Keisuke Kinoshita (1912-1998) è stato uno dei grandi autori del cinema tout court. Come alcuni emeriti titoli di gloria della cinematografia giapponese – Mikio Naruse in primis, ma anche molti film di Kaneto Shindō, tantissime opere giovanili di Mizoguchi e Masaki Kobayashi e poi Yasuzo Masumura, Yûzo Kawashima, Tomu Uchida, Heinosuke Gosho, Hiroshi Shimizu e mille altri – è stato completamente dimenticato od ostracizzato dalla distribuzione televisiva e homevideo italiana. Eppure la sua importanza e la sua grandezza sono parimenti indubbie: suo, per esempio, è il primo film a colori nella storia giapponese, ovvero quel Carmen ritorna a casa [Karumen kokyo ni kaeru, 1951] che, insieme ad altre sue opere, è stato pubblicato in DVD (in alcuni casi anche Blu-ray), in edizione con sottotitoli inglesi, in occasione del centenario della sua nascita.
Regista talentuoso e poliedrico, ex-direttore della fotografia, sceneggiatore e anche aiuto-regista presso Yasujiro Shimazu e soprattutto Kōzaburō Yoshimura, maestro di Masaki Kobayashi, Hiroshi Teshigahara e Yoshishige Yoshida, capace di passare con disinvoltura dalla commedia, non di rado increspata da venature satiriche, (lo stesso Carmen ritorna a casa) al melò (gendai-geki, il genere per cui è maggiormente noto in Occidente) e al dramma (il capolavoro La leggenda di Narayama [Narayama bushikô, 1958]), dall’affresco bellico (Il fiume Fuefuki [Fuefikugawa, 1960]) alla ghost story (Yotsuya Kaidan [id., 1949]) transitato persino per il western (A Legend or Was It? [Shitô no densetsu, 1963]), ha goduto di grande stima in patria fino alla fine degli anni ’50. Nonostante il successo internazionale di Rashomon [Rashômon, 1950] (Kurosawa scrisse per Kinoshita The Portrait [Shozo] nel 1948 e lo chiamò a produrre Dodes’ka-‘den [Dodesukaden, 1970]) che spalancò le porte del cinema giapponese all’Occidente, i suoi film non riuscirono però ad affermarsi al di là dell’arcipelago e ciò, unitamente allo scarso successo commerciale, lo costrinse ad abbandonare gradualmente la produzione cinematografica per dedicarsi a regie televisive scarsamente stimolanti.
Fa capolino nella sua caleidoscopica ed imponente filmografia questo Una tragedia giapponese [Nihon no igeki, 1953], descritto da George Sadoul e Peter Morris nel loro celebre Dictionary of Films, come «uno dei migliori lavori di Kinoshita, comprensibilmente ammirato in Giappone».
L’opera racconta del difficile rapporto tra Haruko, una madre indigente (il film appartiene infatti al sottogenere haha mono, letteralmente «racconti di madri»), e i suoi due figli alle soglie dell’età adulta.
Perso il marito in guerra, povera in canna e tenutaria solo di una licenza per vendere alcoolici (che poi lascerà ai cognati), Haruko si sottopone a numerose umiliazioni pur di garantire ai figli un futuro più luminoso. Questi, però, scoperte le degradanti attività, decidono di abbandonarla, arrivando persino a rinnegare la famiglia.
Una tragedia giapponese esce nel 1953, un anno di grazia per il cinema giapponese: è infatti l’anno di Viaggio a Tokyo [Tôkyô monogatari, Yasujirō Ozu] e I racconti della luna pallida d’agosto [Ugetsu monogatari, Kenji Mizoguchi], mentre La porta dell’inferno [Jigokumon, Teinosuke Kinugasa] – del medesimo anno – avrebbe vinto nei due anni successivi la Palma d’Oro a Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero. Eppure, il film giapponese del 1953 che più si accosta all’opera di Kinoshita è il meno conosciuto Fratello e sorella [Ani imôto] di Mikio Naruse: in entrambi i casi emerge un preciso quanto spietato ritratto del Giappone in riassetto dopo le devastanti conseguenze della Seconda Guerra Mondiale e la dichiarazione di natura umana dell’imperatore Hirohito. Usciti – non dimentichiamo – l’anno successivo alla chiusura del comitato di censura coordinato dalla forze americane (CEI) e la cessazione dell’occupazione alleata, sia il film di Naruse che quello di Kinoshita focalizzano il punto di vista di una famiglia povera del Giappone rurale (o, comunque, extraurbano) e sulle conseguenze degli sconvolgimenti socio-politici sui legami familiari.
«Nell’estate del 1945 il Giappone era una distesa di rovine. Erano morte in guerra circa due milioni di persone, un terzo delle quali civili; il quaranta per cento della superficie complessiva delle città era distrutto e la popolazione urbana era calata più della metà; le industrie erano ferme e in pessime condizioni si trovava anche l’agricoltura […] I quasi sette anni di occupazione americana1 e lo stato di tutela che ne seguì si sarebbero rivelati un’esperienza unica non solo per il Giappone ma nella storia mondiale.»2
Ed è proprio al termine di questo periodo che si colloca il film di Kinoshita.
