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UN’ESTETICA DELLA SOFISTICAZIONE
di Andrea Termini.

Al netto di tutto ciò che sul piano del contenuto si lascia ricondurre a tabù antropologici più o meno atavici e di agevole connotazione orrorifica (cannibalismo, necrofilia), il potenziale perturbante di un’opera imbevuta di pure immagini qual è The Neon Demon risiede in primo luogo nelle sue soluzioni formali. È il titolo stesso a suggerire d’altronde un legame indissolubile tra coté figurativo e aspirazioni di genere: il demone corruttore che abita l’universo sintetico e virtuale della Los Angeles refniana è un’entità dai tratti eminentemente stilistici, un fatto di carattere estetico che assurge oltretutto ad emblema di un’intera e pervasiva tendenza dell’odierno post-cinema – quella della contaminazione dei linguaggi mediatici e degli ibridi improntati all’effetto antinaturalistico della fotografia al neon1. L’obiettivo evidente del film è dunque il conseguimento di una sorta di cinéma pur algido e minimale, che neghi allo spettatore ogni possibilità di provare empatia psicologica e favorisca invece una fruizione totalmente asservita ai valori plastici, formali e tonali di immagini e suoni, all’ipertrofia sensoriale che vi si sprigiona. Ed ecco che l’ascesa e la caduta della virginea bellezza di Jesse, immacolato diamante in un mare di artefatti fasulli, si dissolve in un gioco astratto di contrappunti cromatici, geometrie spigolose e martellanti ritmi elettronici: il tutto orchestrato alla perfezione per esaltare i sensi fino allo stordimento, in un tripudio di fantasie sinestetiche. Come spiegare allora il profondo disagio, la sottile e viscerale repellenza che un siffatto dispositivo semiotico sbilanciato sul lato del significante2 è in grado di inoculare nel pubblico, posta la carica inebriante del suo impianto visivo?

the neon demon - estetica della sofisticazione - 1

Il fatto è che nel momento stesso in cui ammalia il suo spettatore e ne eccita le terminazioni retiniche con continue acrobazie sensoriali, The Neon Demon comunica anche una natura intimamente perversa, un morboso compiacimento connesso proprio con la tematica dell’impostura e della sofisticazione estetica che ne rappresenta il nucleo semantico. Così come le fameliche modelle aguzzine ossessionate dall’essere oggetto di sguardo – controcanto alla scopofilia del comparto maschile3, con l’eccezione del personaggio di Ruby – non esitano ad adulterare i propri corpi, riducendosi a manichini necrotici assemblati con l’artificio, le opzioni stilistiche privilegiate da Refn fanno di tutto per restituire un’impressione di manierata contraffazione, di feticistica sostituzione della realtà con un surrogato di plastica e scintillanti lustrini. In questa operazione di pervertimento estetico svolge ovviamente un ruolo fondamentale la fotografia patinata di Natasha Braier, con i suoi bagni di flares intinti in una palette al neon che spazia da un capo all’altro dello spettro luminoso – in tal modo è la superficie stessa del film a contribuire ad alimentare la repulsività e il senso di malessere che si accompagnano al fascino sensuale delle immagini. Si tratta di un fenomeno per certi versi riconducibile alla teoria dell’uncanny valley, che nel campo della robotica ipotizza un incremento delle reazioni di disgusto di fronte ad una resa iperrealistica della figura umana: la percezione dell’alterità che si nasconde dietro l’apparente riproposizione perfetta della natura non può che tradursi in istintiva inquietudine.

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La sequenza conclusiva del rigetto dell’occhio porta a compimento tale discorso formale calibrando con cura meticolosa tempi e spazi al fine di provocare un analogo effetto di ripugnanza nel pubblico. Dominata da sfumature celesti, blu e bianche – tinte fredde associate dalla psicologia della Gestalt a emozioni quali calma e serenità e simbolo tradizionale di purezza – la scena ne adopera il bagaglio emotivo-simbolico per farlo stridere con quanto mostrato e per raggelare la messinscena. La prima inquadratura, già intrisa di riflessi patinati come nel successivo momento dello shooting fotografico, presenta in campo medio l’arrivo delle due modelle antropofaghe; segue uno scambio di battute in un interno asettico e niveo, accarezzato da una bava di vento. Refn riprende quindi l’insorgere della nausea motivato dalla vista della piscina alternando campi totali del set fotografico percorsi da bagliori rosacei, reaction shots sul volto disgustato dell’attrice, una carrellata verticale che indugia sulle contorsioni del suo stomaco e una soggettiva sui moti ondivaghi dell’acqua nella piscina, seguita da un controcampo impossibile che deforma i tratti del quadro collocando il punto macchina sott’acqua. L’espulsione del bulbo oculare – in quanto dispositivo scopico rigettato come per un’overdose di narcisistico esibizionismo – è invece messa in scena entro una cornice taketica4 di spigoli taglienti e linee spezzate, che richiamano l’atto violento della lacerazione per mezzo di forbici con cui la modella porrà fine alle sue sofferenze. E si noti che nel rapido montaggio del suicidio fanno capolino due dettagli della sequenza precedente all’insegna della solita estetica della falsificazione, a rimarcare ancora una volta il potere perturbante che il regista ha voluto affidare a questa scelta stilistica.

