Presentato in anteprima mondiale all’International Film Festival di Rotterdam nella sezione Bright Future e successivamente alla 57a edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Lumina (2021), l’ultimo lavoro low budget del giovane cineasta Samuele Sestieri (I racconti dell’Orso, 2018), scritto insieme a Pietro Masciullo e prodotto da Studio Ma.Ga. di Sestieri e Pietro Stori, in associazione con Il Varco di Andrea Gatopoulos e Marco Crispano, è il frutto di un viaggio attraverso le rovine di luoghi abbandonati della Basilicata. Lumina racconta di una donna misteriosa, C, interpretata da Carlotta Velda Mei, che ritrova in una vecchia scatola di cartone uno smartphone in cui sono custodite le immagini della storia d’amore tra Arianna (Laura Sinceri) e Leo (Matteo Cecchi). A partire da questo ritrovamento ha inizio l’atto del ricordare.
In Lumina la ricomposizione della memoria avviene mediante la tecnica del found footage, con il contributo fondamentale al montaggio di Fabio Bobbio (I cormorani, 2016); i ricordi sono evocati, infatti, da album di famiglia, voci del passato e da vecchi filmati, immagini e video. Il recupero di questa memoria produce un cambiamento in C: inizialmente donna priva d’identità, attraverso un processo di sostituzione prima – sembra fare le veci dei ricordi di Arianna – e di identificazione ‘per immagini’ poi, C diventerà Arianna nel corso del film.
Lumina porta avanti un concetto di cinema inteso come rinascita, come luce (lumina, appunto): luce su borghi dimenticati, su persone perdute, su ricordi intimi. La prima inquadratura del film testimonia fin da subito questa idea: C si ritrova nuda, come un neonato, su una spiaggia all’imbrunire. Una nudità intesa come momento di rinascita che veicola un sottotesto metaforico: così come C continua a conservare e ricordare il volto di Leo, allo stesso modo il cinema in quanto lumen (fonte di luce) recupera spazi e corpi e ricordi abbandonati e li riabilita a nuova vita.
L’aspetto più interessante del film di Sestieri è il tema del doppio, rintracciabile sia nella presenza di due Arianna: (C che tesse il filo della memoria e l’Arianna dello smartphone) sia nel modo in cui questa memoria viene rappresentata attraverso un’ibridazione di realtà e finzione: difatti, lo potremmo definire un ‘fantasy home-movie’ in cui la realtà delle immagini d’archivio intercetta la finzione di una dimensione misteriosa da cui C ricorda e cerca di ricongiungersi al Leo realmente esistito. Quest’ambivalenza del film di Sestieri si riscontra anche a livello estetico-fotografico, dove il film si compone di chiaroscuri pittorici.
Considerando inoltre certi ricordi del cinema di Malick nella rappresentazione del rapporto tra corpo e paesaggio, questa duplicità di Lumina si rintraccia anche nell’oscillazione tra la rigenerazione di una vita/memoria, rappresentata dalla scena iniziale dell’approdo su una spiaggia sconosciuta, dall’eremitismo attraverso spazi sconfinati, dal corpo raddoppiato di Arianna, e un gap emotivo costituito dall’incostanza dei rapporti intimi e dall’attraversamento di spazi claustrofobici come il tunnel buio e labirintico in cui C si muove in una delle scene finali del film.
Inoltre, il tema del doppio s’intreccia inevitabilmente a un discorso sulla precarietà delle immagini contemporanee. Esemplificativa la scena della caduta nel fango di C che compromette irrimediabilmente la funzionalità dello smartphone e, quindi, dell’immagine. Quando la donna cerca disperatamente il telefono, ciò che rimane è il nome urlato di Leo, che nelle scene successive ricomparirà solo un’altra volta ma sotto forma di sogno/incubo. A quale immagine credere allora?, sembra essere la domanda che Lumina pone.
Si potrebbe a questo punto azzardare un’equivalenza: a guardar Lumina sembra quasi di leggere Le rovine circolari di Jorge Luis Borges, dove si racconta di un ‘uomo grigio’ che approda sulla riva di un fiume, alle rovine di un tempio alla ricerca di «un’anima che meritasse di partecipare al suo universo»1. Il proposito dell’uomo grigio era quello di sognare un altro uomo: «voleva sognarlo con minuziosa completezza e imporlo alla realtà […]. Gli conveniva il tempio disabitato e cadente, perché era un minimo di mondo visibile»2. La somiglianza tra il racconto di Borges e Lumina si coglie nella cornice paesaggistica, per entrambi luoghi fatiscenti; nell’incontro con un uomo del posto, «gli conveniva anche la vicinanza dei boscaioli, perché si incaricavano di soddisfare i suoi bisogni frugali. Il riso e la frutta erano alimento sufficiente per il suo corpo, dedito all’esclusivo compito di dormire e sognare»3; ma soprattutto nell’intenzione di (ri)costruire qualcosa. Così come l’ ‘uomo taciturno’ di Borges vuole creare qualcosa nel mondo reale a partire dal sogno, allo stesso modo C ricostruisce la sua storia d’amore attraverso il ricordo.
Che poi, non potrebbe essere lo stesso Lumina un sogno? Il film si conclude con un risveglio, con un ritorno alla vita quotidiana, con C che cammina in strada tra la gente.
NOTE
1. J. L. Borges, Le rovine circolari, in Finzioni, Adelphi Edizioni, Milano 2003, p.48.
2.Ibidem, p.47.
3.Ivi.