«Thank you, ladies and gentlemen of the press. I am not going to waste your time. I should say – proceed with the butchery.»1 È con questo commento che il 14 aprile 1947, nella sala da ballo del Gotham Hotel di New York, Charlie Chaplin dà inizio alla conferenza stampa più disastrosa della sua carriera. Organizzata ufficialmente per promuovere l’uscita nelle sale cinematografiche dell’ultimo film del regista, Monsieur Verdoux [id., 1947], la conferenza si trasforma ben presto in un interrogatorio pubblico. In Chaplin and American Culture: The Evolution of a Star Image, C.J. Maland afferma che, delle domande fatte dai giornalisti quella sera, un buon 60% riguardava questioni politiche che non avevano nulla a che fare col film.2 In un clima di generale ostilità gli venne chiesto: se fosse un comunista, se fosse un simpatizzante comunista, se conoscesse Hanns Eisler e se quest’ultimo fosse un comunista, se considerasse l’espansionismo sovietico paragonabile all’espansionismo della Germania del Terzo Reich. Chaplin, da parte sua, cercò di rispondere educatamente a ognuna di queste domande. No, non era un comunista, rispose, ma ammise di aver simpatizzato per la Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, poiché i russi combattevano i nazisti sul fronte orientale. Disse di non sapere se Hanns Eisler fosse un comunista, ma sapeva che era «un grande musicista e un amico molto simpatico.»3 Mentre, riguardo alla domanda sull’espansionismo sovietico, rispose soltanto: «Now, when you’re getting my opinion on political matters and on military matters, I’m not going to be embroiled.»4
La serata, insomma, non si rivelò una buona pubblicità né per il film né per lo stesso Chaplin, che aveva assistito negli ultimi anni a un calo di popolarità della propria immagine pubblica, dovuto tanto allo scandalo Joan Barry, che mise in seria discussione la moralità dell’artista britannico, quanto alle crescenti polemiche riguardo alle sue opinioni politiche, che gli attirarono in questi anni l’antipatia e il sospetto di molti conservatori, tra cui alcune associazioni particolarmente attive come l’American Legion. Le idee progressiste di Chaplin, che già tra gli anni ’30 e i primi anni ’40 venivano mal sopportate da alcune frange dell’opinione pubblica americana, divennero sempre più difficili da sostenere alla fine della guerra, in un clima politico e sociale ossessionato dalla paura del comunismo. Film come Tempi moderni [Modern Times, 1936] e Il grande dittatore [The Great Dictator, 1940], che anche all’epoca della loro uscita gli valsero l’accusa di filo-comunismo, così come alcuni discorsi tenuti durante la guerra in cui Chaplin chiedeva l’intervento degli Stati Uniti sul fronte orientale per aiutare l’Unione Sovietica, non gli portarono certo benefici all’inizio della Guerra Fredda; così come non furono visti di buon occhio nemmeno i suoi rapporti d’amicizia con intellettuali e artisti di sinistra come Bertolt Brecht, Hanns Eisler, Clifford Odets e Donald Ogden Stewart. Inoltre, la decisione di Chaplin di non chiedere la cittadinanza statunitense, nonostante risiedesse e lavorasse negli Stati Uniti da più di trent’anni, fu vista in alcuni ambienti come un atto d’irriconoscenza nei confronti del paese che lo aveva accolto.5 A partire dalla seconda metà degli anni ’40, Chaplin divenne il bersaglio di molti attacchi e denunce di membri del Congresso, i più violenti dei quali provennero dal senatore William Langer e dal rappresentante John Rankin, che arrivò a definirlo «the perverted subject of Great Britain, who has become famous for his forcible seduction of white girls.»6 Chaplin fu inoltre tra i primi cineasti chiamati a testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane nel settembre del ’47, all’inizio di quella che diverrà nota come la «caccia alle streghe» di Hollywood. Dopo che la sua testimonianza venne posticipata per ben tre volte, Chaplin mandò un telegramma a Washington in cui scriveva: «For your convenience I will tell you what I think you want to know. I am not a Communist, neither have I ever joined any political party or organisation in my life. I am what you call a “peace monger”.»7 Gli venne risposto che la sua testimonianza non era più necessaria e che poteva considerare il caso chiuso.