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NOTE

1. Cfr. L. Baldassari, https://specchioscuro.it/estetica-neon-nel-cinema-contemporaneo-appunti-per-una-mappatura

2. Il meccanismo di base è quello della significanza di cui parla Roland Barthes, ossia del «senso in quanto prodotto sensualmente», in R. Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1999, p. 122.

3. Gli studi di Laura Mulvey sulle prerogative di genere del punto di vista nella Hollywood classica, applicabili a molte delle fonti di ispirazione del film (De Palma e Argento, eredi di Hitchcock), non esauriscono in realtà l’ambiguità dello sguardo che lo caratterizza. Cfr. L. Mulvey, Cinema e piacere visivo, Bulzoni, Roma, 2013.

4. Ci si riferisce qui all’opposizione Takete/Maluma elaborata da Wolfgang Köhler nei suoi studi sulla percezione delle forme.

DELL’INTENSITÀ. NOTE SUI TITOLI DI TESTA IN THE NEON DEMON
di Nicolò Vigna.

Interrogato su quali fossero i titoli di testa cinematografici da lui prediletti1, il title designer di The Neon Demon [id., 2016] Ben Ib cita, fra gli altri, quelli di Velluto blu [Blue Velvet, 1986]. Si tratta, invero, di una scelta suggestiva in quanto ci dà lo spunto per ragionare brevemente sulla opening title sequence dell’ultimo film di Nicolas Winding Refn. Se infatti l’idea di comporre la sequenza quasi esclusivamente da alcuni colori (il rosso, il blu e il viola) alternati ciclicamente proviene direttamente da Arancia meccanica [A Clockwork Orange, 1971] di Stanley Kubrick2, è però con i titoli del film di Lynch che The Neon Demon stringe il legame poetico più interessante.
Nel film del 1986, un telo di velluto dal colore blu elettrico ondeggiava sinuoso nell’inquadratura, mutando le proprie tonalità cromatiche attraverso la luce e le pieghe del tessuto stesso. La sequenza, oltre a preannunciare tematicamente quell’universo “avvolto” nel mistero che avrebbe poi caratterizzato il film (“cosa nasconde quel telo?”; e più sottilmente, “cosa si nasconde dietro la superficie delle cose?”), evocava un registro espressivo fortemente sensuale, fondato principalmente sulla stimolazione delle percezioni ottiche e sonore dello spettatore.

D’altronde, il cinema di David Lynch si è sempre contraddistinto per l’«intensità» delle singole sequenze che costituiscono i suoi film3. Ma cosa si intende, a grandi linee, per «intensità», quando parliamo di cinema? Secondo Paolo Bertetto, «l’intensità è dinamismo, flusso della forza variabile e dei processi differenziali, legata prevalentemente alla sensazione, ma anche alle forme e ai concetti, e connessa al divenire.»4 Ebbene, da queste parole – che ovviamente non possono esaurire la complessità del discorso proposto dallo studioso – si evince l’indubbio legame che intercorre tra il cinema lynchiano e quello refniano; e che, per chi scrive, si evidenzia proprio nella sequenza presa qui in esame. Con una prima, dovuta precisazione. Dalla «sensualità» dei titoli di Velluto blu, con The Neon Demon passiamo ad una vera e propria eccitazione sensoriale, ottenuta tanto dall’utilizzo di colori accesi, luminescenti, che richiamano quel «neon» prefigurato dal titolo, quanto dalla loro successione cromatica, dal loro “flusso”.