Fin dall’inizio, Una tragedia giapponese si configura come un particolarissimo ibrido tra cinema sperimentale3 e cinema neorealista (come ricorda anche Maria Roberta Novielli nella sua Storia del cinema giapponese, i film della corrente neorealista italiana, proiettati nell’arcipelago a partire dalla fine degli anni ’40, ebbero un notevole impatto sulla sensibilità del pubblico e dei cineasti giapponesi) : i primi due minuti e mezzo del film, ancor prima dei crediti di testa, sono occupati da immagini di repertorio, frammenti cinegiornalistici4 e pagine di quotidiani che raccontano lo stato delle cose nel Giappone del secondo dopoguerra.5
(Gli inserti cinegiornalistici presenti a inizio film testimoniano la costante ricerca formale che sovrintende l’opera omnia del regista nipponico e descrivono la precarietà delle condizioni socio-politiche del Giappone in riassestamento dopo gli sconvolgimenti della Seconda Guerra Mondiale. Da immagini che ritraggono cerimonie ufficiali si passa a momenti di protesta collettiva fino a ritrarre la povertà e sofferenza delle famiglie e dei singoli)
Del cinema sperimentale, Kinoshita fa proprio il ricorso – oltre alle succitate immagini d’archivio – a flashback che illustrano la vita della protagonista (interpretata da una straordinaria Yûko Mochizuki) durante il secondo dopoguerra. Sono flashback silenziosi, in cui l’audio si sospende e annulla nell’orizzonte percettivo del ricordo: la reminiscenza si snoda attraverso una circoscrizione sensoriale che è visiva ma non aurale. Silenzio che, forse, è nella visione di Kinoshita l’unica risposta possibile a miseria e privazioni e si prospetta come un rimando addizionale alla figura della protagonista: come tante (anti)eroine del cinema giapponese coevo, Haruko è una donna che, inascoltata, carica su di sé il peso del sacrificio6 per garantire un futuro migliore ai propri cari.«Un tipo di “vittimizzazione” (higaisha ishiki) dove l’individuo è sovente dipinto come una pedina impotente prigioniera delle macchinazioni di una precisa traiettoria geo-politica»7
(un’immagine proveniente da uno dei flashback silenziosi presenti all’interno di Una tragedia giapponese)
Come ha scritto Donald Richie:«Una tragedia giapponese fu visto come uno dei primi film del dopoguerra che parlavano di madri»3. Due film con cui è possibile rapportarlo sono i precedenti e affini Madre [Okasan, 1952] di Mikio Naruse e, soprattutto, Vita di O’Haru, donna galante [Saikaku ichidai onna, 1952] di Kenji Mizoguchi, d’ambientazione però seicentesca.8
Del neorealismo, invece, Kinoshita riprende in particolare l’ambientazione direttamente on location, facendosi in questo latore di un atteggiamento che stava andando caratterizzandosi proprio nel cinema nipponico di quegli anni9. Se la scelta di girare nei luoghi e negli spazi della realtà, senza la mediazione delle ricostruzioni in studio, garantisce all’opera una tenuta quasi documentaristica – perfettamente integrabile al footage d’archivio che apre Una tragedia giapponese – Kinoshita si tiene comunque equidistante tanto dalla poesia della miseria (non ci sono giudizi, né condanne né apologie) quanto dal pauperismo di messa in scena. Vero che tratto distintivo della pellicola è il ricorso ad un’illuminazione strettamente naturale (priva cioè di luci artificiali extra-diegetiche) – per giunta tanto più difficile e straordinariamente riuscita, considerata anche l’abbondanza di scene notturne – ma si tratta di una scelta necessaria per conferire maggiore concretezza alla storia, scavando più a fondo nelle pieghe tormentate, in costante disequilibrio, del nucleo familiare. È, questo, il vero e proprio centro propulsore del film, lo specchio di un intero Paese in doloroso cambiamento. A quella di Haruko, nel film si aggiunge anche la descrizione della famiglia dell’insegnate d’inglese (interpretato da Ken Uehara, già protagonista de Il pasto [Meshi, 1951] di Naruse e noto per le interpretazioni di personaggi eminentemente virili e sicuri di sé nel precedente decennio) che s’innamora della figlia della donna. Se la famiglia di Haruko diventa paradigma dei progressivi cambiamenti in seno alla società e ai suoi elementi costituenti – scrive a tal proposito Reischauer:«Con l’occupazione americana il paese fu inondato da tutta una serie di modi di vivere, di pensare e di istituzioni nuove»10 – nonché dell’ormai acquisita centralità del denaro come motore delle relazioni umane11, quella del maestro Masayuki ne è il controcampo ideale, rappresentando invero l’archetipo della famiglia tradizionale in riassetto che, nel secondo dopoguerra, abbandona progressivamente il sistema patriarcale.12
