha un contrassegno morboso.13 L’arazzo visivo di Sternberg è intessuto di vuoto e pieno scenografico, luce e buio simbolici, di sequenze rapidissime e di altre più distese. Le ombre espressioniste di alcuni interni convogliano in esterni già noir. Il contesto urbano vive del ricordo primitivo, istintivo, vegetativo. Palme, fronde, reticolati di verde, anche artificiali, ne ammantano gli spazi, quasi spuntando dalla macchina da presa, soprattutto dentro i locali, durante i numeri musicali. Costituiscono una distanziazione estetica, una delimitazione artificiale del quadro, sempre dato per finto, pur partendo dal vero. La natura sternberghiana origina da reminiscenze autentiche, è una probabile ricostruzione onirica del Prater, il parco giochi viennese dell’infanzia dell’autore, ritrasfigurato anche sul versante opposto del carnevale, luogo ricorrente dei suoi film. Qui, come si vedrà, se ne mantiene l’atmosfera, frazionata attraverso i numerosi ruoli assunti dalla protagonista e condensata in una simbolica maschera indossata di lato, tra l’orecchio e la nuca del bimbo. Nella Marlene hobo degli anni della depressione, si celano pure i ricordi di povertà dell’autore, disoccupato e vagabondo tra la Bowery Street e l’East Side di New York.

Forse vi respira pure l’inconscio (tragico) dell’epoca: il Volk tedesco ultranazionalista, con lo spazio selvatico puro, foriero di miti, contrapposto a quello urbano, corruttore. Il nazismo prese le mosse proprio da lì14. La selva di Sternberg è comunque popolata di rive e fanciulle in fiore, risuona di note metafisiche, visualizza e attualizza i versi del Faust di Goethe, non è mortificata dall’ordine borghese. Semmai i termini di confronto sono assunti più per convenzione che per convinzione, l’acqua briga col cemento, il solido col liquido in quanto nel progetto iniziale avrebbe dovuto scorrere la liquidità erotica. E perché quell’inizio selvatico, lacustre e boschivo, rappresenta un luogo superno, i Campi Elisi dell’attrazione. L’incipit permeerà difatti l’intero film di un totalizzante sogno d’amore perduto. Malgrado Sternberg sia costretto a far trionfare la s(t)olidità dell’amore domestico, a lui del tutto inviso.

A proseguire in parte la natura, il mito, interviene lo spettacolo, luogo dell’inconscio (sessuale), del vero. Sul palcoscenico Helen, già semidea (Elena), incarna la divinità assoluta: si trasforma in Venere (bionda) e assume le forme desideranti più disparate. Il marito, malato, mediocre, chimico in procinto di scoprire una formula, viene messo fuori scena, mandato a curarsi a Dresda. Il nome, Faraday, lo stesso di uno dei chimici e fisici più noti dell’Ottocento, è sicuramente parodico (equivale allo sberleffo, con il nomignolo di Einstein, di uno scienziato del tutto anonimo). I nomi o soprannomi bizzarri, camp e pop ante litteram, sono un’altra costante di Sternberg15.

L’ouverture del Sogno di una notte di mezza estate (1842) di Mendelssohn, replicata ne L’imperatrice Caterina (insieme a Wagner e Ciajkovskij16), connota la foresta nel senso magico e amoroso shakespeariano, plasmando le vicende successive, aperte alle metamorfosi e agli scambi erotici. Al magico flusso acquatico. Alle fiamme del mutamento. Marlene si trasforma in gorilla (o viceversa), nel celeberrimo numero musicale Hot Voodoo, cambiando ruolo e personalità di continuo. Moglie, madre (coraggio), amante; showgirl amata, vagabonda ricercata; prostituta per amore, single che rinuncia orgogliosamente a ogni tipo d’amore. Il personaggio alterna e fonde le dee che incarna, come in una divina invasione, un rito vudù. Elena che fugge con Paride, Venere che convoglia l’Eros ovunque (anche nel figlio, persino nella solitudine)17. Il marito volge dall’amore all’odio, l’amante dall’eros all’agape. E l’intero film sterza e s’incanala in ogni genere e «luogo». È melodramma, musical, poliziesco, pone un ponte tra l’Europa e l’America, la East Coast e il Deep South degli Stati Uniti, la cultura e il kitsch, i miti classici e il romanzo rosa, il serio e il faceto. Si ha persino la tentazione d’interpretarlo in senso sociale. Si parla di soldi, difficoltà economiche, mostra come ci si arrangia per un pasto. Le vicissitudini di Helen alluderebbero ai drammi di chi ha perso tutto per via della crisi ed è costretto a barcamenarsi tra un lavoretto (anche sporco) e l’altro, da uno spostamento all’altro. È Sternberg al quadrato, vicinissimo alle successive, estreme bizzarrie autoriali di un titolo quale I misteri di Shanghai.

Preludio a Marlene

L’apparizione della protagonista, come di consueto, viene allestita, organizzata, preparata. Se nel primo film di Sternberg, The Salvation Hunters, le figure umane sono precedute dai loro riflessi nell’acqua, procedimento ripetuto anche ne I dannati dell’oceano, almeno rispetto al personaggio di Mae (Betty Comson), la figura di Marlene riesce a manifestarsi soltanto dopo elaborati preannunci, introduzioni visuali, prologhi epici e premesse (promesse) simboliche. Una stella ha bisogno della notte per palesarsi. Quella di Venere, astro del mattino e della sera, necessita di entrambe: brilla con il chiarore e con l’oscurità, rifulge di luce e buio. La gestazione di forme che precede il materializzarsi di Marlene/Venus avviene in maniera ancora più sofisticata che nei film precedenti (e successivi), diventa una mistione, fotograficamente eccelsa, di chiarore buio e oscurità rifulgente. In linea con gli altri personaggi, doppi al pari di Venere, inalveati fra le vette e il fondo, l’amore e il suo sterminio, conflitto eterno tra nero e bianco.

Ne L’angelo azzurro [Der blaue Engel, 1930], prima di essere corpo, Lola-Lola veniva virtualizzata da una cartolina, dopo il ritratto di un manifesto apparso da una vetrina bagnata d’acqua, al risveglio di una città (semi-espressionista) destatasi con gli sbuffi dei comignoli. In Marocco [Morocco, 1930], tra i fumi della caligine, sulla nave pronta all’attracco, preceduta dal controcampo dell’acqua e del faro, Amy Jolly compariva dal bordo destro dello schermo, luce nera abbatti-nebbia, a contrastare la lucentezza d’apertura del fuoco del deserto. Disonorata [Dishonored, 1931] faceva emergere a strati la futura spia X-27: dalla pioggia e da un lampione, di nuovo da acqua e fuoco.

Venere bionda - 2Un fotogramma di Disonorata.

Tacchi, gambe, la mano mostrata a sollevare la calza, il profilo, il cappello, la veletta, poi il corpo intero. Invece Shanghai Lily di Shanghai Express [id., 1932], schermata dal vetro del taxi, in risalto progressivo sul chiarore delle uniformi bianche e la folla della stazione di Pechino, piena di vapori, si delineava come creatura mitologica. Donna-uccello, oscura donna-piume ancor più luccicante di Feathers, la proto-Marlene Evelyn Brent de Le notti di Chicago [Underworld, 1927], il titolo che inaugurò la collaborazione con il costumista Travis Banton, il sarto-genio della diva, ovviamente guidato da Sternberg.

Le opposizioni cromatiche e degli elementi (solo apparenti: l’ombra non nasce dalla luce? l’acqua della pioggia non è dovuta al fuoco del sole?18) continueranno nei film successivi. Ne L’imperatrice Caterina, il preludio a Marlene è dato da lei bambina (interpretata dalla figlia Maria Riva), poi dalle scene di tortura in Russia, tra neve e fuoco, prima che si manifesti sull’altalena, con ampia gonna bianca e il fogliame scuro che ne attenua il biancore. Infine, Concha di Capriccio spagnolo, circondata da palloncini, squarcia il Carnevale, apparendo dal lato sinistro dello schermo, preceduta dal carro di cavalli e cavalieri bianchi, in contrasto complementare con il carro della direzione opposta trainato da cavalli e cavaliere neri. Una maschera di oscurità, con il volto di luce incorniciato dai ricami della mantiglia che discende spiovente da una lussureggiante peineta.

Un’ulteriore ouverture di forme prepara dunque l’apparizione della Venere bionda. Un appellativo che sembra casuale ed è in realtà ricco di implicazioni. Per il personaggio del film e per l’intera Marlene sternberghiana. Già Disonorata aveva mostrato una dea/donna che, pur senza rinunciare alla seduzione, a monili e belletti muliebri, imbracciava (altre) armi, combattendo da spia per il suo Paese. È la Venere di Sparta (Afrodite), con la lancia e lo scudo, di cui parla Plutarco19. La stessa dea che, più di tutto il pantheon classico, fa coincidere gli opposti con una perfetta disinvoltura antesignana della «perfetta indifferenza» tanto ammirata nella Dietrich da Sternberg20. Nella monografia su di lui, John Baxter21 cita il racconto di Ernest Hemingway, Big Two Hearted River I (1924)22, dove, riguardo al personaggio,  viene usato il nomignolo «Venere bionda»: «They called Hop’s girl the Blonde Venus. Hop did not mind because she was not his real girl». Baxter ipotizza che Sternberg abbia potuto prendere il nome, come sicuramente Hemingway, da Nana (1880) di Émile Zola, di cui pure era stato progettato un adattamento con la Dietrich, dopo l’enorme successo di Shanghai Express23. All’inizio del romanzo, la protagonista, diciottenne, recita al Théâtre des Variétés l’operetta La blonde Vénus, modellata su La belle Hélène (1864) di Offenbach, il cui debutto avvenne nello stesso teatro di Parigi. Nell’opera di Offenbach, nella scena IV, Hélène invoca Venere in questo modo: «Ecoute-nous, Vénus, Vénus la blonde!». Probabile quindi che l’ispirazione venga da qui (magari per lo stesso tramite di Zola), visto che il personaggio del film di Sternberg, come si è detto, si chiama Helen (con l’epiteto «Venere bionda» si esibisce in un locale notturno).

Con Elena e Venere, sebbene evocate per altri tramiti, si entra (in)direttamente nella mitologia. La diva diventa quasi alla lettera dea e il personaggio presenterà le caratteristiche di entrambe le figure.  Figure in fondo collegate, visto che Elena venne indotta a seguire Paride da Venere/Afrodite. E parimenti a Elena, moglie di Menelao, madre di Ermione, che fuggì con Paride, Helen/Marlene, sposa di Faraday e madre di Johnny, si dà a Nick Townsend, il politico playboy. Entrambe le donne sono incolpevoli strumenti del destino, il Fato dei Greci. Se quel destino, per Elena, corrisponde alla volontà di Afrodite, è Venere bionda, il personaggio calcato sulle scene, a esporre Helen alle brame di Nick. Venere/Dietrich, fedele al suo nome, emerge dalle acque (oltre che da un gorilla). Non dal mare: da un laghetto della Schwarzland, la Foresta Nera del Baden-Württemberg, resa luogo degli inganni amorosi dalla musica di Mendelssohn. Dopo la consueta, sontuosa premessa visiva.