«L’estetica “al neon” mira ad eccitare l’occhio dello spettatore, privilegia le fonti di luce brillante (i colori più utilizzati sono il rosso, il blu, il verde e il viola), non di rado intermittente […]», scrive Lorenzo Baldassari5. I titoli di testa di The Neon Demon, realizzati in computer grafica, mostrano allo spettatore una superficie porosa, ricca di increspature, che muta progressivamente il proprio colore. Il nostro occhio non solo viene colpito dai colori fluorescenti della sequenza, ma anche dalla loro progressione. Come nota sempre Bertetto rifacendosi alla grande speculazione filosofica di Gilles Deleuze, «il flusso è contro l’idea di opera come struttura, a favore della processualità della creazione, dello scorrere infinito delle cose, del succedersi delle sensazioni, che contano di più dell’interazione delle componenti o dell’armonia.»6 Non solo armonia, dunque, ma un eterno divenire (cromatico) che provoca l’intensità emozionale dell’opera d’arte – e che può trovare proprio nel cinema, l’arte del tempo e dello spazio per eccellenza, il suo luogo ideale.

Perché quelle dell’instabilità e della mutazione sono, in fondo, alcune delle tracce tematiche di The Neon Demon. La protagonista Jesse, fagocitata dal mondo della moda, subisce un processo di continui mutamenti che coinvolgono, in primis, il suo corpo, ovvero la superficie dell’essere. In una sequenza a circa metà del film, durante una sessione fotografica, la pelle della giovanissima fotomodella viene cosparsa di una vernice dorata: e cos’è l’oro se non il colore per eccellenza della mutazione? Non è un caso, allora, che i titoli di testa di The Neon Demon si chiudano proprio con una pioggia di glitter dorati. Perché è indubbio che, quello di Refn, sia un film «metacromatico»7, che fa dell’instabilità e dell’intensità dei suoi colori, dei loro contrasti cromatici, qualcosa di fondamentale, che può condizionare la narrazione. Anzi, che può avere la meglio sulla stessa – perché, per utilizzare le parole di Andrea Termini, The Neon Demon è un film assolutamente sbilanciato sul piano del significante.

Un film narrativamente debole, dunque, a tratti irraccontabile, eppure formalmente intenso, sensoriale, performativo. E in cui il ruolo del colore, evocato dai titoli di testa, ha una valenza centrale. Perché, come ha scritto Wittgenstein, i colori sono proprio quella cosa che, più di ogni altra, non si può raccontare8.

NOTE

1Intervista a Ben Ib e David Frost, consultabile qui: http://www.artofthetitle.com/title/the-neon-demon/

2In Arancia meccanica, i titoli di testa sono presentati su inquadrature completamente blu o rosse. Cfr. Intervista citata. Qui, la sequenza: https://vimeo.com/23422846

3Sulla questione, consigliamo la lettura dell’analisi di Mulholland Drive di Alberto Libera per “Lo Specchio Scuro”.

4Paolo Bertetto, Il cinema e l’estetica dell’intensità, Mimesis, Milano, p. 45.

5Si rimanda all’articolo intero qui: https://specchioscuro.it/estetica-neon-nel-cinema-contemporaneo-appunti-per-una-mappatura/

6Paolo Bertetto, Op. cit., p. 43.

7Alessia Astorri, CineCromie – L’oro, lo specchio, il glitter: policromia del nerohttps://www.spietati.it/the-neon-demon/

8Cfr. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sui colori. Una grammatica del vedere, Einaudi, Torino.

DALLO SPECCHIO: LO SPAZIO RINATO, L’IMMAGINE SOTTRATTA
di Stefano Caselli.

Emerge in modo evidente dalle scene iniziali del film: The Neon Demon ha intenzione di riflettere esplicitamente sull’immagine della bellezza e sui suoi simulacri. Se ciò si traduce a livello narrativo e iconografico in una serie di rivendicazioni e ispirazioni decisamente affascinanti, ci preme accennare qui specificamente al rapporto che lega la formulazione dello spazio filmico ai nodi concettuali del racconto, a partire dall’analisi di alcuni campi-controcampi esemplificativi che troviamo proprio nelle prime fasi dell’opera di Winding Refn.
Si pensi al modo in cui vengono gestiti gli spazi dell’azione nella scena del primo incontro tra Jesse e Ruby: viene anzitutto presentata la porzione di ambiente in cui la protagonista si sta ripulendo dal sangue finto utilizzato sul set.

The Neon Demon - Fig. 1

Nel quadro si vede già, sulla destra, lo specchio che presumibilmente riflette l’immagine della ragazza. Alle sue spalle invece si estende una schiera di luci bianche su sfondo nero a perdita d’occhio: uno spazio indefinito che si perde nel nulla. Le due inquadrature successive vanno a ricolmare proprio lo smarrimento dello sguardo nell’indefinitezza della stanza passando dal filtro delle due superfici riflettenti che la adornano.