La profonda ricerca formale, si è detto, è un elemento costitutivo del cinema di Kinoshita, autore che di forme è sempre stato grande sperimentatore (tre esempi su tutti: la trasfigurazione delle caratteristiche sceniche del teatro kabuki ne La leggenda di Narayama; il ricorso a zoomate a schiaffo che anticipano gli spaghetti-western in A Legend or Was It? e la colorazione attuata direttamente su pellicola ne Il fiume Fuefuki). Marchio caratteristico di Una tragedia giapponese è l’alternanza di piani sequenza fissi e lunghe carrellate rettilinee (capaci frame-by-frame di mantenere inalterata la bellezza compositiva del fotogramma), in una graduale scansione di staticità e dinamismo che corrisponde ai moti interiori dei protagonisti. Questa eterogeneità stilistica è ancora una volta indicativa della costante tensione all’investigazione sul piano del linguaggio che è peculiare del cineasta, come già testimoniava il ricorso ai frammenti di cinegiornali. Qui vi compare, personificazione in qualche modo “metafisica” della macchina politica, il generale MacArthur (lo stesso de Il sole [Solntse, 2005] di Aleksandr Sokurov), riconoscibile contrassegno di quella progressiva occidentalizzazione che Kinoshita ha sempre analizzato con lucida attenzione, come testimonia un film come Ventiquattro occhi [Nijûshi no hitomi, 1954] (una riflessione che – nella storia del cinema nipponico – culminerà idealmente ne La cerimonia [Gishiki, 1971] di Nagisa Ōshima). Un’occidentalizzazione (che è anche industrializzazione ed evoluzione capitalistica al seguito del contatto diretto con l’imperialismo americano) che, se da un lato rappresenta una speranza sociale per le nuove generazioni, dall’altro segna inesorabilmente un allontanamento, non solo e non tanto da rituali e tradizioni, quanto proprio dalla natura e dalla terra, e quindi dalle proprie origini culturali. Il tutto intercalato in un contesto di rapido cambiamento in cui – come testimonia il finale – il sacrificio dei pochi (e deboli) è l’inevitabile (e sgomentante) prezzo da pagare per il futuro dei molti.
NOTE
1. Per approfondire il punto di vista di alcuni registi giapponesi sul periodo di occupazione americana si consiglia in particolare la visione di Porci, geishe e marinai [Buta to gunkan, 1961] di Shōei Imamura e Kabe atsuki heya [id., 1953], Kuroi kawa [id., 1957] e Karami-ai [id., 1962] di Masaki Kobayashi.
2. Edwin O. Reischauer, Storia del Giappone. Dalle origini ai giorni nostri, ed. Bompiani, pag. 241.
3. Definizione utilizzata anche da Donald Richie in A Hundred Years of Japanese Film: A Concise History, p. 117.
4. Inserzione «che fece parlare della lezione di Ejzenstein sul montaggio delle attrazioni» (da Il Morandini – Dizionario dei film 2012, ed. Zanichelli, p. 1548). Eppure, è necessario ribadire che, rispetto alle teorizzazioni del maestro russo, nel film di Kinoshita l’impiego di materiale audiovisivo di repertorio s’inscrive perfettamente nel tessuto del film, creando un rapporto di sorprendente continuità con le immagini di finzione.
5. Un’altra parata di materiale di repertorio è presente dal minuto 14 al minuto 16.
6. Reischauer fa notare come in quel periodo si fosse re-instaurato nell’animo di alcuni giapponesi l’antico sentimento della «accettazione fatalistica delle avversità» in Edwin O. Reischauer, op. cit., p. 268.
7. Isolde Standish in Alastair Phillips e Julian Stringer (a cura di), Japanese Cinema – Text and Context, p.7.
8. Già in Engagement Ring [Konyaku yubiwa, 1950], Kinoshita aveva messo al centro del film un racconto di donna destinata al sacrificio, però attraverso stilemi più aderenti al genere del melò.
9. Cineasta eclettico e difficilmente classificabile, Kinoshita avrebbe fatto ritorno al cinema degli studios in particolare con La leggenda di Narayama).
10. In Edwin O. Reischauer, op. cit., pp.242-243.
11. Mitsuhiro Yoshimo avanza un parallelismo tra Una tragedia giapponese e il successivo Racconto crudele della giovinezza [Seishun zankoku monogatari, 1960] di Nagisa Ōshima, accomunati dalla «visione estremamente fresca e cupa della società moderna, in cui il denaro distrugge irreversibilmente il tessuto delle relazioni umane» in Alastair Phillips e Julian Stringer (a cura di), op. cit., p.176.
12. Atteggiamento sintomatico della posizione di Kinoshita che «anche se non biasima i valori tradizionali del Giappone per il destino della povera madre […], non cerca di camuffare il fatto che una causa egualmente potente erano le nuove viziose tipologie di comportamento che avevano contagiato la gioventù.» in Donald Richie, Japanese Cime. Film, Style and National Character, pag 121.