È ben nota la posizione di uno storico e critico dell’arte come Cesare Brandi in merito all’arte contemporanea: il segno non solo precede le immagini, ma conta più delle immagini stesse.
Prendiamo ad esempio i manufatti d’Arte Povera (così da poter, en passant, rendere tributo al recentemente scomparso Jannis Kounellis): si tratta di manifestazioni concettuali che impongono una decostruzione del significato normalmente attribuito agli oggetti più comuni.
Al di là di qualunque logica di gusto (o, più nobilmente, di giudizio critico) siamo di fronte ad un dato tutt’altro che irrilevante. Astraendo oggetti e materiali dal loro significato convenzionale (ovvero: il significato di utilizzo), viene a decadere il sistema di referenze a cui vengono associati per consuetudine. In parole più semplici: si mette letteralmente in mostra il carattere di parzialità delle nostre modalità di percezione della realtà.
Una realtà i cui parametri, di fatto, si vorrebbero invariabilmente fissi, le cui correlazioni si pensano inevitabilmente sempre stabili. Una realtà che, a torto, non si vuole concepire come processo continuamente dinamico.

segno e immagine cesare brandi

Ci sono però altri due presupposti connessi all’Arte Povera (e, per traslato, a molta parte dell’arte contemporanea tout court) che crediamo sia piuttosto importante rimarcare: da una parte, l’inevitabilità della misura del frammento; dall’altra, il coinvolgimento diretto del soggetto (meglio: dei soggetti) nella forma dell’esperienza (pensiamo qui alla rilevanza via via sempre più egemone assunta dalla performance art).

gina pane

L’arte performativa ha raggiunto con Gina Pane (1939-1990) una dimensione estrema e controversa: l’artista (francese di nascita, italiana d’adozione) ha costruito le proprie performance come una forma rituale di scrittura del corpo, spingendosi non solo ad utilizzare delle lamette per ferirsi (gli avambracci, l’addome) ma persino a chiedere al pubblico di agire direttamente sul proprio corpo (con tutto il corollario di polemiche che questo ha comportato). Quello che qui ci interessa, però, è come la performance artistica si presenti in qualità di esperienza profondamente soggettiva e non durativa, non più interessata a trascendere il momento.

Processi dinamici, misura del frammento, soggettività dell’esperienza. Tre parametri fondamentali che non si possono dimenticare anche quando ci si trova a riflettere sull’immaginario cinematografico (e, più in generale, audiovisivo) di una contemporaneità entrata in quella fase post-postmoderna che Ruggero Eugeni, in un bellissimo saggio, ha brillantemente ribattezzato postmediale. Un periodo in cui l’ubiquitaria presenza della tecnologia intreccia una relazione di continuità con il corpo («interazione ininterrotta di téchne e bios», dice Eugeni1) e dove i media, superata la “pesantezza” dell’era elettronica, «sono stati via via de-individuati, fino a sparire all’interno di una rete di apparati, di processi e di pratiche quotidiani che rendono impossibile isolare le componenti mediali da quelle non mediali»2
Essenziale notare, poi, come per Eugeni la condizione postmediale non sia caratterizzata, a differenza di quanto la progressiva frammentazione dell’esperienza indurrebbe a pensare, da una inesorabile sparizione della narrazione epica; al contrario, l’epos contraddistingue e permea ogni momento della comunicazione, proprio come virulenta risposta alla «polverizzazione che ne caratterizza le dinamiche»3. In altre parole, più ancora delle voci polifoniche del romanzo (com’era della postmodernità), l’epica è tornata ad essere la forma privilegiata di racconto della contemporaneità. Ovvero, il registro attraverso cui la contemporaneità racconta se stessa.

avatar editoriale

Per Eugeni, Avatar [id., 2009] di James Cameron è il «primo, grande sistema epico che articola la condizione postmediale.».4 In particolare, l’ecosistema di Pandora si configura come incessante compenetrazione di tecnologia e natura attraverso uno scambio ininterrotto.

A ben vedere, in questa era postmediale caratterizzata da dinamizzazione, frammentazione e soggettivazione dell’esperienza, sono proprio i prodotti audiovisivi che, volente o nolente, ci portano ad interrogarci sul concetto stesso di immaginario. A ridefinirlo. In un momento di continua mutazione, contraddistinto dall’ininterrotto fluire degli sciami digitali, dove ognuno è sottoposto ad una quantità potenzialmente illimitata di stimoli (e proviamo, qui, a circostanziare il discorso all’offerta audiovisiva: le innumerevoli possibilità distributive rendono difficile anche solo scegliere cosa guardare) e in cui le immagini sembrano germinare quasi per partenogenesi, come si configura di fatto questo immaginario? Si può ancora parlare di epos collettivo?

lost credits

Tra i testi-chiave del nuovo immaginario postmediale, Eugeni individua anche la seminale serie televiva Lost [2004-2010, creata da J.J. Abrams, Jeffrey Lieber e Damon Lindelof], capace di creare un modello epico in cui il tema interno della nascita e dello sviluppo di una nuova società si riflette, all’esterno, sulla creazione di micro o macrocomunità di spettatori che non solo ipotizzano e diffondono teorie a partire dalla narrazione, ma si organizzano in rete per moltiplicare e decodificare le informazioni e il “sapere” intorno all’opera.