The Neon Demon - Fig. 2

The Neon Demon - Fig. 3

Il campo-controcampo compone la porzione di spazio che separa i due personaggi a partire dal suo riflesso: Jesse e Ruby parlano coi loro ritratti, i quali osservandosi l’uno nell’altro tratteggiano i confini di ciò che le separa. In entrambe le inquadrature sono ben visibili gli elementi della precedente: le cornici luminose e i led sulla parete nera; l”infinitezza del luogo dell’azione è però annullata dal suo inglobamento entro i confini degli specchi. Seguono1 due inquadrature che traspongono il campo-controcampo nella prospettiva del mondo riflesso: come se lo sguardo provenisse dallo specchio e si riflettesse poi sullo stesso.

The Neon Demon - Fig. 4

The Neon Demon - Fig. 5

A partire da questo breve ma significativo gioco di sguardi possiamo farci un’idea di come la gestione degli spazi della visione, e più in generale i suoi nodi tematici (dalla riflessione sulla bellezza alla parabola della protagonista), si rielaborino a partire da una sostanziale virtualità – da intendersi qui come ri-creazione di una superficie abitabile dapprima inesistente, entro la quale muoversi e venire immortalati o immortalarsi, trascendere. Da pretesto mostrativo, il processo diviene vero e proprio mantra concettuale del film. La scena della sessione fotografica con McCarther insiste su questo aspetto: dal capannone al set lo spazio diviene completamente astratto, quindi sprofonda nel buio, quando infine le luci si riaccendono siamo collocati in un altrove puramente immaginale.

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The Neon Demon - Fig. 8

Dentro l’immagine, quindi catapultati in un’altra immagine ancora: lo stesso processo che, durante la sfilata metamorfica di Jesse, catapulterà la protagonista dal dominio astratto della passerella a quello, demoniaco, del suo alter-ego uno e trino circondato dagli specchi. Per The Neon Demon, la bellezza domina uno spazio virtuale la cui fugace sembianza è frutto di una triangolazione, dell’incrociarsi di più prospettive astanti: in questa irrealtà, il soggetto si smarrisce nella propria idealizzazione – o meglio riesce a ricrearsi e a rinascere in uno spazio nuovo (il set, la passerella, il buio, il riflesso).

The Neon Demon - Fig. 9

Il mondo narcisistico della moda, totalizzato dall’immagine della bellezza, richiama allora la ri-socializzazione virtuale di cui scrive Gene Youngblood:

«Dobbiamo creare noi stessi come esseri immaginativi, come “soggetti desideranti” che accettino o rifiutino il mondo che noi stessi abbiamo costruito […] [ciò] presuppone una capacità di tenere continuamente presenti modelli alternativi di realtà possibili, così da visualizzare e concettualizzare altri modi di stare al mondo […] una trasformazione radicale dell’identità soggettiva.»2

Non a caso, nel momento in cui il reale tradisce e l’ideale sfugge al controllo, la rivolta colpisce e sanziona proprio l’immagine riflessa, scagliandosi contro il dispositivo riflettente.

The Neon Demon - Fig. 10

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La virtualità di The Neon Demon formula uno spazio e un’immagine che rinascono, magnificati e intangibili, all’interno di una visione riflessa o de-realizzata. Il rigetto si abbatte sullo specchio, la brama di possesso si attua però nello spazio che vi sta davanti; laddove non arriva la sopraffazione sessuale subentra un gesto ancora più estremo, ancora più violento: l’impeto cannibalico che trasforma le assassine in streghe danzanti nel corso di un sabba rituale.
Ci interessa qua leggerlo come una sottrazione, incontrovertibile, dell’immagine ideale che contamina la realtà. Tenendo a mente la spinta di incarnazione/incorporazione che sorregge le più recenti riflessioni sulle rappresentazioni del cannibalismo,3 non possiamo non mettere in parallelo l’evolversi simbolico del racconto alla riflessione che in esso coinvolge spazi e sagome: il tentativo di appropriarsi della bellezza, di divorarla e incarnarla, consiste in una sua eliminazione dallo scenario del visibile – Jesse scompare dal panorama di forme e forme riflesse. Se lo spazio rinasce nella sua de-realizzazione, l’ideale della bellezza è destinato a svanire nel transito che separa l’immagine specchiata dal suo corrispettivo: il percorso della protagonista non viene interrotto dalla sua morte, ma in essa compie il suo passo più decisivo.
Svanendo nella carne e nella sembianza altrui Jesse riesce a librarsi in una virtualità ancora nuova: non più nel regno dell’immagine, non più al di là della realtà, ma attraverso la realtà. A ciò corrisponde una progressiva scomparsa degli specchi nell’economia visiva del film: la riflessione sulla bellezza di The Neon Demon osserva un transito, dal mondo al suo riflesso, al di là del suo riflesso, poi di nuovo nel mondo, attraverso lo stesso. La bellezza di Jesse si concretizza e si idealizza, quindi si incarna nei corpi che la circondano e che ne fanno scempio – poco importa, in fin dei conti, se essi siano in grado di accoglierla o meno.
Così la riflessione sugli spazi di Winding Refn teorizza il virtuale per poi trascinarlo di nuovo nel reale: un reale stravolto, sagomatico, che ormai è tutto e solo ciò che resta.