Chaplin durante la conferenza stampa del Gotham Hotel
Monsieur Verdoux, d’altra parte, non aiutò di certo a ricomporre la frattura che sembrava essersi improvvisamente formata tra Chaplin e l’opinione pubblica statunitense; anzi, la scelta di abbandonare del tutto il personaggio del Vagabondo, che lo aveva reso celebre e amato, per interpretare al suo posto un uxoricida che giustifica i propri delitti incolpando la società capitalista sembrò alienarli ancora di più il pubblico americano, che non diede segno di apprezzare questo nuovo Chaplin cinico e avvelenato, decretando infine l’insuccesso commerciale del film. Sebbene fosse ambientato in Francia tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30, il film portava chiaramente le tracce della guerra appena finita e degli orrori impensabili dei lager nazisti e della bomba atomica. «As for being a mass killer, does not the world encourage it?» si giustifica Verdoux, «Is it not building weapons of destruction for the sole purpose of mass killing? Has it not blown unsuspecting women and little children to pieces, and done it very scientifically?»
La Storia aveva dimostrato quanto si fosse distanti dal futuro glorioso immaginato da Chaplin solo qualche anno prima nel finale de Il grande dittatore. Così, mentre la società americana si preparava a entrare nella Guerra Fredda, per contro Chaplin descriveva un mondo senza più alcun centro morale, dove bene e male erano legati in un abbraccio mortale; un mondo che trovava la sua sintesi perfetta nel personaggio di Monsieur Verdoux, dentro cui sembravano convivere il massimo della tenerezza e della compassione e il massimo del cinismo e della crudeltà. «These are days of turmoil and strife and bitterness», dirà al suo arrivo in Europa nel settembre del 1952, dopo aver saputo, ancora in viaggio sulla nave Queen Elizabeth, che il suo permesso di rientro negli Stati Uniti era stato revocato. «This is not the day of great artists, this is the day of politics. I do not want to create any revolution, all I want to do is to create a few more films. I’ve never been political, I have no political convictions. I’m an individualist and I believe in liberty.»8 Durante il suo viaggio in Europa nei mesi successivi, Chaplin venne acclamato dappertutto da folle entusiaste e celebrato come uno dei più grandi geni dell’arte cinematografica. Il suo ultimo film, Luci della ribalta [Limelight, 1952], fu accolto con entusiasmo e commozione e presto riconosciuto come uno dei suoi più grandi capolavori.
Un poster di Monsieur Verdoux con il celebre tagline «Chaplin changes! Can you?»
Finalmente ritrovata la serenità che ormai da tempo sembrava mancargli in America, l’artista inglese iniziò a scrivere la sceneggiatura per un film che avrebbe avuto come soggetto il clima di persecuzione vigente negli Stati Uniti, di cui lo stesso Chaplin fu la vittima più illustre. Inizialmente intitolato The Ex-King, il film uscì infine nel 1957 col titolo A King in New York. Spesso considerato un’opera minore di Chaplin, Un re a New York è in realtà una commedia di grande intelligenza, un film sicuramente amaro e arrabbiato, ma non per questo poco lucido. Non ci fu, a ogni modo, chi non vide, in questa storia di un re in esilio che si trova alle prese con la Commissione per le attività antiamericane, un chiaro riferimento alle vicissitudini personali dello stesso Chaplin. D’altronde la grandezza dei suoi ultimi film consisteva appunto nell’azzardare un rapporto più profondo tra Charlot (la maschera) e Chaplin (l’uomo e artista), muovendosi (non senza qualche rischio) tra l’uno e l’altro e stabilendo così una connessione intima tra il personaggio e la vita del suo interprete, arrivando infine a mettere da parte la maschera e rendere se stesso l’oggetto della propria arte. Non aveva forse ragione Bazin nel vedere nel finale di Monsieur Verdoux «il martirio di Charlot»9? E non era forse vero che in Luci della ribalta Chaplin aveva messo in scena la sua stessa morte nei panni di un clown dimenticato da tutti? Allora è altrettanto vero che in Un re a New York il re in esilio della storia non è altri che Chaplin.