Per rispondere a tali questioni, facciamo il giro largo e partiamo narrando una storiella.
Un popolare aneddoto racconta della scommessa tra due senatori: avrebbe vinto chi fosse stato in grado di produrre la lettera più breve. La missiva del primo constava di un semplice:«Eo rus» (trad. «Vado in campagna»). Il nostro era probabilmente (e ragionevolmente) sicuro della vittoria, ma l’amico lo gabbò rispondendogli, assai argutamente, «I» («Va’»), vincendo scommessa e imperitura presenza nella manualistica di settore.
Questo per dire che è caratteristica propria di un testo quella di inscriversi all’interno di un sistema di testi (con-testo) e assumere significazioni e risonanze ulteriori proprio e solo in virtù di queste relazioni. Spostandoci sull’asse dell’immaginario audiovisivo postmediale, dominato – preconizzava genialmente David Foster Wallace – da un «fuoco di fila di sollecitazioni astraenti»5, una simile caratteristica diventa quasi una condizione ineludibile, data l’impressionante quantità di testi che informa alla base proprio questo stesso immaginario. Per farla breve: ogni testo (lungometraggio, cortometraggio, videoclip, videoinstallazione o spot pubblicitario che sia) può dialogare con una quantità incommensurabile di altri testi.

infinite jest editoriale

Si prenda l’esempio della recente trilogia apertasi con L’alba del pianeta delle scimmie [Rise of the Planet of the Apes, 2011], diretto da Rupert Wyatt, e proseguita con Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie [Dawn of the Planet of the Apes, 2014] e The War – Il pianeta delle scimmie [War for the Planet of the Apes, 2017], entrambi diretti dal Matt Reeves di Cloverfield [id., 2008].
Il primo film si configura come un reboot di una celebre saga fantascientifica inaugurata da Il pianeta delle scimmie [Planet of the Apes, 1968] di Franklin J. Schaffner, di cui è al contempo, nominalmente, un sesto sequel. Il secondo film è un primo sequel del reboot, ma anche un settimo sequel nominale dell’originale. L’ultimo film, The War – Il pianeta delle scimmie, complica però l’assunto: a sorpresa, il finale del film smuove dalla fondamenta l’architettura seriale della saga. E lo fa trasformando i film della nuova trilogia in tre potenziali prequel del classico di Schaffner6.
Senza star qui a nominare tutti gli altri referenti (Apocalypse Now [id., Francis Ford Coppola, 1979] in primis) con cui i tre lungometraggi intavolano un dialogo più o meno fitto, possiamo affermare che la saga-reboot de Il pianeta delle scimmie dà evidente prova delle infinite dimensioni di dialogo attraverso cui è possibile connettere tra di loro i «rami nodosi e involti» dell’immaginario contemporaneo.

war for the planet of the apes

Fotogramma dal recente The War – Il pianeta delle scimmie.

Eppure, preso atto di queste potenzialità combinatorie prive di limiti, vien quasi automatico porsi una domanda a corollario. Se, come abbiamo visto, l’immaginario s’innesta a spirale nel flusso dei testi che esso stesso produce, creando sistemi autoreferenziali sempre più svincolati dal complesso di conoscenze del singolo (anzi: dei singoli), quale ruolo bisogna ritagliare oggi per lo spettatore (anzi: gli spettatori)? Va da sé che ogni singolo spettatore interagirà con un testo (e il sistema all’interno del quale s’inscrive) a secondo del proprio grado di conoscenze, destinate sempre di più a a marcare una differenza critica. Così, la scala di comprensione del sistema intertestuale edificato dalla trilogia de Il pianeta delle scimmie varierà a seconda che lo spettatore sia, ad esempio, uno studioso, un cinefilo appassionato o un fruitore occasionale.

stranger things

Ne conseguono anche strategie creative: una serie Netflix di successo come Stranger Things [2016-in corso, creata da Matt e Ross Duffer] costruisce la propria epica dialogando e ammicando con tutta una serie di testi (in questo caso i più conosciuti: da Spielberg a Stephen King a Joe Dante) caratteristici dell’epoca in cui è ambientata, gli anni Ottanta.