I numeri magici

Prima che Venere compaia, il fogliame scopre e copre altre nude divinità che ruotano in cerchio in una totale indistinzione d’immagine e di suoni.

venere bionda recensione josef von sternberg

Qualcuna nuota, qualcuna esce per potersi tuffare dal terreno circostante, tra le urla di approvazione delle altre e gli spruzzi d’acqua. Sternberg essenzializza l’acqua-donna, la vegetazione che unisce cielo, acqua e terra. Realizzando un’immagine straordinaria, svuotata e allo stesso tempo ricolma, della potenzialità, dell’indifferenziato, dell’acqua madre generante, prima materia da cui sorge la vita. È la raffigurazione circolare del femminile fonte del femminile, cerchio acquatico sorgivo dell’ἒν τὸ Πᾶν (hèn tò Pân), il tutto in uno del caos primigenio. Un uroboro roteante liquido, dove le acque primeve sono equiparate al flusso continuo del mondo. Le ninfe sono sei. Indistinguibili, s’identificano con il numero perfetto dell’antico sistema cosmico, «somma e prodotto delle sue parti» che «si ottiene sia sommando sia moltiplicando 1, 2, 3. È quindi il prodotto del primo numero maschile e del primo numero femminile»24. Una femmina affiorerà dalla totalità indifferenziata dell’acqua-donna, come un maschio spiccherà da quel gruppo generalizzato di uomini, sette, che si aggira nel bosco di montagna.

I numeri hanno un certo valore. Ritroveremo il sei altre tre volte nel film. Forse di più, a sommare, l’uno e il cinque dei dollari che la protagonista elargisce a favore del marito (1.500) e di una reietta (150). E il doppio di sei, dodici, costituisce il numero dei dispersi de L’isola della donna contesa, che sbarcano ad Anatahan il 12 giugno (sesto mese) alle ore 6. Probabile che a Sternberg interessassero le figure altamente simboliche del doppio triangolo speculare e dell’esagramma, entrambe raffigurazioni ermetiche del numero sei. Nella prima, si uniscono specularmente due triangoli, uno con la punta verso il basso e l’altro con la punta verso l’alto, rappresentando il maschile e il femminile, il corpo e l’anima: riflessi l’uno nell’altro ma di fatto distinti. Invece nell’intersecazione dell’esagramma, i due triangoli coesistono in un equilibrio complementare di polarità opposte.

Il sei è quindi il numero dell’erotismo come forma di attrazione, complicata dall’opposizione sessuale che ne è alla base (sesso, dal verbo secare: tagliare, separare). L’erotismo di Sternberg esplicita la tensione tra unione e separazione, altezza e abisso. Forse il dodici, doppio di sei, allude all’ulteriore specchio-cinema-acqua, che riflette l’eros duplice del sei-vita? O si tratta del risultato della moltiplicazione tra cielo (tre) e terra (quattro), rispettivamente maschile e femminile? La somma di questi numeri dà sette. In Venere bionda, quel 7 del gruppo maschile segna per certo anche l’ordine strutturante della sessualità manifestata dal 6, da quella potenzialità generativa indistinta del lago/kháos, sia pure edenico. Venere esce dall’acqua per tramite dell’uomo. Un uomo-sette matrimoniale. Espressione della legge, dell’ordine/kósmos.25

La foresta incantata

Con uno stacco si passa dal lago delle ninfe al gruppo degli escursionisti americani, nature contrapposte anche geograficamente. Dal femminile ci si volge al maschile. La macchina da presa segue lateralmente la compagnia, giovani stranieri in Germania, da sinistra a destra, dall’ultimo della fila al primo, creando nuovamente contrasti di luce, chiaroscuri determinati dalle vesti, dal sole, dagli alberi e dalle ombre. Siamo in una foresta incantata, le note dell’ouverture del Sogno di una notte di mezza estate (1843) preparano all’amore e alla trasformazione in atto, per non parlare delle metamorfosi successive.

Anche la foresta è un luogo di gestazione, il corrispettivo frondoso dell’inconscio-madre acquatico, ugualmente apportatore di luce, pur nelle ombre del vegetativo misterioso. Il lucus, la radura della foresta, ha la medesima radice indoeuropea leuk «all’origine di lux, lucis, la luce, di luna (in origine leuk-sna, cioè “la luminosa”), di lustrare (leuk-strare), “purificare mediante un sacrificio”, e di lustrum, “luogo selvaggio, scoseso”, e infine di luxuria, che in latino significa “sovrabbondanza, esuberanza della vegetazione” e solo secondariamente indica l’eccesso di ardore, il che ha dato per derivazione la parola lussuria. Tutti questi concetti, in apparenza diversi, definiscono insomma le particolarità, o meglio le funzioni, dei boschi sacri».26 E potrebbero altrettanto circoscrivere alcuni elementi ricorrenti di Sternberg, il suo fuoco-gemma risplendente.

Si aggiunga che il nemeton celtico e il nemus latino, altre denominazioni della sacra radura, possiedono la radice nem- attraverso la quale viene espresso l’atto di dividere, tagliare. Appare di nuovo la separazione congiunta del sei/sesso, manifestando altresì l’individuazione tout-court. Il personaggio Ned, interpretato da Herbert Marshall, si stacca gradualmente dal gruppo con cui si confonde, e Sternberg lo lascia emergere agli antipodi dell’altro personaggio dei sette, ultimo della fila, che appare per primo ed è l’unico (appena) caratterizzato. Interpretato da Sterling Holloway, la futura voce di Winnie the Pooh, attore dai ruoli di eterno bambino, è il primo a mettersi in luce ed è pure il più appariscente, per via delle angolazioni, delle vesti chiare e dell’articolazione delle battute.

venere bionda recensione josef von sternberg

Ha un cane al guinzaglio, animale che nei film di Sternberg affianca il maschile, laddove il gatto si accompagna al femminile27. Parla per primo, affaticato («Hey guys, wait a minute!»), con la figura intera in campo e gli altri sullo sfondo. Prima uno, poi, man mano che la camera si sposta, diventano due, quattro, cinque, sei. Il primo in fila, l’ultimo ad apparire, è Ned, indistinto quanto gli altri.

La macchina da presa si assesta sulla pausa dei giovani. Quasi al centro del quadro, Ned viene mostrato di spalle, su un tronco a terra. Si cominciano a delineare meglio i volti degli altri, lui volge il capo a sinistra, verso il ragazzo vestito di bianco, dicendogli che non si può lasciare la Germania senza aver fatto mai un bel viaggio a piedi. Un berretto gli copre la testa. Quindi, non soltanto la diva la si avvicina a gradi, ugualmente il suo corrispettivo maschile è preceduto, e non solo in questo caso, da ripartizioni, suddivisioni, separazioni. Il gruppo scorge un taxi, cosa rara, viene detto, da incontrarsi nella Foresta nera. All’apparire della vettura, attraverso un’immagine tendina che scopre la successiva, come sfogliando una pagina (effetto di transizione utilizzato più volte), Ned/Marshall viene mostrato nel bordo destro dell’inquadratura, quasi a figura intera. Con un altro stacco, la macchina da presa stringe leggermente sul tassista, estromettendolo dal quadro, prima di apparire finalmente in primo piano, di profilo, bordato di berretto, tracolla e giacchetta sulle spalle nell’inquadratura successiva.

blonde venus recensione josef von sternberg

Il tassista circondato dai ragazzi, distribuiti attorno alla vettura, spiega che non può caricarli, perché attende delle attrici di teatro, posizionate più in là. Il gruppo inizia a fumare, è il fuoco contrapposto e unito all’acqua. Un’altra dissolvenza a sipario, da sinistra a destra, scopre il bagno delle ragazze, lasciando per un attimo l’immagine circoscritta di Ned, il predestinato. I rami coprono tuffi e nudità, sarà poi compito delle increspature dell’acqua, dei movimenti delle ragazze, delle plurime dissolvenze dei corpi che s’incrociano, a velare svelando. Un momento di assoluta bellezza, pudico e impudico insieme, quasi a voler suggerire la doppia natura di Venere, in procinto di mostrarsi: dea del desiderio sia verecondo che inverecondo. Dall’antico neutro latino Venus, poi femminile, sarebbe derivato il verbo venerari, l’atto di ottenere la venia, il favore divino, divenuto poi favore sessuale28. Ugualmente, «Venere era onorata col nome di Verticordia (‘colei che volge i cuori’) e le veniva attribuito il compito di ‘volgere’ verso il matrimonio la sessualità femminile».29 Il ruolo interpretato dalla Dietrich attraverserà entrambe le ipotesi di amore e desiderio.

Tornando al maschile simbolico, appare significativo che, mentre i ragazzi si mettono ad osservare le bellezze al bagno, il personaggio dai tratti adolescenti e asessuati di Sterling Holloway, chiassoso e infantile, venga ricacciato in fondo all’inquadratura, quasi trattenuto, messo a tacere. A predominare deve essere Ned, il maschile ordinatore, nel momento stesso in cui, finalmente, appare Marlene. In primo piano, dall’acqua, appoggiata a un ramo (lui prima era invece appoggiato a un tronco), insieme a un’altra ragazza il cui volto resterà coperto dal fogliame prima che sia estromessa dall’inquadratura, per poi nuovamente apparire.

venere bionda marlene dietrich recensione josef von sternberg

Indistinta anche quando batte il pugno sull’acqua, in segno di protesta contro gli indiscreti ospiti, replicando quanto fatto un attimo prima dalla Dietrich, e nuotando, dietro di lei, nel senso contrario ai ragazzi. Le ninfe, infatti, devono uscire dall’acqua e tornare, alle sei (ancora quel numero), al teatro dove lavorano, ma Ned, controcampo strafottente, minaccia di restare lì, con gli altri, volendo a tutti i costi l’assenso, negato, a un eventuale incontro con la Venere, una volta terminato il suo impegno al night.

La parte relativa alle acque e alla foresta magici, nel descrivere un momento di pura contemplazione, di acque libere, femminili, nelle quali si iscrive successivamente il desiderio maschile, sembra essere plasmata sui versi di Goethe quando Faust, in Grecia, alla ricerca di Elena, lungo il basso Peneo della Tessaglia, si avvicina al fiume e rivede la scena di Leda e del cigno (Faust, seconda parte, 1832: vv. 7249-7494). Un’immagine che, non a caso Bachelard ebbe a definire «completamente dinamizzata», mobile, in evoluzione: l’immagine che «deve evolvere, nell’inconscio, dal femminile al maschile»30. Anche in quel caso, il bagno di «sane e giovani membra di donna», circondate dalla «ricca fronda della verde abbondanza (che) cela la nobile regina», preannuncia l’arrivo dei cigni, dei maschi. «Uno però sembra più di tutti arditamente impettito e pieno di sé, veleggiando via rapido fra gli altri. Le sue piume si gonfiano, egli stesso, onda che si culla ondeggiando sui flutti, si avanza sin dentro il luogo sacro»31. Sternberg era consapevole della citazione? Si tratta della criptomnesia di un classico celeberrimo? Oppure partendo da un’immagine precisa (l’acqua e le ninfe) si arriva necessariamente alla strutturazione archetipica, con tanto di figure correlate (Elena)?32 Non è comunque l’unica volta in cui in un film di Sternberg si avvertono gli echi vaghi di qualche prototipo: La Tosca (di Sardou o Puccini?) in Crepuscolo di gloria [The Last Command, 1928]; la maupassantiana Boule de suif (1880) in Shanghai Express;  Madama Butterfly (di Puccini o Belasco?) e il mito di Medea ne I misteri di Shanghai.   