Nel film il protagonista, re Shahdov, in fuga dal suo paese dove è in corso una rivoluzione, arriva a New York, dove spera di poter parlare alla Atomic Energy Commission a proposito delle sue idee sull’uso domestico dell’energia nucleare. Afferma, infatti, che è stata proprio la sua volontà di opporsi alla fabbricazione di armi atomiche a costargli il trono (difficile non vedere in questa affermazione un chiaro riferimento ai problemi avuti da Chaplin a causa delle idee pacifiste espresse in film come Il grande dittatore e soprattutto Monsieur Verdoux). All’inizio del film vediamo Shahdov elogiare gli Stati Uniti per la loro ospitalità, mentre in aeroporto gli vengono prese le impronte digitali sotto lo sguardo indiscreto delle macchine fotografiche della stampa. Shahdov dovrà però presto ricredersi riguardo al suo entusiasmo per l’America. La sua prima serata trascorsa su suolo statunitense, in compagnia dell’ambasciatore del suo paese, lo mette di fronte a un mondo in cui fatica ad ambientarsi, dove si è continuamente bombardati da una musica estenuante che impedisce ogni tipo di comunicazione, costringendo il povero re, frastornato dai colpi di batteria alle sue spalle, a ricorrere alle sue abilità di mimo per ordinare da mangiare (non con grande successo). Chaplin sembra prendersi gioco anche del cinema americano contemporaneo e in particolare del CinemaScope, che costringe lo spettatore a muovere la testa da una parte all’altra dello schermo come in una partita di tennis. Ma tra i principali bersagli del film c’è soprattutto la pubblicità, che in America è onnipresente (la si ritrova anche nell’intimità del bagno!), e di conseguenza la televisione, dove la pubblicità la fa da padrone.
Sopra: una scena di Un re a New York. Sotto: una fotografia di Chaplin mentre gli vengono prese le impronte digitali per il processo Joan Barry, all’epoca un grande evento mediatico.
Nella scena che introduce il personaggio di Ann Kaye, un’affascinante advertising specialist interpretata da Dawn Addams, vediamo quest’ultima in una vasca da bagno mentre ci rivolge uno sguardo malizioso come se si trovasse in una pubblicità televisiva (il punto di vista da cui guardiamo è apparentemente quello di Shahdov e Jaume che sbirciano dal buco della serratura). Questa scelta sembra ricordare una scena analoga, piuttosto nota, di Una settimana [One Week, Buster Keaton e Edward F. Cline, 1920], in cui la mano dell’operatore nasconde per un istante alla vista dello spettatore l’attrice Sybil Seely mentre si allunga per raccogliere la saponetta dal pavimento: se nel film di Keaton la gag in questione è una divertita chiosa al voyeurismo dello spettatore (e alla morale un po’ perbenista che impedisce a quest’ultimo di goderne come vorrebbe), nel suo film Chaplin sembra volerci metterci in guardia su ben altra forma di voyeurismo, quello prodotto dall’occhio televisivo.