Questa riflessione ci permette di individuare una seconda caratteristica imprescindibile di questo immaginario postmediale. Ovvero, il suo configurarsi come immaginario eminentemente soggettivo. Privato. Come se ci si trovasse catapultati all’interno di un quadro cubista in cui la simultaneità dei punti di vista non riesce più a restituire un’immagine uguale per tutti, non esiste oggi un immaginario pienamente condivisibile e collettivo. Più a ragione, si dovrà invece concludere che è il singolo, innestandosi in un momento particolare e sempre diverso del flusso, a determinare la misura del proprio immaginario.
In altre parole: ognuno costruisce da sé il proprio sistema, la propria rete di testi con cui dialogare. Senza che ciò comporti la necessità di conoscere il ventaglio di referenti con cui ciascun testo interagisce; questi referenti essendo a loro volta destinati, per dirla con Thomas Pynchon, a giacere come «impronte che si lasciando dietro una lunga, gelida teoria di stelle spente.»7

blade-runner-2049-joi

La Joi di Blade Runner 2049, un ologramma creato (e commercializzato) per essere una «compagna ideale» (ovvero perfettamente rispondente alle esigenze dell’acquirente), è proprio la materializzazione di un immaginario che si costruisce a misura del singolo.
Un tema, questo, che attraversa carsicamente parte delle riflessioni della cosiddetta “fantascienza filosofica” contemporanea. Ecco quindi Lei [Her, 2013] di Spike Jonze, in cui il protagonista s’innamora del software vocale di un’intelligenza artificiale (film in cui l’assenza dell’immagine assume una valenza in qualche modo antifrastica); Ex Machina [id., 2014] di Alex Garland, dove un inconsapevole everyman finisce per innamorarsi di un’androide capace di simulare emozioni e coscienza; infine, il recentissimo Marjorie Prime [id., 2017] di Michael Almereyda, la cua anziana protagonista dialoga incessantemente con la ricreazione olografica del proprio defunto marito. O meglio: un’immagine del marito costruita in ottemperanza ai desideri della propria memoria8.

Un film di recentissima uscita come Blade Runner 2049 [id., Denis Villeneuve, 2017] è di valido aiuto per esemplare quanto appena detto. Non ci importa qui ossequiare il tribunale dei giudizi e stabilire se Blade Runner 2049 sia “bello” o “brutto”, “intelligente” o “scialbo”, “riuscito” o “sbagliato”. Piuttosto, ci interessa isolarlo quale spia di un sentire comune.
In un film fatto di archivi digitali, memorie, hard disk, banche dati, in cui ogni frammento di vita sociale (e privata?) è destinato alla registrazione e all’inventario, pare fortemente significativo come i ricordi del Blade Runner [id., 1982] diretto da Ridley Scott appaiano non solo e non tanto in funzione della loro riproposizione in una nuova forma sensibile (la cotonata replicante Rachel ritorna brevemente come un bizzarro golem senza volontà, mentre il primo incontro tra Deckard e la stessa Rachel, così come il successivo test di Voight-Kampff somministrato dal blade runner alla donna, sono una semplice registrazione sonora di un compiuto segmento audiovisivo). Piuttosto, è qui importante rilevare come questi ricordi di un immaginario pre-esistente acquistino significato solo in relazione alla storia intima e personale di Rick Deckard (Harrison Ford). Sono cioè schegge di un immaginario privato. Letteralmente destinate, come profetizzato dal replicante Roy Batty (Rutger Hauer) nel film del 1982, a perdersi nel tempo come lacrime nella pioggia. Perché in fondo, come già diceva il vate, «quanto piace al mondo è breve sogno.»
Una constatazione che ha valore oggi più che mai.

NOTE

1. R. Eugeni, La condizione postmediale, La Scuola, Milano, 2015, p. 79 

2. Ibidem 

3. Ivi, p. 40 

4. Ivi, p. 36 

5. In un capitolo del suo Infinite Jest, Wallace utilizza due modelli televisivi, Hawaii-Five O e Hill Street Blues, per raccontare lo scarto tra l’eroe classico e l’eroe postmoderno (e post-postmoderno). Quest’ultimo, in particolare, si caratterizza come una figura separata dalla totalità (Wallace parla di «mandria»), sottoposta ad una quantità impressionante di «stimoli astraenti» che lo trasformano in un eroe di reazione, non più di azione. Una figura isolata, in perpetuo stato di tensione causata delle molteplici sollecitazioni che il mondo esterno gli riserva. 

6. Un’operazione simile è stata di recente annunciata da John Carpenter, il quale ha dichiarato che il prossimo capitolo della saga originata dal suo celebre Halloween – La notte delle streghe [Halloween, 1978] farà tabula rasa di tutti i sequel realizzati in precedenza, collocandosi direttamente dopo il capostipite. 

7. Da L’arcobaleno della gravità 

8. Il film riserva poi dei colpi di scena con non modificano però la sostanza del discorso