Sulle rive di casa

Definite mediante la presenza della protagonista, le acque della totalità, indifferenziate, liquido simbolico del caos pluri o a-sessuato, trasmutano nelle acque generatrici progressive. Una dissolvenza, in acquatica continuità, sposta l’azione in una vasca da bagno, da dove emergono le gambe di Johnny (Dickie Moore)33: un bimbetto che, dice alla madre (fuoricampo), gioca a fare il coccodrillo.

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Ovvero un rettile anfibio, che esce dall’acqua del fiume per deporre le uova sulla riva. È quello che ha fatto pure sua madre, Helen. Un’altra dissolvenza, del bambino nella vasca, mostra la fila dei palazzi sull’acqua, a Brooklyn, le «rive» dove lei, per amore, si è trasferita, sposandosi con Ned.

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weehawken sternberg paintingSopra: un fotogramma di Venere bionda. Sotto: Weehawken (1953) di Sternberg.

Elena, della mitologia greca, era nata pure da un uovo, dalle acque. Suo padre era Zeus e sua madre Leda, sedotta dal padre degli dèi trasmutato in cigno. Se davvero la scena iniziale è modellata sullo schema poetico goethiano, allora questa Elena ripete, più prosaicamente, le gesta della madre, abbandonandosi all’amore di un chimico, parafrasi artificiale di un creatore divino.

La Venere di Sternberg nasce da un lago invece che dal mare, ma sarà la spuma marina ad essere associata alla sua Elena, quando il nome d’arte della donna, Helen Jones, con cui si esibisce nei locali (insieme all’altra denominazione del titolo, Blonde Venus), lo si vedrà in sovrimpressione sulle rive del mare che segnano uno dei tanti spostamenti geografici del film, anch’esso anfibio nella continua alternanza di acqua e terra e nel succedersi di stili eterogenei, in controtendenza rispetto al cinema classico hollywoodiano e, in particolare, della Paramount.

blonde venus

Nella scena delle «rive» newyorchesi,  la macchina da presa si muove da destra a sinistra, mentre un traghetto fa il giro opposto. Le direzioni del film sono plurime ed opposte, un tripudio di traiettorie. Comprese quelle dei personaggi. Prese singolarmente, le scene sembrano appartenere a tanti film differenti. L’eterogeneità formale, sconcertante per l’epoca di realizzazione34, rivela oggi una totale modernità espressiva.

Con uno stacco, dall’esterno si  ritorna all’interno del bagno. Dall’acqua della natura a quella domestica, relativa al focus focolare, precedente il Fuoco dell’attaccamento, il Fuoco dell’avversione, il Fuoco della confusione,35 in definitiva il Fuoco della passione (vale sia per Ned che per Helen, ritrovatisi in un vortice di sentimenti e patimenti). Accanto alla vasca, l’ex Venere dell’acqua, futura Venere dei palcoscenici della terra, insapona un panno, che strofina sul figlio, impegnato a variare i suoi giochi acquatici. Il bimbo imbocca la tromba, come a dar fiato all’imbarcazione che aveva rappresentato per gioco e che nell’immagine esterna precedente si era vista davvero. Si entra in una dimensione simbolica e se ne esce, di continuo. Anche da quella divistica di Marlene. Venere bionda pone la distanza tra la Marlene sulle scene, diva, divina, se non addirittura dea (Venere), dentro e fuori dal film, e il ruolo della donna di casa, che accudisce figlio e marito (ponendosi sulle spalle il primo, dopo aver raccolto qualcosa che ha buttato a terra), svolge i lavori domestici, ricama, porta il grembiule e le maniche arrotolate: un’assoluta novità.

Tra lo spazio domestico e quello dello spettacolo vi sarà una sorta di discesa nel mondo «inferiore», combaciante con lo spostamento geografico in giù, da New York verso il profondo Sud degli Stati Uniti, segnato da una graduale volgarizzazione (o valorizzazione) dell’immagine della star. Si assiste alla Marlene vagabonda, su un carro di fieno e in una stamberga, tra le galline, senza soldi, ricercata e, per forza di cose, lavapiatti (fuoricampo) e prostituta (in maniera assai indeterminata). In campo choc, è invece ubriacona malferma e vacillante in un lurido dormitorio. Ancor prima, la si vede in un equivoco locale di sole donne, aiutata a fuggire da una tenutaria dal look decisamente lesbico, che dice però di avere un figlio.

Gli elementi eterogenei, i passaggi da uno spazio all’altro, anche da una dimensione all’altra, trovano la continuità attraverso un elemento in comune, un ricordo che attraversa i diversi blocchi narrativi. Ad esempio, il piccolo Johnny, prima di andare a letto, chiede costantemente ai genitori di raccontare una favola, il mito del loro primo incontro nella foresta incantata. Li ascolta, addormentandosi, prima che la madre intoni una ninnananna caricando un carillon dove sfila in cerchio, attorno a un palmizio, un gruppo di angioletti, intermediari tra questo mondo e il cielo (il racconto).

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Sono sei, esattamente come le ragazze del prologo. Il bimbo è il settimo angelo venuto alla luce (precedentemente suonava la tromba), ordine e risultato di quell’amore mitico: ordine e cosmizzazione del caos, come lo era stato il padre nel bosco.

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La tradizione pittorica classica, da Annibale Carracci ad Alexandre Cabanel, a William-Adolphe Bouguereau, attesta d’altronde che Venere è adusa ad accompagnarsi ad amorini o angioletti. Gli angeli accompagnavano anche il ritratto e le scenografie di Lola-Lola. Anche la ninnananna che Helen canta al bimbo pone un collegamento, colto, sottile, con il prologo, tornando a Mendelssohn. Si tratta infatti della sua  Leise zieht durch mein Gemüt (1834), su testo di Heinrich Heine.

nascita di venereLa nascita di Venere (1863), Alexanre Cabanel.

venere dormiente con amoriniVenere dormiente con amorini (1602-1605), Annibale Carracci.

82033059_312873342959482_3318841256775254016_nLa nascita di Venere (1879), Adolphe Bouguereau.

Il soggetto finale del film deve sancire l’ordine familiare, esaltando lo spazio domestico. I due elementi principali del prologo, l’acqua e il fogliame, percorrono però tutto il film, reviviscenza di un paradise lost.  Ned e Helen mimano per il figlioletto il loro primo incontro d’amore sotto gli alberi (al parco, dopo lo spettacolo di lei) utilizzando un indumento a fungere da vegetazione.

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Si tratta di una narrazione familiare edulcorata, la storia della nascita del bambino (sui dettagli della quale arriva pronto lo «shhh» della mamma rivolto al papà in procinto di affrontare l’argomento). La camera del bimbo è nuda ed essenziale, mantiene una certa intimità senza tempo con il mito e l’amore angelico. Il resto della casa è stipato d’oggetti, come consuetudine sternberghiana, con arnesi e utensili che arredano l’oppressione, rappresentando una nevrotica brama di sicurezza. Soprattutto il laboratorio domestico di Ned, costituito da alambicchi, distillatori, cilindri, densimetri e ogni sorta di ampolla chimica, diventa la metafora di una ricerca (della felicità) non raggiunta. Si fa menzione di una formula, dall’esito ancora incerto, a cui l’uomo starebbe lavorando da tempo.

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Chiaramente, Sternberg non ama il personaggio e del figlio mette in risalto più le petulanti insistenze36 che non una simpatia che, secondo i canoni dell’epoca del film, sarebbe facilmente scivolata in assortite melensaggini, non del tutto evitate.37 Ma il bambino resta il vero amore di Helen, seduta a fianco del piccolo, attorno al suo lettuccio (quindi alla sua altezza), laddove il papà, in piedi, è posto a maggiore distanza sia dalla moglie che dal figlio.

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La sera in cui la donna torna ad esibirsi, bacia il piccolo in bocca, diversamente dal papà, baciato sulla guancia. Dopo l’eudaimonia del prologo, nello spazio empirico di casa impera il principio di realtà, contrapposto alla libertà e ariosità del bosco di montagna, luogo d’incanto, leggendario. La Dietrich che lava il figlio, leggermente scarmigliata, o nelle sue attività domestiche, ha nel volto i segni quotidiani della deludente scoperta del reale: è la diva ricondotta sulla terra.

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Sternberg occulta e amplifica quella mestizia (copre e scopre, parimenti al salice dell’apertura) servendosi di figure retoriche (o melodrammatiche) più accette. Comprime allora quella tristezza estendendola agli esiti narrativi di un destino crudele: Ned è gravemente malato, per via della persistente esposizione alle radiazioni sul posto di lavoro. In tal modo, il dispiacere è giustificato.

Ned e la morte

 Un’ennesima dissolvenza a tendina, da destra a sinistra, mostra Ned che entra in uno studio medico, ovvero, come specificherà al dottore (Morgan Wallace), «on this side of the water». Vuole vendere il suo corpo alla scienza, per offrire il ricavato alla famiglia. Il medico non può dargli più di 50 dollari (momento ridicolo o perfido: Ned non vale più di tanto!), ma gli infonde la speranza di una possibile guarigione, ottenibile grazie a una cura di quattro mesi da effettuarsi in Germania, proprio dove l’uomo aveva studiato, e per mano di un suo vecchio professore. Al costo, per lui proibitivo, di 1.500 dollari.

Sin dal nome, lo stesso, si è detto, di un celebre chimico dell’Ottocento, Faraday riceve da parte di Sternberg un trattamento parodistico. Nella foresta magica, era il maschio predestinato a conquistare Venere o Elena. Nella city, a New York City, diventa Rudy Sieber, un imbelle che non merita Marlene. Il compassato attore inglese Herbert Marshall, nel suo primo ruolo hollywoodiano importante, tipizza quasi la figura del coniuge integerrimo quanto anonimo, perfetto emblema dell’istituzione matrimoniale, ma non certo dell’amore. Marlene Dietrich lo tradirà di nuovo, ancora prostituendosi, e sempre tornando alla fine con lui, in una celebre produzione Paramount post-Sternberg: Angelo [Angel, 1937] di Ernst Lubitsch.   

Forse per il suo spento carattere, che esula dalla malattia, il medico, mentre parla con lui, giocherella con un teschio, chiaro simbolo della finitezza umana.

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Si vuole alludere al tempo che fugge, all’urgenza della cura? Il teschio veniva associato all’orologio o alla clessidra, emblemi della provvisorietà della vita, dagli antichi pittori della vanitas (un noto esempio è proprio il quadro Vanitas, del 1640, di Antonio de Pereda). Di sicuro evidenzia il cosiddetto memento mori, la rimemorazione della fine a cui tutti siamo destinati. Sternberg intende forse sottolineare l’urgenza di definire il rapporto con la Dietrich? Augurare la fine a Faraday/Sieber? Insistere sulla morte di un matrimonio (quello di Helen e Ned, come di Dietrich e Sieber)? Oppure desidera prendere le distanze da un film nato già defunto, ricomponibile attraverso singoli episodi, slegati momenti di bellezza? La consueta dissolvenza a tendina, una sorta di temporaneo split screen, porta l’immagine del medico direttamente in casa Faraday, accanto a Helen intenta al lavoro.

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vanitasSopra: un fotogramma di Venere bionda. Sotto: Vanitas (1640) di Antonio de Pereda.

Sicuramente si allude alla morta realtà di quella famiglia. Alla fine dell’amore (futura o presente) tra moglie e marito. E, per esteso, al termine di ogni amore. All’amore-morte.