Inquadrature da Un re a New York e Una settimana
In quest’ultimo caso a frapporsi all’oggetto desiderato non vi è però alcuna morale, alcuna mano di troppo, e anzi Shahdov con fin troppa facilità arriva a oltrepassare la porta che lo separa dalla donna nella vasca, quando la sente chiedere aiuto, salvo poi essere sorpreso da due messaggi apparentemente contraddittori, un «Go away!» immediatamente seguito da un «Help!». «I wish you’d make up your mind», protesta Shahdov. Segue infine un piccolo flirt in cui lei accetta di farsi massaggiare i piedi da lui e lo convince a venire alla festa che si sarebbe tenuta più tardi, vero obiettivo di tutta la sceneggiata. C’è chi giudica un po’ ridicolo e sintomatico del narcisismo di Chaplin il fatto che egli, a sessant’anni suonati, si ostinasse ancora a interpretare il ruolo dell’innamorato, saltando e ballando di gioia per una ragazza come ai tempi di La febbre dell’oro [The Gold Rush, Charles Chaplin, 1925]. Ma le speranze di Shahdov in realtà sono costantemente frustrate dalla bella pubblicitaria, e il suo desiderio continuamente interrotto e rimandato. Viene da chiedersi se questa scena, oltre alla citazione di Una settimana, non nasconda un riferimento anche a un altro film di Keaton, La palla no 13 [Sherlock Jr., Buster Keaton, 1924]. Fateci caso: il protagonista di quel film non entrava nello schermo per soccorrere una fanciulla? Esattamente lo stesso motivo per cui Shahdov si precipita nella stanza da bagno di Ann Kaye. Solo che in questo caso egli non entra all’interno del grande schermo cinematografico, bensì del piccolo schermo televisivo. E la televisione, a differenza del cinema, non è fatta per le storie d’amore e i baci romantici, ma tutt’al più per la finta seduzione e i consigli per l’acquisto. Da questo punto di vista, non c’è alcuna differenza tra Ann Kaye e la modella dalla voce melliflua della pubblicità della birra da cui Shahdov si fa incantare subito dopo, immerso nella vasca da bagno. Del resto, Ann vuole che Shahdov partecipi alla festa non per i motivi sperati da quest’ultimo ma per sfruttarne la fama a scopi pubblicitari. Infatti, un re, che altrove può essere causa di violente rivoluzioni, come dimostra la scena iniziale del film, nella democratica e consumistica America è soltanto una personalità televisiva come tante altre. Alla cena elegante a cui Shahdov è invitato vi sono infatti delle telecamere nascoste ed egli si ritrova a sua insaputa in diretta televisiva, con sua comprensibile confusione, dal momento che i suoi tentativi di seduzione vengono accolti da Ann con bizzarri discorsi su deodoranti e dentifrici. È da notare, però, che, a differenza della scena precedente, non è più quest’ultima a fissare in camera (lei guarda a lato della macchina da presa, verso la telecamera nascosta), ma Shahdov; alla rottura della quarta parete tipica della pubblicità televisiva, Chaplin sembra opporre criticamente lo sguardo in macchina tipico della commedia slapstick: due modi diversi di stabilire un rapporto con lo spettatore. La scena in questione non si limita, d’altronde, a sottolineare l’assurdità delle pubblicità se prese fuori dal loro contesto, ma sembra fornire un’osservazione (per certi versi profetica) sulla pervasività della pubblicità e della televisione nella vita quotidiana. A più di sessant’anni di distanza, anche noi, come Shahdov, abbiamo talvolta la sensazione di trovarci in una diretta televisiva (o Instagram) perpetua.