Sorvolando sulle sostanziali commistioni sternberghiane di Eros e Thanatos, che certo appartengono anche alla dea a cui è intitolato il film, è bene ricordare, in diversi svariati momenti del cinema con la Dietrich, l’accostamento, diretto o indiretto, del sesso alla morte: autentico memento mori. Lola, il nome, peraltro raddoppiato, della protagonista de L’angelo azzurro, è il diminutivo di Dolores, che rievoca l’afflizione della Vergine Maria per la morte del figlio Gesù. Un teschio sovrasta la bella indigena di Marocco, al passaggio degli ambiti legionari.

venere bionda recensione josef von sternberg Un fotogramma di Marocco.

E il destino di Amy Jolly, che segue sconsiderata il suo uomo nel deserto, non è lungi da risvolti funerei. Il peripato erotico della futura X-27 di Disonorata viene mostrato all’unisono con un suicidio. Per amore, lei si immolerà. Ne L’imperatrice Caterina, l’altalena su cui volteggia Sofia/Caterina è l’epifania erotica in assolvenza che sorge dai dondolii bruti di un prigioniero usato come batacchio di una campana, punto d’arrivo di tutta una serie di precedenti immagini di torture e morte. La Concha di Capriccio spagnolo, di nero vestita (mascherata), è trascinata da un carro carnevalesco di cavalli e cavalieri dal colore bianco, cioè la tinta del lutto nell’antichità classica. In direzione contraria, un carro opposto, con cavalli e cavalieri neri, esprime invece il colore della morte dopo il cristianesimo. Vestita di piume nere, attraente e respingente a un tempo, certo inquietante, è pure Shanghay Lily di Shanghai Express.

In definitiva, l’amore salva e contemporaneamente distrugge nei film di Sternberg (così come nella vita). Quando Faraday conosce la verità, cioè che la moglie ha avuto i soldi per le sue cure mediche da Nick Townsend, l’amante (Cary Grant), pronuncia una battuta memorabile: «I don’t know whether to thank him or shoot him… dead!». L’amore purifica e uccide Marlene, allo stesso modo di George Bancroft, gangster de Le notti di Chicago e La mazzata, una specie di X-27 (la spia di Disonorata) al maschile: uguale a lei nel non temere né vita né morte38 e a sacrificare per amore la propria (apparente) «perfetta indifferenza». In Crepuscolo di gloria, il generale russo Sergius Alexander (Emil Jannings), cugino dello zar, è carnefice prima di diventare vittima (dopo la Rivoluzione del 1917). Anche lui, sommerso e salvato dall’amore, oltre che martire (e santo) a Hollywood, dove muore sul set di un kolossal sull’Ottobre. L’unificata polarizzazione di oppressore e oppresso all’interno di un unico personaggio rientra nelle dinamiche interscambiabili di sadismo e masochismo, nella patologia di quel regno del piacere (non soltanto) sternberghiano, oggetto di studio da parte di Gaylin Studlar. O invece, su un altro versante, etico, estetico, ben più sottile, la trasformazione inaspettata dei personaggi atterrebbe a una questione di scelta, cromatica, morale, secondo quanto filosoficamente esposto da Gilles Deleuze.39

I personaggi di Sternberg si sacrificano. Il sacrificio combacia con l’amore e l’amore con il sacrificio: con la morte, ancora. Ci si sacrifica, cioè ci si rende sacri, concedendosi agli altri per salvare un altro. Si muore, come il gangster George Bancroft, per permettere l’amore altrui (che sarebbe dovuto essere il proprio). O come Natascia (Evelyn Brent), eroina triplice (vittima, carnefice, di nuovo vittima) di Crepuscolo di gloria, che rinuncia alla Rivoluzione storica per quella individuale. La prostituta di Disonorata si riscatta per amor di patria, divenendo una spia, ma tradisce la patria per un amore più grande: quello per un suo nemico. Si abdica a sé stessi, di continuo. Lo fa Caterina, che al potere preferisce l’amore e infine sceglie il potere. Lo fa Concha, che finge l’amore per interesse, e inaspettatamente rinuncia a un nuovo amore-interesse per riabbracciare un vecchio interesse-amore. Delusa da un uomo, la protagonista di Shanghai Express diventa prostituta e sempre per quell’uomo, ritrovato, si prostituisce ancora, stavolta per salvarlo.

Il fuoco muta. Si ravviva, si estingue, si rinfocola, si rattizza. È «l’alternativa dello spirito» che «non concerne mai direttamente l’alternanza dei termini».40 L’acqua pura, cristallina, poi torbida, stagnante, prosciugata, e nuovamente sorgiva, limpida. La vezzosa auto-caricatura di Sternberg, Monsieur La Bessière (Adolphe Menjou), ama Marlene/Amy Jolly, al punto da acconsentire alla felicità (masochistica) di lei alle calcagna di Tom Brown (Gary Cooper) nel deserto di Marocco. Don Pasqual (Lionel Atwill) di Capriccio spagnolo, ancora un alter-ego del regista, sfida a duello Antonio (Cesar Romero), rivale in amore, lasciandosi vincere, affinché l’amata possa liberamente amarlo. Per cui non è del tutto paradossale (almeno secondo le logiche del suo autore) la figura, pur riscritta, di Nick Townsend, l’amante di Helen/Venere/Marlene: ulteriore trasfigurazione di Josef von Sternberg. Dopo aver sottratto la donna alla «felicità» domestica, consentendo inoltre a suo marito di guarire, la riconsegnerà sereno al luogo dal quale l’aveva prelevata, all’uomo a cui l’aveva rubata.

Nick(name)

Anche la figura di Nick viene messa a punto gradualmente. Helen ne sente parlare nel camerino del night di O’Connor (Robert Emmett O’Connor), l’uomo che le ha dato la possibilità di ritornare allo spettacolo, per intercessione del manager Ben Smith (Gene Morgan). La collega Taxi Belle (Rita La Roy) mostra i regali da lui ricevuti, facendogliene un ritratto sommario, ai confini con il gangster («The politician. Loads of jack. Runs this end of town»). Suscita l’attenzione di Helen, quando le dice che un braccialetto avuto da lui potrebbe impegnarlo per 1.500 dollari. È la somma necessaria per la cura del marito, lei è tornata ad esibirsi per potersela procurare. Ha lasciato casa poco dopo le 6 (il consueto numero magico), portandosi il ritratto del figlio e un orsetto di peluche del bimbo come portafortuna.

Nick appare al centro della scena, seduto. È anche al centro delle luci, della ripresa.

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Prende a pugni un molestatore del locale, si rivela uomo forte non solo nel carattere. Anche stavolta l’incontro con Helen avviene insieme a un gruppo che gradualmente si dissolve.

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Nick entra nel camerino con O’Connor e altri due signori, che poi invita ad andar via, salutandoli, per restare solo con la donna.  Prende un lungo scopino (legno urbano?) e vi si appoggia, come Nick si era poggiato sul tronco ed Helen a un ramo.

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Ricordiamo che un maglione di Ned aveva fatto da pianta nella stanza del piccolo Johnny. Nick gli darà il denaro per l’operazione del marito, dopo un omaggio floreale. Non vengono mostrate effusioni, soltanto Helen che torna a casa tardissimo, dopo essere andata in macchina con Nick. Al marito, a cui fa credere di aver avuto un cospicuo anticipo dal proprietario del night, chiede angosciata se la amerà ancora al ritorno da Dresda. Quando lui s’imbarca, Townsend corre a prenderla al porto, caricando in auto lei e il piccolo (a cui è viene regalato un cane), per portarla a vivere con sé, durante l’assenza del coniuge.

Se Ned Faraday è il principio ordinatore, espressione del cosmo, Nick Townsend impersona l’utopia di un caos istituzionalizzato, anarchico dell’eros: Sternberg e stenberghiano nel dissolvere gli opposti, è un personaggio che crea e regola attraverso il disordine, variante negativa dell’eroe e versione positiva del mascalzone. Demone del sesso (anche mercenario), angelo del focolare (altrui). Fa di Helen un’adultera, poi la convince a riparare il vincolo matrimoniale. Forse personifica Venere/Afrodite al maschile oppure è la Venere che Helen incarna, uscita stavolta dalla giungla, dalla pelle di un gorilla (il numero Hot Voodoo), a farne un doppio demoniaco. Nick è di nero vestito in un ambiente perlopiù bianco. Siamo nel territorio ammaliante della foresta, sia pure artificialmente ricreato (il night è pieno di piante). Si cambia pelle, sesso, ruolo come in quel Sogno di una notte di mezza estate.

Sebbene il giovane Cary Grant (al quinto lungometraggio), essenzialmente adatto alla commedia, sia molto poco in sintonia con le duplicità di Sternberg (e lo stesso può dirsi per Herbert Marshall), il suo personaggio è tipicissimo dell’autore nel dissolvere gli opposti fino a giungere al di là del bene e del male: né onesto né disonesto, né eroe né vigliacco, possiede una neutralità intercambiabile (la «perfetta indifferenza»?) che armonizza il caos senza annullarlo. Un carattere già espresso per tramite del George Bancroft gangster o marinaio, di Evelyn Brent traditrice senza tradimento (sia nei film polizieschi che in Crepuscolo di gloria), ovviamente della Marlene a più strati, e dei superomistici protagonisti al di sopra della legge dei poco riusciti adattamenti letterari di Una tragedia americana (il Clyde di Phillips Holmes) e di Ho ucciso! [Crime and punishment, 1935], da Dostoevskij, con Peter Lorre che fa Raskolnikov.

Lo spettacolo

Il luogo deputato delle rivoluzioni, i sovvertimenti, i mutamenti, le trasformazioni (e i chiarimenti) è quello della finzione, dello spettacolo. In Venere bionda è il luogo maggiormente illuminato, lucente, brillante. Sullo sfondo imperano astrazioni di luce e ombra, risaltano il nero degli abiti, i frac dei signori, il nero della pelle del personale (balbettante)41 e dei musici dell’orchestra, le nere attorno a Marlene/gorilla, mentre le piante ornano il quadro, sipario del sipario. Sternberg, al solito, accumula segni, oggetti, fa dell’inquadratura un caleidoscopio. La fotografia tende ancora a ombrare, macchiare, scurire. Ma i bianchi predominano, la luce è assai più tersa rispetto agli altri interni ed esterni, spicca la cerea atmosfera del chiarore e della lucentezza artificiali, fuori dall’ordine culturalmente naturale e per questo più mediatamente vero.

Quando Helen va da Smith a proporsi come cantante e ballerina, la sala d’attesa è scurissima e stracolma. Il viso di Marlene, meta-emblema della star, è una sorta di lampada, che abbaglia subito il manager. Si tratta di uno dei momenti in cui Sternberg coniuga il realismo con il massimo dell’artificio. La sala è piena di disperati in cerca di un ingaggio, quasi memore della cruda rappresentazione delle comparse hollywoodiane truci e abbruttite di Crepuscolo di gloria. Smith agisce come un medico (un ginecologo?). Ordina a Helen di ruotare il corpo, le chiede di mostrare le gambe (segno distintivo di Marlene, che lo spettatore non vede: lei è girata di spalle e conta lo sguardo di chi la esamina). Infine, si lava le mani.

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Un altro, bellissimo episodio di realismo artificiale, di verità ottenuta attraverso il glamour, si ha quando Ned scopre il tradimento della moglie e le chiede di riportare il bimbo a casa. C’è una discussione di sguardi, dieci secondi muti di campo/controcampo maschile e femminile, buio denso e luce diafana. La Dietrich è diva e donna all’unisono, irresistibilmente attrice e profondamente umana, conforme a ogni dignità. Lui le si pone di fronte, interrogandola. Lei, cappello, veletta e ampio collo di pelliccia, lo osserva, abbassa lo sguardo, lo rialza. Il volto è in luce, dà luce: opposto al volto in ombra del marito (è la luce di lei a oscurare il volto di lui?). Helen continua a fissarlo, abbassa di nuovo gli occhi, guarda intorno, altrove, pensierosa. Ned persiste cupo, plumbeo, quanto più la moglie appare raggiante come un faro. Quando gli chiede se le toglierà il figlio, l’uomo asserisce con rabbia. E la donna/madre reagisce con quella «perfetta indifferenza», che è sicurezza di sé, verità: «I’ve been a good mother to Johnny». Poco prima gli aveva rivelato: «I love you, Ned!». Facendo risorgere la donna innamorata di entrambi gli uomini, prevista nella seconda sceneggiatura.

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Un’ulteriore verità di donna, o di femmina, emerge sul palcoscenico, nel camerino. Mentre si trucca allo specchio, prima dell’esordio nel locale di O’Connor, Helen fa una domanda maliziosa alla collega Taxi Belle («Do you charge for the first mile?»). Diventa un’inedita soubrette, diversa, che però non contraddice minimamente la pura Venere del lago e tantomeno la casalinga servizievole di figlio e consorte. Forse l’intento originario di Sternberg era proprio delineare dei personaggi dalle innumerevoli sfaccettature, senza conflitti interiori o drammatiche divisioni psicologiche: ogni singolo aspetto, pur contrapposto all’altro, non avrebbe smentito né contraddetto il ritratto psicologico d’insieme. Uomini e donne avrebbero stabilito una naturale quanto utopica fusione di positivo e negativo, luce e ombra, con l’esclusione di ogni giudizio di valore ideologico o morale, fino al raggiungimento di una completa complexio oppositorum.

I tre momenti musicali di Venere bionda, diversissimi, apparentemente slegati dal contesto generale, esprimono invece gli stati d’animo della protagonista. Mostrano, rispettivamente, Helen libera dalle pastoie domestiche, nei guai per un uomo, delusa e affrancata da tutto e tutti. Il primo memorabile numero, il più noto, passato alla storia, capolavoro del film, vede Venere sgusciare dalla pelle di un gorilla. Non più dal lago della Foresta Nera: dalla giungla! Sorge dal genere musicale jungle reso noto qualche anno prima dall’orchestra di Duke Ellington e teso a rievocare le atmosfere selvagge di un’Africa da cartolina con l’esotico intercedere degli strumenti a percussione (oltre, naturalmente, all’elegante corredo di ottoni, sordine, ance e legni della big band). Originariamente, Helen si sarebbe dovuta esibire ad Harlem, in mezzo agli afroamericani, in un felice connubio interetnico. Nel numero Hot Voodoo c’è tanto del progetto iniziale. I musicisti sono neri, le ballerine tatuate nel volto e con chiome afro, lance e scudo da cartoon mosse dall’incedere cupo dei tamburi.

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Irrompe un gorilla che scende dal palco, attraversa i tavoli, spaventa il pubblico, ritorna in palcoscenico, toglie l’involucro gradualmente. Prima le zampe, che svelano bianche mani di donna; poi la testa, che fa apparire Marlene chiomata con crespa parrucca bionda e frecce luccicanti conficcate tra i riccioli; infine l’intera pelle da cui sorge la Venere del titolo, black and blonde, afro Afrodite spartana col dress exotico del Cotton Club, un delirio geniale di forme: orecchini e collana lucenti, polsini di metallo, corpetto futurista rifrangente di luci, gonnellino svolazzante di piume, le belle gambe in vista.

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La bestia è (la) bella, sub-umana sexy. La donna trasmuta in antropoide arcaico, al riparo dalle inibizioni culturali, di genere e di intelletto. In un numero davvero vudù, lei appare realmente posseduta da Venere e canta del bisogno primario del sesso.42

Un momento di totale visionarietà, in sintonia con altri miti cinematografici del tempo (il coevo Tarzan, l’imminente King Kong) all’assalto di una civiltà urbana e metropolitana, sempre più astratta e repressa, approdata al crollo di Wall Street e  a una spaventosa crisi economica. Marlene/gorilla, abbandonato provvisoriamente il tetto coniugale, ripristina lo stato di natura, il piacere, la giungla, la foresta, le scimmie, gli alberi. È in the mood for sex. Wood, «bosco», deriva dall’antico inglese wudu, «albero», apparentato al proto-germanico widu. Termini legati alla vista, al videre. In cima all’albero, si scorge tutto, si diventa veggenti e sapienti (wit proviene da weid, «vedere»). Il voodoo è la luce della foresta, la vista segreta delle cose, l’albero della mente. Nel bosco, Ned aveva toccato il tronco, Helen il ramo. Si erano baciati sotto gli alberi. Tra gli alberi ritroveremo pure Helen e Nick, con i frustini da cavallo, dinanzi a un fiume.

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Sotto un albero, in Louisiana, siederanno Helen e Ned, in attesa del treno, dopo che la moglie è stata scoperta e l’uomo va a riprendersi il figlio. E a un albero si appoggia il private eye (ancora l’occhio, il vedere), intento alla ricerca di Helen.

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L’altro numero, più semplice, allo Star Café di Baltimora, dopo la fuga da Faraday, asserragliata nel Brittany Hotel con il piccolo Johnny, ribattezzatasi Helena Blake, rivela una Marlene più umbratile. Le palme incorniciano un sipario di filamenti scintillanti.

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Lei esce con una lunga gonna di paillettes, tenuta in ombra, e sormontata da un’accollata blusa scura in raso, che le lascia scoperte le spalle.

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Con grande, classica eleganza, la macchina da presa ne tallona discretamente i movimenti, da sinistra a destra, dall’alto in basso, e poi viceversa, mentre lei scende tra il pubblico, additando alcuni maschi mentre canta You little so-and-so43, tra il velo continuo delle piante, dei piani dei tavoli, multipli strati di visione. Si tratta, ancora, di un canto passionale, ma razionalizzato e disilluso: l’uomo è inafferrabile, ambiguo, l’ha messa nei guai. Dal puro, liberatorio principio di piacere di Hot Voodoo ci si sposta verso la complicata realtà profilatasi alla donna anche fuori dalle scene. 

Infine, a Parigi, privata del figlio, esibisce un forzato, totale distacco nei riguardi del sesso come di qualsiasi altra cosa44. Si vocifera che si sia servita di una grande quantità di uomini come trampolino di lancio, però risulta fredda come il ghiaccio.45 Si esibisce in smoking, papillon e cappello a cilindro bianchi, uno dei consueti abiti maschili che Marlene indossava anche fuori dalle scene, col brillio dello strass intorno alla tuba, sui revers della giacca e lungo i pantaloni, più un bocchino tra le dita.

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Canta I couldn’t be annoyed46, inno alla «perfetta indifferenza», all’indolenza totale. La scenografia, fatta di colonne e padiglioni obliqui dagli archi arabescati, è attraversata dalla danza ondulata di velate odalische.

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Sotto la scena, spicca un drago meccanico dagli occhi lucenti.  Helen percorre una scala ondulata che la porta, come di consueto, tra la gente. In uno dei palchi del pubblico, è seduto Nick, dietro una statua classicheggiante di donna di cui si vede solo il torso (anche Smith, nello studio di O’Connor, copriva col cappello il busto di una Venere). Accanto alla scalinata, si nota una fontana a spirale, col serpe arrotolato sull’asta. Leggermente spiraliformi pure i movimenti di macchina, sin dall’ingresso nel locale da parte del pubblico sulle rampe.

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Siamo quasi alla fine del film, Helen sta per tornare dal marito, accompagnata da Nick, spettatore attivo. Ci troviamo al culmine della «discesa» di Elena/Helen, iniziata con la fuga a Sud. Siamo al cospetto di un’Afrodite bisessuale, la Venere barbuta di Cipro, in onore della quale maschi e femmine si scambiavano i vestiti, rinunciando al proprio sesso. E il serpente è polivalente, androgino: sia maschile che femminile. Parimenti alla spirale, solare e lunare a un tempo. Nick sveste i panni, peraltro poco convincenti, dell’impenitente donnaiolo47 per indossare quelli dell’amico fraterno, dell’asessuato confidente di Helen che ricompone il ménage familiare spezzato. Il biancore della Venere rimanda alla Leucade (in greco, «la bianca»), l’isola nota per la rupe degli innamorati infelici, da cui Afrodite cercherà di buttarsi. Cadere in basso per risalire in alto. Il drago è immagine liquida e pirica, segna il caos e la rinascita, la lotta con esso si colloca tra i due momenti. La spirale, ulteriormente, muove l’azione nei due sensi opposti. Emblema del fuoco, rappresenta anche l’acqua attraverso i tentacoli del polipo, la conchiglia marina. È il circolo del desiderio, un giro completo di vite e vita.48

Forme mutevoli

La forma circolare è la più naturale. Si torna da dove si era partiti. Sternberg sarebbe voluto tornare a quell’indistinta pozza d’acqua d’amore del prologo, parallela al numero di Marlene ambasciatrice del caos maschile/femminile, nero/bianco, sacro/profano, arcaica e ipermoderna, dea di spirali ascendenti e discendenti. Gli tocca invece riaccendere il fuoco di casa (e far scorrere l’acqua per i lavacri del figlio), ricostituire la coppia legittima, riedificare la madre. Una scelta non incoerente, in virtù del movimento ciclico determinato dal suo film. Il virtuoso gioco di luci e ombre fotografico è il riflesso del percorso di trasformazione della protagonista, quasi un cammino spirituale alchemico di perdita e ritrovamento. Persino sul piano formale, Venere bionda scivola su altri terreni, va «fuori film»49, traduce in immagini e moti geografici l’interiorità dei moti interiori di Helen. Nella discesa a Sud della donna, è tutto un intrico di forme mutevoli, un carnevale di stili.

Proprio il trucco e la maschera introducono la prima tappa di Helen via da New York, a Baltimora. Dove diventa Helen Blake. Nome scelto a caso, eppur significativo. L’incerta etimologia lo pone tra gli estremi del blæc-«nero» e del blāc-«bianco» dell’inglese antico. O indicherebbe qualcuno proveniente dall’acqua (Ap-lake)50. La si vede all’hotel, intenta a truccarsi prima dello spettacolo, mentre il piccolo Johnny indossa in maniera stravagante, lateralmente, una maschera di carnevale.

venere bionda recensione josef von sternberg

Figura ricorrente del cinema di Sternberg, il carnevale/orgia/festa (persino rivoluzione in Crepuscolo di gloria), segna un momento di sprofondamento, di notte cosmica, di dissoluzione, prima della rigenerazione.51 Come da arcaico rituale, divenuto topos narrativo, di riscoperta del caos, prima che si torni nuovamente all’ordine.52 Ornato di maschera, il bambino diventa una sorta di divinità a due facce, un piccolo Giano. Per John Baxter, sarebbe l’indizio della doppiezza del bimbo, non amato da Sternberg in quanto personificazione della figlia di Marlene Dietrich.53 Gaylyn Studlar vede invece nella maschera un collegamento con la madre, donna di spettacolo, a sostegno di un legame fortemente edipizzato tra i due, avvalorato da diverse altre correlazioni simboliche.54 Con quella maschera, Johnny probabilmente sancisce un nuovo inizio: la vicenda (e il film) di Helen negletta, un carnevale di peregrinazioni. Giano è propriamente il dio del passaggio da uno stato altro, «patrono degli inizi (…) non solo nell’azione religiosa, ma anche nello spazio, nel tempo, nell’essere»55. L’insieme degli episodi di Helen nel Maryland, in Virginia, Tennessee, Louisiana, Texas sono un caotico big carnival di dispersione e disfacimento, una caduta verticale curvilinea (anche geografica) che sfocia e sprofonda nella peccaminosa Parigi dei multipli amplessi fuoricampo, nel numero musicale androgino e sghembo, polisex, da cui nuovamente un uomo, Nick, spezza lo spaventosa unione degli opposti, riproponendo la divisione uomo/donna.