Chaplin che guarda in camera
L’accanimento di Chaplin nei confronti della televisione e della pubblicità, a cui dedica buona parte della prima ora del film, è facilmente comprensibile. Chaplin, vecchio re di Hollywood (da cui viene cacciato via senza troppi convenevoli), si ritrova improvvisamente a dover fare i conti con un nuovo nemico, con una nuova «fabbrica dei sogni» che sembra ormai destinata ad avere la meglio proprio sul “vecchio” cinema (con la differenza che i sogni venduti dalla televisione paiono a Chaplin molto più fasulli e scadenti). La seconda parte del film, che presenta un tono più serio, sembra invece tematizzare l’isteria maccartista. E lo fa attraverso la storia di un bambino, Rupert Macabee, che Shahdov incontra inizialmente durante una sua visita a una scuola e successivamente davanti al suo hotel, tremante di freddo. I genitori di Rupert sono stati arrestati perché comunisti e il piccolo, stanco di rispondere a domande sulle loro opinioni politiche, decide di scappare. Come ne Il monello [The Kid, Charles Chaplin, 1921], Chaplin intende denunciare la spietatezza e l’ingiustizia di una società ipocrita che non risparmia nemmeno i più deboli e innocenti. Inoltre, come il personaggio di Jackie Coogan nel film del ’21, anche Rupert (interpretato dal figlio di Chaplin, Michael) può essere considerato una sorta di alter ego del regista. Rupert, infatti, sembra esprimere molte delle opinioni dello stesso Chaplin, come ad esempio il suo odio per le regole e le istituzioni («I dislike all forms of government. […] And I don’t like the world rule»): si può dire in fondo che il cuore ideologico del film risieda proprio nelle sue parole. Allo stesso tempo, però, Rupert è anche presentato come un ragazzino presuntuoso e insolente che Chaplin non si trattiene dal prendere in giro. Quest’atteggiamento rivela, secondo Jonathan Rosenbaum, un lato autocritico del cinema di Chaplin che molti non sono disposti a riconoscergli.10 (Vale la pena notare, inoltre, che il regista decise di affidare questo ruolo al figlio dopo averlo sorpreso a parodiare il suo discorso finale ne Il grande dittatore.) A causa del suo rapporto col bambino, anche re Shahdov viene accusato di essere un comunista (per Chaplin neanche un re è al sicuro dalla stupidità dei maccartisti) e gli viene dunque chiesto di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Shahdov verrà alla fine assolto da ogni accusa ma non prima di bagnare accidentalmente la Commissione con una pompa d’acqua, una piccola vendetta simbolica a cui Chaplin non poté resistere.
Nel finale, Shahdov, ormai deluso dall’America e deciso a fare ritorno in Europa, passa dalla scuola di Rupert per salutarlo. Qui apprende dal preside che i genitori di Rupert, inizialmente condannati a due anni di carcere, sono ora in libertà grazie alla collaborazione del ragazzo, che ha fornito i nomi che i suoi genitori si rifiutavano di dare. «It’s been a happy solution all around», gli viene detto dal preside. Si tratta di una scena eccezionale. Innanzitutto, a dispetto di chi ha spesso trovato in Chaplin un regista eccessivamente sentimentale, va notato come in questo finale egli eviti sia di lasciarsi trasportare dall’idealismo che di abbandonarsi a una patetica commozione (come aveva spesso fatto nelle sue opere precedenti). Ci regala invece un finale mesto e rassegnato, dove alle lacrime amare del piccolo Rupert, schiacciato dalla vergogna, Chaplin non ha altro da offrire che delle magre parole di consolazione. Il finale sembra ricordare quello de Il monello: anche qui il bambino riesce alla fine a «ritrovare» la sua famiglia, ma stavolta la riconciliazione non porta a nessun lieto fine consolatorio, poiché il modo in cui si è giunti a questa riconciliazione non fa altro che confermare la denuncia di una società malata. Eccezionale, nella sua semplicità, è anche la panoramica che Chaplin inserisce all’incirca a metà della scena: dopo il commento del preside secondo cui la collaborazione del bambino è stata una soluzione felice per tutti, la macchina da presa si muove lentamente verso sinistra fino ad inquadrare la porta da dove entra Rupert, il quale avanza verso la m.d.p. mostrandosi subito ben diverso dal ragazzino sfrontato e insolente che avevamo imparato a conoscere nel resto del film. Un successivo primo piano ci fa intuire chiaramente il senso di colpa e la vergogna che prova per quanto ha fatto. Rupert, alla fine, non riesce a trattenere le lacrime quando il preside si complimenta con lui per essersi comportato da «vero patriota».
Inquadrature dalla sequenza finale di Un re a New York
Il movimento di macchina di cui sopra si presenta pressoché identico in una scena precedente del film, per giunta con il medesimo commento musicale (si tratta del tema di Rupert, che sentiamo per la prima volta quando lo incontriamo, infreddolito, per le strade innevate di New York). In questa scena Shahdov ha appena accolto Rupert nella sua camera d’albergo e gli ha offerto qualcosa da mettersi al posto dei suoi vestiti bagnati. L’ambasciatore Jaume, però, è molto preoccupato riguardo al possibile coinvolgimento del re con il figlio di due comunisti. «You’ve been here too long», gli dice Shahdov, «Next thing you’ll be saying is the boy’s a Communist.» «You can’t be too sure of anyone», gli risponde Jaume. La macchina da presa, quindi, si sposta, come nella scena descritta precedentemente, verso sinistra, inquadrando Rupert mentre entra nella stanza, inevitabilmente ridicolo dentro i vestiti larghissimi che il re gli ha dato, convincendoci subito dell’assurdità delle insinuazioni di Jaume. «Gee, this is swell!», esclama mentre si ammira con indosso la vestaglia e il pigiama di re Shahdov. In entrambe le scene Chaplin intende sottolineare come Rupert, nonostante i suoi discorsi da adulto, sia di fatto soltanto un bambino, dimostrando l’isteria di un paese che invece ne vuole fare prima l’accusato (per via dei suoi genitori) e poi l’accusatore (quando viene costretto a fare i nomi). Quando si parla della semplicità dello stile di Chaplin, è questo movimento di macchina che bisognerebbe tenere presente: il gesto più semplice per suggerire le contraddizioni più profonde.
Movimento di macchina nella scena dell’albergo
A fare da leitmotiv per tutto il film è un clima di paranoia da cui i protagonisti sembrano farsi lentamente contagiare, cosicché dalle telecamere nascoste nella prima parte si passa al terrore delle cimici o delle spie governative nella seconda. Per questo motivo Un re a New York sembra a tratti una sorta di anticipazione farsesca dell’ultimo capolavoro di Fritz Lang, Il diabolico Dr. Mabuse [Die 1000 Augen des Dr. Mabuse, conosciuto in Italia anche col titolo I mille occhi del Dottor Mabuse, 1960]. Oltre al clima paranoico, altri elementi in comune che rendono facile il paragone sono la presenza di Dawn Addams, un budget ridotto e un hotel come set principale. Eppure, il film di Chaplin, paradossalmente, sembra fornire una prospettiva ancora più pessimista (e attuale) di quella langhiana. Nel film di Lang, la sorveglianza video in fondo non è che un aggiornamento dei vecchi sogni di onnipotenza di Mabuse; e d’altronde uno dei temi affrontati è l’incapacità del popolo tedesco di lasciarsi il passato alle spalle. Se Chaplin ci mostra il medium televisivo dalla prospettiva degli americani (cioè di coloro che l’hanno plasmato), Lang, non dimentico della tragedia nazista, ci ricorda che in fondo la televisione è innanzitutto uno strumento di controllo. Anche nel suo film vediamo il protagonista spiare il personaggio di Dawn Addams, in questo caso attraverso un finto specchio, e, successivamente, attraversare questo specchio/schermo per venire in suo aiuto. A differenza del film di Chaplin, però, tutto ciò sembra reiterare le modalità voyeuristiche del medium cinematografico (sebbene in un’ottica più ambigua da «cinema moderno»), ancor più dal momento che la rottura dello «schermo» trasporta definitivamente il protagonista in un mondo fatto di intrighi (anche sentimentali) e avventure. Tuttavia, le cose si dimostrano più complicate di così, giacché a essere sorvegliato è lo stesso protagonista, che per tutto il tempo è vittima di uno spettacolo truccato. In definitiva, la rappresentazione che Lang fornisce alle modalità della sorveglianza non è troppo lontana, per certi versi, dal Grande Fratello orwelliano, con le macchinazioni di una diabolica società segreta al posto di un sinistro Stato burocratico.