Il viaggio a sud, frammentatissimo, spezzato, una serie di apparizioni-lampo, segna l’incontro con l’alterità, il diverso. A Norfolk, Helena incontra Viola (Evelyn Peer), la cameriera nera, un preannuncio della domestica Cora (Hattie McDaniel) di New Orleans. Sono residui del progetto iniziale, che prevedeva un ampio numero di figure afroamericane, se non al di fuori dei cliché del periodo, certo indicatori di una differenza morfologica e di status. Da Norfolk, Helen fugge con la complicità di una matura impresaria in tailleur scuro e capello bianco da maschio di cui viene accentuata l’androginia (Cecil Cunningham), facendola attraversare un bianco gineceo statuario di donne in attesa (di audizione? di uno spettacolo?). Lasciandole rivelare la sua condizione di madre (e per questo solidale con il dramma di Helen), Sternberg perpetua il consueto lavoro dell’occultare svelando (o viceversa).56

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Piuttosto bislacchi anche il tarchiato proprietario e l’anziano cameriere di un ristorantino dove Helen offre un pasto al figlio senza poter pagare. Si offrirà come lavapiatti, ma lo sguardo compiaciuto del sopraccigliuto proprietario (Dewey Robinson), che mette il sigaro alla bocca, sottintende altre, più consistenti offerte.

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Durante gli spostamenti, pur rimanendo sostanzialmente invisibile, come da canone hollywoodiano classico, la macchina da presa si sposta a ridosso della protagonista con movimenti laterali, in alto e in basso, quasi a rimarcare le sue espansioni e contrazioni psicologiche, il sommovimento interno, le lune crescenti e calanti della sua anima. Gli stessi luoghi segnano il passaggio da uno stato all’altro, esprimono un purgatorio di prove iniziatiche. Helen finisce su un carro di fieno, in un’untuosa e sudata corte di giustizia che, per indolenza e lassismo degli uomini di legge, ricorda quella di Pinocchio. Gli sguardi su di lei, ricercata, si moltiplicano. A varietà di luoghi, corrisponde una diversità di stili. Alcuni rapidi passaggi sono pezzi di bravura, lezioni di cinema. Quando, ricercata, torna nell’appartamento a organizzare l’ennesima fuga col figlio, i passi di chi la pedina sul marciapiede lucente precedono le ombre ammonitrici sui muri di casa, saldando il futuro cinema noir al vecchio espressionismo tedesco.

venere bionda recensione josef von sternberg

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A New Orleans, si assiste al ricorso continuo di tendine, pertugi, finestre e scale circolari, locali roventi, affollati e fumosi, un vorticoso ruotare materico. Momenti di contemplazione attiva, tragitti ripetuti.  Nella scena del detective (Sidney Toler) che replica il percorso di Helen, dall’ingresso del bar fino al palco di legno fatiscente, si sente l’influenza di Sternberg sul fluttuare visivo tra il décor da parte di Max Ophüls o Kenji Mizoguchi. Il personaggio è ampiamente ridicolizzato: adocchia Helen non perché abbia riconosciuto la ricercata, ma in quanto desidera possedere la prostituta. «You don’t look anything like these other women» le dice. E, con grande ironia, la donna risponde: «Give me time».

Pur straripante di fisicità, sia pure stilizzata in quadri estatici (ma semoventi), la parte sudista del film non rinuncia alle tessiture simboliche, al gioco ironico del segno sogno. Quei volatili, colombe e galline che girano a casa di Helen sono gli angeli destituiti di Venere, declassati e retrocessi come lei, prostituta.

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Quando, disperata e ubriaca, senza più Johnny accanto, si reca in un dormitorio pubblico e, mentre una disperata le parla di suicidio, dondola dinanzi a lei una corda alludente a un cappio, è impossibile non pensare alla morte di Elena per impiccagione. O alla festa delle altalene che, in onore di Afrodite, e scongiurando le sue ire contro le vergini, gli Ateniesi avevano istituito per abituare le fanciulle, timorose d’amore, ad altri dondolii. L’altalena de L’imperatrice Caterina, che segnava l’età adulta di Sofia, era ugualmente preceduta da immagini di morte. Vita e morte convergono in quel dono in denaro offerto da Helen all’aspirante suicida. 150 dollari: denaro procurato attraverso il meretricio, dieci volte la somma, ottenuta con gli stessi mezzi, regalata a suo tempo al consorte.

Gradatamente, il film incurva verso i luoghi da cui era partito. Quella al dormitorio è l’ultima stazione della donna nel profondo sud degli Stati Uniti. Helen promette a sé stessa, parlando alle ospiti del tugurio, di andar via per sempre («I’m not going to stay in this dump anymore, I’m going to find myself a better bed. Don’t you think I can? Just watch!»). Il suo barcollare avanti e indietro, con la macchina da presa che si sposta lateralmente in un’unica direzione, schermata da una grata a losanghe, crea un turbinio motorio espansivo che avvolge la scalinata, simbolo assiale che dissolve sul mare, l’orizzonte liquido da cui rinasce Helen Jones.

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In uno sfarfallio d’insegne luminose, scorci di Parigi, traffico, pubblico in frac al botteghino, ingressi in sala, che sfilano in una serie incalzante e quasi avantgarde di dissolvenze e sovrimpressioni. Per giungere a Nick Townsend che fuma una sigaretta.

cary grant venere bionda

Come Ned, prima che incontrasse Helen nella fatidica pozza d’acqua. È a lui, responsabile della caduta, che spetta il compito della risalita dell’ex amante. Dopo la spirale espressa sul palcoscenico, dal numero musicale, manifestazione di energia giunta ormai al compimento, resta un ultimo passo. L’uomo può cancellare Helen Jones, la Venere bionda, la dea. Per far risorgere Helen Faraday, la donna.

NOTE

1. Glennon (1893-1967) aveva firmato la fotografia de Le notti di Chicago [Underworld, 1927] e di Crepuscolo di gloria [The Last Command, 1928], prima di concludere con L’imperatrice Caterina il sodalizio con Sternberg. Fu un maestro del chiaroscuro, a suo agio sia con gli interni che con gli esterni. Lavorò, tra i tanti, con Cecil B. De Mille, John Ford (il rapporto più proficuo), Gregory La Cava, Edgar G. Ulmer, Curtis Bernhardt, Mark Sandrich, Clarence Brown. Girò da regista ben undici film, esordendo nel 1928 per l’indipendente Film Booking Office of America, con un paio di polizieschi nati sulla scia del successo dei titoli di Sternberg: Perfect Crime [1928], con lo sternberghiano Clyve Brook, e Gang War [1928], in parte sonoro. Proseguì con piccole produzioni targate RKO, Monogram, Columbia, Tiffany.

2. Per esempio, Steven Bach lo liquida come film «mother-love sobber-weepers» (cfr. Steven Bach, Marlene Dietrich: Live and Legend, U of Minnesota Press, 1992, p. 136).

3. Cfr. John Baxter, Von Sternberg, The University Press of Kentucky, Lexington, Kentucky, 2010, p. 154.

4. La versione dei fatti, raccontata da Sternberg nella sua biografia, è la seguente: «There is to be said about this film, except that I tried to leave the company before making it. But Miss Dietrich also left , refusing to work with anyone else, and I was forced to return, as we were both under contract» (Josef von Sternberg, Fun in a Chinese Laundry, 1965, Martin Secker & Warburg, Londra, 1967, p. 264).

5 Per la dettagliata conoscenza delle vicende produttive legate al film, si rimanda alla lettura di Peter Baxter, Just Watch – Sternberg, Paramount and America – British Film Institute, Londra, 1993, in particolar modo pp.46-68.

6. La prima pubblicazione: Liveright, New York, 1931. La più recente: Ayer Company Publishers, North Stratford, NH 2002.

7. Mortimer Franklin, The Blonde Venus, in Screenland settembre 1932. Il sottotitolo della novelization sottolineava con enfasi “Can a woman be in love with two men at once? Marlene Dietrich, as ‘The Blonde Venus’ gives you a startling new angle on an age-old problem”.

8. Riguardo a Venere bionda, Giovanni Buttafava parla di «struttura assente» che avrebbe consentito all’autore di spingersi oltre: per esempio, nei «procedimenti luministici», o nel numero Hot Voodoo, «il più grande numero musicale di tutta la storia del cinema». (Giovanni Buttafava, Josef von Sternberg – Il Castoro Cinema n.33, settembre 1976, La Nuova Italia, Firenze, pp.80-81). Fondamentalmente, riprende un’analoga intuizione di Andrew Sarris: «Curiously, the fact that the plot of BLONDE VENUS lacks surface conviction gives it a certain freedom in its fantasizing, and not the the least of its charms is its careless regard of Dietrich the Woman trying to cope with the demands of her myth. That her nightclub numbers arc utterly unmotivated in terms of the plot is a key to the extreme stylization of Dietrich’s character» (Andrew Sarris, The Films of Josef Von Sternberg, Doubleday & Co..lnc.., New York, 1966, p.36)

9. Gaylin Studlar sottolinea la varietà di nomi e ruoli dei singoli personaggi interpretati da Marlene Dietrich per Josef von Sternberg (cfr. Gaylin Studlar, In the Realm of Pleasure – Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic Aesthetic, Columbia University Press, New York, 1988, pp.73-74).

10, Stroncando il film, l’anonimo recensore del Variety del 27 settembre 1932 rimarcò l’eccesso dei mezzi di locomozione: «There’s beaucoup footage wasted on showing choo-chooing railroad trains, outgoing steamers, incoming steamers (twice there are shots of the New York skyline from the harbor, an extraneous detain in both instances), and with it all a needless application to detail which so obviously handicaps the rest of it, one wonders at the wherefore and why fore of it all».

11. Cfr. Gaston Bachelard, La psicanalisi del fuoco, Parigi 1938, ed. it. Edizioni Dedalo, 1993, p.133. Il pensatore francese indaga le condizioni psicologiche primitive per la nascita del fuoco e sostiene che sia stato il desiderio, la libido a immaginare la produzione del fuoco: «È ipotizzabile che il tentativo oggettivo di produrre il fuoco per attrito sia suggerito da esperienze del tutto intime. L’amore è la prima ipotesi scientifica per la riproduzione oggettiva del fuoco».

12. Il rapporto tra genitore e figlio è un tema ricorrente nell’opera di Sternberg. Già nel primo The Salvation Hunters [1925], Bruce Guerin viene in pratica adottato da Georgia Hale ed Edward Gheller. Ne L’Imperatrice Caterina, i rapporti tra Sofia Federica e la madre (per non parlare della suocera, l’Imperatrice Elisabetta) sono decisamente opprimenti. Odio e rivalità tra madre e figlia sono evidenti ne I misteri di Shanghai, che affronta ugualmente il rapporto, non meno problematico, tra padre e figlia. Il sergente Madden [Sergeant Madden, 1936] esplora il rapporto tra padre poliziotto e figlio criminale. Sternberg lavorò pure al soggetto psicanalitico, mai divenuto film, di The Seven Bad Years, basato sui primi, fondamentali sette anni d’infanzia, fondamentali per lo sviluppo successivo, e sui rapporti tra infanzia ed età adulta.