Inquadrature da Il diabolico Dr. Mabuse
In Un re a New York, invece, Chaplin sembra prendersi gioco di questa forma di cospirazionismo in una scena in cui Shahdov fugge da un uomo che indossa occhiali da sole e impermeabile; inizialmente scambiato per una spia si rivelerà poi essere soltanto un fan a caccia di un autografo. Banalmente, Chaplin sottolinea come la stessa idea paranoica di sorveglianza appare ridicola e un tantino ingenua in una società in cui tutto è pubblico e il concetto stesso di privacy è reso antiquato dai nuovi media. Il dominio della pubblicità, infatti, si traduce anche in questo «divenire pubblico» generalizzato che prevede, come inevitabile conseguenza, una sorveglianza costante, che non è più, dunque, affare esclusivo di misteriosi Mabuse che agiscono nell’ombra. Forse persino il maccartismo non è che un effetto collaterale di tutto ciò, e Chaplin, d’altra parte, ci tiene a evidenziare il sostrato patologicamente narcisista che sembra essere alla base di questi processi pubblici.
Per Chaplin anche il maccartismo in fondo non è che una forma di pubblicità
Nel 1957, il maccartismo aveva già iniziato a perdere consenso in America. Già un anno prima venne realizzato a Hollywood il primo film che criticava esplicitamente la caccia alle streghe maccartista (senza bisogno, cioè, di ricorrere ad allegorie, come avevano fatto Mezzogiorno di fuoco [High Noon, Fred Zinnemann, 1952] o La campana ha suonato [Silver Lode, Allan Dwan, 1954]): Al centro dell’uragano [Storm Center, Daniel Taradash, 1956], con Bette Davis, storia di una bibliotecaria che si rifiuta di rimuovere dagli scaffali un libro che sposa tesi comuniste. E numerose sono inoltre in quegli anni le commedie americane che, come il film di Chaplin, si rivelano egualmente critiche nei confronti della società consumistica americana, sebbene in maniera più condiscendente (si pensi a film come La ragazza del secolo [It Should Happen to You, George Cukor, 1954] o La bionda esplosiva [Will Success Spoil Rock Hunter?, Frank Tashlin, 1957]). Ciò che però distingue Un re a New York da ognuno di questi film non è tanto la violenza della sua critica, né la sua capacità di toccare più questioni contemporaneamente, ma il fatto che Chaplin sia stato costretto a realizzare il suo film negli Shepperton Studios di Londra e non in uno studio di Hollywood. Era, cioè, la sua stessa condizione di esule, testimoniata anche dall’esiguità dei mezzi disponibili, a servire da prova definitiva di ciò che Chaplin andava denunciando e a rendere il suo film inviso all’opinione pubblica americana. Del resto è proprio questa povertà di mezzi a rappresentare gran parte del fascino del film. Mentre ad Hollywood un regista come Tashlin, forte del suo CinemaScope a colori, poteva divertirsi a sfottere il piccolo schermo televisivo e le sue immagini a bassa definizione (si veda il brillante «interludio» de La bionda esplosiva, uscito lo stesso anno di Un re a New York), Chaplin, cacciato alla periferia dell’impero, non riesce a nascondere invece un senso di impotenza nei confronti del nuovo che avanza e che ovunque lascia i segni della propria vittoria. Quel che resta sono parole vuote e fugaci, buone giusto per uno spot pubblicitario. Non c’è da stupirsi che Chaplin abbia inizialmente pensato di trasformare il film in un musical,11 dal momento che il suo obiettivo sembra essere quello di restituire un po’ di armonia a un mondo che ne è privo. Ma alla fine è grazie al registro della commedia slapstick, con la sua disordinata successione di gag e situazioni tenute insieme alla rinfusa, che il film trova la sua spontaneità e la sua libertà. In una delle scene migliori del film, Shahdov, trasformato in una maschera grottesca da un’operazione di chirurgia plastica, riesce finalmente a ritrovare il suo vero volto grazie a una risata provocata dall’esibizione di due comici (che ricorda, non a caso, uno dei primi corti di Chaplin, Charlot apprendista [Work, Charles Chaplin, 1915]). Qui sta la metafora finale del film, e in definitiva di tutto il cinema di Chaplin, in grado di riassumere la semplicissima morale di un’opera monumentale: solo una risata può salvarci.