13. Studlar (cit.) ne ha analizzato profondamente le dinamiche.

14. Per un maggiore approfondimento sul Volk, si rimanda alla lettura di Giorge Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Berlino, 1964, ed. it. Il Saggiatore, Milano, 1968

15. Basti ricordare Feathers (Evelyn Brent), Bull (George Bancroft) e Rolls Royce (Clive Brook) de Le notti di Chicago [Underworld, 1927], The Magpie (Evelyn Brent), Two-Gun (George Bancroft) e Shakespeare (Leslie Fenton) di The Drag Net [1928], Sugar (Clyde Cook) e Hymn Book (Gustav von Seyffertutz) de I dannati dell’oceano [The Docks of New York, 1928], x-27 (Marlene Dietrich) di Disonorata, Piggy (Marc Lawrence) e Punchy (David Grocey) de Il sergente Madden, Mother Gin Sling (Ona Munson) de I misteri di Shanghai, la quale dirà che si sarebbe potuta chiamare anche Whiskey and Soda o Mother Martini.

16. Di Wagner, la Cavalcata delle Valchirie (1851); di Ciajkovskij la Marcia Slava (1876), la IV Sinfonia (1878) e  l’Ouverture 1812 (1880).

17. Venere, che tutto piega all’Eros, è in fondo l’«immagine cristallo» di Sternberg. Scrive Michael Henry: “De The Salvation Hunters, son premier essai, à Fiévre sur Anatahan, son chant du cygnet, Sternberg aura tout subordonné à l’Éros et ses spasms: les aventures colonials, les horreurs de la guerre, le carnage des revolutions…” in Josef von Sternberg, entre Shanghai et Gomorrhe (dossier Josef von Sternberg, Positif n°584, Parigi, ottobre 2009)

18. Un intero capitolo dei Simboli della scienza sacra di René Guénon, Parigi, 1962, ed. it. Adelphi, Milano, 1975, è dedicato al «rapporto esistente fra luce e la pioggia», pp. 313-6 (X ed. Gli Adelphi, febbraio 2010). Anche Gaston Bachelard (Psicanalisi delle acque, Parigi, 1942, ed.it. Red Edizioni, Milano, 1987, pp.111-116 dell’ed. 2006) affronta il tema della combinazione acqua e fuoco, parlando, tra le altre cose di «virilità del fuoco» e «femminilità dell’acqua».

19. Cfr. Plutarco, La Fortuna dei Romani (a cura di F. Ingravalle), Edizioni di AR, Avellino 2010, 317F.

20. «Marlene Dietrich is the most intelligent woman I have ever known, and the most thoughtful. The moment I saw her playing on the stage in Berlin, I knew at once I wanted her for my picture. There was apparent in her a strange mixture of worldly sophistication and cultured refinement. She carried the illusion of perfect indifference» (J. von Sternberg, cit. in Leslie Frewin, Blond Venus – A Life of Marlene Dietrich, 1956, prima edizione: Roy Publishers, New York, 1956, p. 18 (ed. Pickle Partners Publishing, Oxford, 2019).

21. John Baxter, cit., in epigrafe del capitolo Come Early, Stay Late, p. 152.

22. Il racconto, pubblicato originariamente nella raccolta In Our Time (1924) riapparve sia in The Fifth Column che nei First Forty-nine Stories, entrambi del 1938, rispettivamente tradotti in italiano da Einaudi, Torino, nel 1946 (La quinta colonna) e 1947 (I quarantanove racconti). Il titolo italiano, nella prima traduzione di Giorgio Trevisani, è Grande fiume dai due cuori.

23. Sarà la Samuel Goldwyn Company a produrre poco dopo un Nanà [Nana, 1934] hollywoodiano, interpretato da Anna Sten e diretto da Dorothy Arzner e George Fitzmaurice. Con Germinal, da girarsi a Londra, Sternberg tenta di trasporre di nuovo il suo amato Zola, ma una malattia sopraggiunta agli inizi del 1938 glielo impedisce.

24. Franz Carl Endres, Annemarie Schimmel, Dizionario dei numeri – Storia, simbologia,allegoria, 1984, ediz. italiana Red Edizioni, 1991, p. 116 (ediz. 2006).

25. Il 7 è ugualmente il numero della spirale (cfr. Giovanni Pelosini, Magia e scienza della spirale, Meb, Padova, 1994, pp.11-36): figura sternberghiana ricorrente attraverso le scalinate elicoidali e presente nell’ultimo numero musicale di Venere bionda.

26. Jacques Brosse, Mitologia degli alberi – Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, 1989, ediz. italiana Rizzoli, 1991, p.152 (Ottava ediz. BUR saggi, maggio 2007).

27. Il protagonista de La mazzata [Thunderbolt, 1929], Jim viene catturato proprio mentre si attarda con un cane che lo segue fedelmente in una scalinata di un palazzo. Il personaggio è interpretato dallo stesso George Bancroft che faceva Bull ne Le notti di Chicago, gangster affezionato a un gatto.. Quattro gatti precedono l’apparizione di Feathers (Evelyn Brent) nello stesso film. Un gatto passeggia tra le coppie in apertura de La mazzata, rappresentando il desiderio. Un gatto nero si trova tra le braccia della «ragazza» di The Salvation Hunters. La spia X-27, in Disonorata, oltre ad accompagnarsi anche lei a un gattino nero, fa proprio il verso del gatto (gatta) a un colonnello russo da cui deve carpire informazioni.

28. Cfr. Georges Dumézil, La religione romana arcaica, 1974, ediz. italiana Rizzoli, Milano, 1977, p. 366-7 (Sesta ediz. BUR saggi, gennaio 2019).

29. Luisa Biondetti, Dizionario di mitologia classica – Dèi, eroi, feste, Baldini & Castoldi, Milano, 1997, p. 731.

30. Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque, Parigi, 1942, cit., pp.45-48 dell’ed. 2006.

31. La traduzione dal tedesco è di Giovanni Vittorio Amoretti (Copyright 1975 di UTET, Torino)

32. Peter Baxter (cit., pp. 115-6) mette in comparazione l’episodio del lago con un avvenimento autobiografico di Sternberg, riferito nella sua biografia (cit., p.13): «The blue Danube, feebly born in a secret little hole in the mountains of the Black Forest, swiftly gathers strength long before the mighty rush of its waters greets Vienna in its haste to rush on into the distant Black Sea. It shows its affection for the city that cradled me by making a lazy excursion that touches tiny islands formed by a tidal basin where I learned to swim. On one of these islands I stumbled on a flock of maidens in the raw. But in a flash the lovely nymphs turned into furies who favored me only with the rough patois with which the Viennese have embellished the German tongue, and some choice exclamations were hurled at the unrobed intruder, who quickly returned into the Old Danube to conceal his noticeable embarrassment.» Baxter aggiunge che in Sternberg il legame tra acqua e femminilità è presente anche altrove, nel film Ho ucciso! [Crime and Punishment, 1935] (p.116), prima di specificare ulteriormente l’importanza dell’acqua, del mare, nelle vicende d’infanzia di Sternberg e come esse si riverberano in Venere bionda (p.117): «We know that there were two periods in Sternberg’s early life when the sea figured largely in disrupting his relationship with his parents, a disruption precipitated by his father. In about 1897, when Sternberg was three, his father left the family to emigrate to the United States, from which he summoned his family to join him in New York four years later. After about three more years he insisted on their return to Austria, before forcing their emigration for a second time when Sternberg was fourteen. There must have been moments for the young Sternberg- at the railway terminus in Vienna; on the wharf in New York, as in the sequence in Blonde Venus where Johnny waves goodbye to his father, held in his mother’s arms at the dockside, not knowing when the three would be reunited- when he too saw his father depart and his family seemingly falling to pieces. The port cities in which many of his films are wholly or partly set must have derived much of their hold over Sternberg’s imagination from these experiences of his childhood. The image of the harbour, the water lapping the docks, the ships in movement, imprinted itself with a charge of meaning that extended over the imagery and narrative structures of many of his creations. Not only did his Neutra- designed home have a shallow moat around it, but outside the window of the second-storey master bedroom a ‘large pool for tropical fish on the roof of the easterly lower building portion’. It is within this system of connotation that we can situate the transition from the shot of Helen leaving the shelter ‘For Ladies Only’ to the sea at evening which begins the montage sequence: crossing a sea is also a regression to a primal fantasy of reunion and fulfilment. The insubstantiality of water, the surface that reflects, the depths that engulf – these factors suit it to the significance it bears in Sternberg’s films. The dissolve to the sea is not merely a ‘soft’ transition from one shot and one sequence to another; it is a radical effacement of Helen as object for the spectator, in a symbolic return to the most primitive state of gaping desire, which the cinematic narrative must fill.» Prima di Baxter, anche Marcel Oms (Josef von Sternberg, in Antologie du Cinéma, volume 6, L’Avant-scene, Parigi, 1971, p. 511) aveva visto nell’opera di Sternberg «une ample et inquiète méditation sur l’eau».

33. Studlar (cit., p. 147) cita un’analisi di William Luhr and Peter Lehman, Crazy World Full of Crazy Contradictions: Blake Edwards’ Victor!Victoria, (in Wide Angle n. 5, 1983 (pp.11-12), dove c’è un riferimento a tale passaggio di corpi e di gambe in Venere bionda: «The shots of Dietrich’s body are also classically fetishized through fragmentation. One of these shots seems to be of her kicking her legs in the water, but the camera pulls back to reveal a boy’s legs as he splashes inthe bathtub (…). The shot is shocking because for an instant the men in the audience are likely to have placed their erotic desires on the boy’s legs thinking them to be Dietrich’s. (…) Men in the audience, then, are potentially not only shocked by the momentary confusion of the collapse of sexual difference but also potentially disturbed by the implicit threat of homosexuality—they have been aroused by a boy’s legs.»

34. Dwight Macdonald scrisse: «Sternberg’s rhythm has declined to a senseless, see-saw pattern. And his kaleidoscopic cutting has reached such a point that the film is all pace and nothing else. The scene changes often, simply because Sternberg didn’t have the vitality to get anything much out of any one scene. Therefore his camera flits restlessly, and fruitlessly, from New York to New Orleans, to Berlin to Buenos Aires (sic!) The whole thing reminded me of the galvanic twitching of a corpse.» (menzionato in Peter Baxter, cit., p. 173, che lo attinge da una considerazione fatta dall’autore sui registi americani in The Symposium di Aprile-Luglio 1933, ripubblicata poi in Dwight Macdonald, Dwight Macdonald on Movie.s, Prentice Hall, New York, 1969, p. 97.

35. Citazione dell’ Ādittapariyāya Sutta, noto come Il Sermone del Fuoco, un sutra del Buddhismo Theravada, incluso nella sezione del Sayutta Nikāya del Canone pāli. Lo si può leggere in rete: https://www.canonepali.net/sn/sn_libro35/sn35-28.htm. Il Buddha Śākyamuni pronuncia il discorso sulla collina di Gayasisa, rivolgendosi ai mille asceti dediti al culto del fuoco. Ogni sensazione che nasca dalla dipendenza del contatto è destinata a bruciare. Il Sangha monacale si servì di tale sermone per meditare,  poi praticare il «non attaccamento».