Infine, appare indispensabile menzionare un ulteriore aspetto del film. È da notare infatti che prima della comparsa nel film di Ann Kaye, Shahdov sembra innamorato di un’altra donna, sua moglie, dalla quale sta per divorziare, e che egli incontra all’inizio del film prima che lei parta per l’Europa. In un dialogo con Jaume, quest’ultimo esprime al re la sensazione che la regina stesse iniziando ad amarlo. «Wishful thinking!», gli risponde Shahdov amaramente. Tutto però ci fa pensare che Jaume abbia ragione e che il resto del film ci debba mostrare questo riavvicinamento tra i due (d’altronde il cinema è il posto ideale per un po’ di «wishful thinking»), ma Shahdov (così come il film stesso) fa presto invece a dimenticarsi della regina, per poi ricordarsene solo nel finale, in cui riceve un telegramma in cui lei gli annuncia di non voler più chiedere il divorzio. Questa notizia non sembra però rallegrarlo come ci si aspetterebbe. «Well, aren’t you happy?», gli chiede Ann. «I don’t know. Maybe», è la sua risposta enigmatica. «Why don’t you stay and have her over?», gli suggerisce allora lei. «With you around?», ribatte pronto Shahdov, che sembra ostinarsi a sopravvalutare le proprie qualità di playboy. «Oh, honey, you know we never meant much to each other», le risponde con cordiale franchezza lei. Dieci anni più tardi, con il sublime La contessa di Hong Kong [A Countess from Hong Kong, Charles Chaplin, 1967], Chaplin avrebbe realizzato quella commedia romantica da cinema classico che Un re a New York si rifiutava esplicitamente di essere, con Tippi Hedren nel ruolo della moglie che cambia idea sul divorzio e Sophia Loren nei panni della donna che piomba improvvisamente nella vita del protagonista, un diplomatico interpretato da Marlon Brando (mentre Chaplin si accontentava di un modesto ruolo di comparsa). Ma questa è, a ben vedere, tutta un’altra storia.
Un re a New York si conclude con l’inquadratura dell’aereo col quale Shahdov abbandona definitivamente i grattacieli della metropoli americana. Qualche anno più tardi Chaplin avrebbe scritto nella sua autobiografia:
Gli amici mi hanno chiesto se sento la mancanza degli Stati Uniti. Ho la nostalgia di New York? Onestamente, no. L’America è cambiata, e così pure New York. La scala gigantesca delle organizzazioni industriali, della stampa, della televisione e della pubblicità commerciale mi ha separato completamente dal sistema di vita americano. Voglio l’altra faccia della medaglia, un senso della vita più semplice e personale: non i viali pomposi e i torreggianti palazzi che sono un eterno promemoria della grande industria e delle sue ponderose conquiste.12
Inquadrature finali di Un re a New York
NOTE
1. Maland, Charles J., Chaplin and American Culture: The Evolution of a Star Image, Princeton University Press, Princeton, 1989, p. 238.
2. Cfr. ibidem.
3. Ibidem.
4. Ivi, p. 239.
5. Cfr. J. Vance, Chaplin: Genius of the Cinema, Harry N. Abrams Inc., New York, 2003, pp. 296-303.
6. C. J. Maland, Chaplin and American Culture cit., p. 259.
7. J. Vance, Chaplin cit., p. 302.
8. J. de Missolz, Chaplin Today: A King in New York (documentario), https://m.youtube.com/watch?v=5AkMFB_PSrM&t=312s
9. A. Bazin, Monsieur Verdoux: le martyre de Charlot, Charlie Chaplin Archive, http://www.charliechaplinarchive.org/en/collection/cerca/monsieur-verdoux-le-martyre-de-charlot-andre-bazin
10. J. Rosenbaum, Rediscovering Charlie Chaplin, https://www.jonathanrosenbaum.net/2018/03/rediscovering-charlie-chaplin/
11. Cfr. J. Vance, Chaplin cit., p. 318.
12. C. Chaplin, La mia autobiografia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, p. 509.