36. John Baxter ritiene che Sternberg esprima verso il piccolo Johnny l’antipatia provata nei confronti di Maria Riva, la figlia della Dietrich: «From his first idle remark as he splashes in his bath—“there’s an alligator in here”—Johnny embodies hostility and duplicity, reinforcing Maria Riva’s contention that von Sternberg was resentful of her and regarded her as an impediment to his relationship with her mother. The boy plays with grotesque toys, snipes at a clockwork Mother Goose with his toy rifle, pettishly demands that his parents recount their first meeting in the form of a fairy tale, and pulls out the eye of his teddy bear to let it snap back into its face. Later still, as he and his mother go on the run, he wears a grotesque mask on the back of his head—literally two-faced». (J. Baxter, cit., p. 157)

37. Nel 1932 esordisce al cinema la più famosa child star della storia del cinema, Shirley Temple. Miniera d’oro della Fox, l’attrice meglio pagata dalla major, la mini superstar girerà per la Paramount Little Miss Marker [1934] di Alexander Hall e Rivelazione [Now and Forever, Henry Hathaway, 1934].

38. «I’m not afraid of life. Although I’m not afraid of death either» è la celebre battuta della prostituta Marie Kolverer (Marlene Dietrich), che colpisce a tal punto il Capo dei Servizi Segreti austriaco (Gustav von Seyfferitz), da testare la donna come possibile spia. Dopo il rifiuto di lei a fare la spia contro l’Austria, indubbia prova di lealtà per il proprio Paese, l’uomo decide di arruolarla come spia nazionalista.

39. «Per esempio in Stenberg, la scelta che l’eroina deve fare tra un’androgina bianca o scintillante, gelida, e una donna innamorata o persino sposa, può apparire esplicita solo in certe occasioni (Marocco, Venere bionda, Shanghai Express), ma non per questa essa è meno presente in tutta l’opera: L’imperatrice Caterina implica un solo primo piano diviso dall’ombra, ed è precisamente quello in cui la principessa rinuncia all’amore e sceglie la fredda conquista del potere. Mentre invece l’eroina di Venere bionda rinuncia allo smoking bianco per ritrovare l’amore coniugale e materno.E, pur essendo essenzialmente sensuali, le alternative di Sternberg sono alternative dello spirito non meno di quelle, in apparenza soprasensuali, di Dreyer e di Bresson. In ogni modo, non si tratta che di passione o di affetto, nella misura in cui, secondo ciò che dice Kierkegaard, la fede è ancora una questione di passione, di affetto, e nient’altro. Dal suo rapporto essenziale con il bianco, l’astrazione lirica trae dunque due conseguenze che rinforzano la sua differenza con l’espressionismo: un’alternanza dei termini invece di un’opposizione; un’alternativa, una scelta dello spirito, invece di una lotta o di un combattimento. (…) D’altra parte l’alternativa dello spirito sembra corrispondere assai bene all’alternanza dei termini, il bene, il male, e l’incertezza o l’indifferenza, ma ciò avviene in modo molto misterioso, C’è il dubbio, infatti, che “sia necessario” realmente scegliere il bianco. In Dreyer e Bresson, il bianco cellulare e clinico ha un carattere terrificante, mostruoso, non meno del bianco gelido di Sternberg. Il bianco scelto dall’Imperatrice Caterina implica una rinuncia crudele ai valori dell’intimità, che invece Venere bionda ritrova rinunciando al bianco. Sono quegli stessi valori d’intimità che l’eroina di Dies irae ritrova per un istante nell’ombra indiscernibile, invece del bianco presbiteriano. Il bianco che imprigiona la luce non è più valido del nero, che le resta estraneo. In fin dei conti, l’alternativa dello spirito non concerne mai direttamente l’alternanza dei termini, sebbene quest’ultima le serva di base.» (Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Parigi, 1983, ed.it. Ubulibri, Milano, 1984 pp.136-137

40. Cfr. nota precedente

41. Il barista nero del locale balbetta conformemente agli stereotipi razziali dell’epoca o si tratta di una replica del manager del nightclub de La mazzata, anch’egli balbuziente?  Balbetta anche l’imperatore di I Claudius (1937).

42. Il testo della canzone è di Sam Coslow, su musica di Ralph Rainger: «Did you ever happen to hear of voodoo / Hear it and you won’t give a darn what you do / Tom toms put me Under a sort of voodoo / And the whole night long I don’t know my right from wrong / Hot voodoo black as mud / Hot voodoo in my blood / That African tempo / Has made me a slave / Hoot voodoo dance of sin / Hot voodoo worse than gin / I’d follow a caveman / Right into his cave / That beat gives me a wicked sensation / My conscience wants to take a vacation / Got voodoo head to toes / Hot voodoo, burn my clothes / I Want to start dancing / Just wearing a smile / Hot voodoo, I’m aflame / I’m really not to blame / That African Tempo / Is meaner than mean / Hot voodoo makes me brave / I want to misbehave / I’m beginning to feel like An African Queen / Those drums bring out The devil inside me / I need some great big angel to guide me / Hot voodoo gets me wild / Oh, fireman save this child / I’m going to blazes / I want to be bad».

43. Si tratta ancora di una canzone firmata da Coslow e Rainger. Il testo dice: «It isn’t often that I want a man / But when I do, it’s just too bad / I know you’re acting hard-to-get and yet / I’ve got a feeling you can be had / You so-and-so, you little so-and-so / Look what you’ve done to me / You’re almost twice as bad as Who’s this again? /  I ought to take you out and how have you been? /You this-and-that / You’ve got me you-know-what / Is that the way to be? / The Greeks have words For almost everything I know / But you little so-and-so / You so-and-so, you little so-and-so / How did you get this way? / Although you know that I have lost my control / We sit and talk my beautiful soul / You this-and-that / You’ve got me you-know-what / Is that the way it will be? / The Greeks have words For almost everything I know / But you little so-and-so».

44. Sullo specchio del camerino, c’è una citazione della poesia The Winners di Rudyard Kipling: «Down to Gehenna or up to the throne he travels fastest who travels alone». Anche nel camerino di Marocco, spiccava una scritta: «I changed my mind. Good luck».

45. Viene rivelato a Nick Townsend da uno spettatore dello spettacolo di Helen.

46. Le parole sono di Leo Robin, la musica di Richard A. Whiting. Marlene canta prima in francese, poi in inglese. «If the moon began to waltz / Or the sun did somersaults / Do you think I’d care or stop and stare / I couldn’t be annoyed / If the hens refuse to lay / Or If bulls gave milk some way / Do you think I’d care / That’s their affair / I couldn’t be annoyed / If everyone stood on his head / And on his hands  wore shoes / I’d still eat crackers in my bed / What I have got to lose? / If we ate soup with a fork / Or if babies brought the stork / Do you think I’d care / I’d still declare I couldn’t be annoyed».

47. Secondo Michael Ferguson (Idol Worship: A Shameless Celebration of Male Beauty in the Movies, Star Book Press, Sarasota, FL, 2003, p. 47) Cary Grant nel film «demonstrates a remarkable asexuality. There’s absolutely no heat at all in his scenes with Marlene Dietrich, their love lines delivered in deadpan not because they’re rank amateurs, but because Marlene was distracted by her director and Cary didn’t yet realize he needed to act a love scene. Years later, when asked how she felt about her budding co-star, Ms. Dietrich replied, “I had no feelings. He was a homosexual.». D’altronde, considerato l’elusorio romanzo d’amore tra Helen e Nick, probabilmente reso impalpabile per attenuarne l’iniziale audacia, si potrebbe persino azzardare un’ipotetica omosessualità del personaggio.

48. Scrive Buttafava (cit., pp.80-81): «La “consegna” del feticcio diventa l’elemento rivelatore della struttura dell’erotismo sternberghiano del gruppo dei film con la Dietrich (Angelo azzurro compreso), basato più che sul conflitto di impulsi opposti, che si scontrano acquistando o perdendo “carica”, sulla mera circolarità del desiderio (si veda ancora una volta il paradigmatico vestito nero da uccello di Shangai Lily, uguale all’inizio e alla fine del viaggio, o la ripetizione della canzone del desiderio “Ich bich von Kopf…” nell’Angelo azzurro, soprattutto la altrimenti inspiegabile richiesta della protagonista di Dishonored di morire con indosso il vestito, anzi l’ “uniforme”, con cui ha servito i suoi “compatrioti”, e non la patria, cioè il suo vecchio abito da prostituta, vera “divisa del desiderio”). Intorno al centro immobile della figura della star-feticcio si muove un mondo sotterraneo e ambiguo. E l’ambiguità si spinge fin dentro il simulacro, con allusivi contegni infrascritti, tenui come le ombre che modulano la sua superficie, leggibili soprattutto nei meravigliosi numeri musicali». Pure Studlar (cit., p. 126) parla di ripetizione di gesti e situazioni, da imputarsi al ritualismo masochista: «Repetition occurs in the final scene of Blonde Venus when Helen returns to bathe Johnny and repeat their bedtime ritual, as well as in Dishonored when Magda returns to her prostitute’s costume to repeat her provocative gesture from the film’s opening. At the end of The Devil Is a Woman, Concha climbs back into a carriage, echoing her initial appearance in a parade carriage and the numerous other times she has blithely left one lover for another. Through these repeated departures. Concha acts out the mother’s part in masochism’s fort/da game of desire. Her disappearances set into motion another appearance, another change of identity, another repetition of loss that erases time and circles back to stasis, to the beginning, to death».

49. «Tutte le lunghe sequenze della fuga nel Sud con il bambino sono fuori film» (G. Buttafava, cit., p.80).

50. Cfr. Susan Osborn, What’s in a Name?, Gallery Books, New York, 1999, p. 81.

51. Il momento della festa, dell’orgia, della parata, del capodanno o del carnevale è altresì ricorrente nel cinema di Federico Fellini. Il quale, con Sternberg, condivide la venerazione della donna (non mancano nemmeno nei suoi film, le donne piumate), una reinvenzione artificiosa dei luoghi (non soltanto esotici), il motivo della scelta (almeno fino a Otto e mezzo, 1963) e l’aspirazione all’acqua finta (che nelle opere del maestro riminese, a differenza di quello viennese, riesce finalmente a compiersi).

52. Cfr. Eleazar Moiseevič Meletinskij, Archetipi letterari, Mosca, 1994, ed.it. Eum, Macerata, 2016, pp.64-90.

53. Vedi nota 29.

54. «The visual link between them is continually reinforced through verbal references to the fetishistic objects that surround them as metonymic extensions. For example, in preparing for her first night on the stage, Helen takes Johnny’s teddy bear as her good luck charm for her performance as another hairy beast. When Helen and Johnny take to the road, the bear is juxtaposed with a chicken, which, as Wood states, offers a pun on the French slang word for prostitute, poule (hen).Helen’s numerous onstage and offstage masks and mas querades are eerily repeated in the grotesque mask that Johnny wears perched Janus-faced on the back of his head. As in a dream, such symbols in the mise-en-scene are indecipherable at their appearance but read across the text, with reference to the possibilities of intertextual meaning, they acquire their “poetic” significance» (G. Studlar, cit., p.148).

55. G. Dumézil, cit., p. 291

56. Per Andrew Sarris (cit., pp.36-37) «There are interesting incongruities in some of the peripheral characterizations, particularly a delicious moment of anti-typecasting irony when the middle-aged Lesbian-like Cecil Cunningham clucks sympathetically to Dietrich that she (Cecil) has a kid of her ow and knows what it is to be on the run. This is the wearily jaded side of Sternberg, a side far too wearily jaded even to smile at its own conceits.»