NOTE

1. L’inquadratura di raccordo è analoga a quella descritta in partenza: estende cioè nuovamente lo spazio della stanza all’infinito, relegando le due all’anticamera dello specchio alle spalle di Jesse.

2. Gene Youngblood, “Cinema elettronico e simulacro digitale. Un’epistemologia dello spazio virtuale.” in Rosanna Albertini, Sandra Lischi (a cura di), Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, ETS Editrice, Roma, 1987, pp. 31-32.

3. Cfr. Maggie Kilgour, From Communion to Cannibalism. An Anatomy of Metaphors of Incorporation, Princeton University Press, Princeton, 1990, pp. ix-20.

PEOPLE BELIEVE WHAT THEY’RE TOLD. FENOMENOLOGIA DI UN FILTRO NELLO SGUARDO POST-MODERNO DI THE NEON DEMON, DI N. W. REFN
di Enrico B. Lo Coco.

1. Moon

Quando Jesse (Elle Fanning), si trasferisce a Los Angeles per far soldi grazie alla propria bellezza, non sembra diversa dalle sue coetanee che sognano la grande metropoli e inseguono il successo. Però lei ha qualcosa in più. O, più precisamente, guarda qualcosa in più, qualcosa di differente1. E in effetti, racconta al ragazzo che frequenta, sin da bambina chiedeva alla Luna se anche lei ricambiasse il suo sguardo, giacché la grande dama bianca le sembrava proprio un enorme occhio, scrutatore silenzioso; di qui, parrebbe facile definire l’ultima fatica di Refn come un incontro di occhi e sguardi.Molto significativo quanto avviene nella sequenza della discoteca, subito dopo che Jesse ha conosciuto Ruby (Jena Malone), la quale, virgilianamente la guida nei territori pericolosi del mondo della moda. In questo ambiente, le due si muovono come ologrammi all’interno di uno spazio puramente percettivo. Per rappresentarlo, Refn cerca nuove soluzioni linguistiche, crea uno spazio astratto, interroga la percezione dello sguardo e si disinteressa della narrazione. Sopratutto, utilizza il filtro dell’occhio come motore da cui scaturisce il senso stesso del racconto. Anche il tempo cessa di esistere, quantomeno la sua tradizionale percezione cronologica2.

Non diversamente, al cospetto di uno dei fotografi più influenti del settore, l’occhio viene guidato verso un enorme telo bianco (lo schermo cinematografico?) dove si svolge di una performance del tutto priva di parola.

the neon demon - postmoderno - 1

La macchina fotografica agisce sullo sguardo, lo scompone e lo rimette insieme come fosse un mosaico, lascia che il senso della visione si attivi esclusivamente nell’atto della percezione: non immemore di un certo cinema postmoderno, Refn mette in scena fantasmi di corpi che furono. Pur non disdegnano certe istanze archetipiche (Jesse è, fisicamente, il perfetto stereotipo d’adolescente americana), mira a coinvolgere e sorpassare i “sensi”, a ricostruire il reale mediante il filtro dello sguardo3.

2. “Beauty is the highest currency we have

“Beauty isn’t all, it’s the only thing”, dice Robert Sarno (Alessandro Nivola) a Dean (Karl Glusman). Al punto che deve pulire con attenzione i propri occhiali, il suo filtro personale, attonito di fronte all’eterea vergine che gli si presenta davanti. Dopo lo sguardo, il cardine estetico del film diventa il corpo, la membrana di carne di cui è composto. Il corpo non solo segna irrimediabilmente lo spazio che percorre, ma diventa incarnazione delle potenzialità dell’individuo, superficie però quasi astratta che nel film trova una sorta di controcanto nella presenza significativa degli animali4. Il corpo diventa protagonista di un racconto che sfrutta i segni dell’horror per esplorare il mondo (la fauna) della moda e che si avvale della “cattività” rappresentata dallo spazio metropolitano.

casting 1 casting 2 casting 3L’impianto geometrico del “safari tour” visto dall’interno è esso stesso filtro dell’epifania di un bello tanto inafferrabile quanto irresistibile, al punto da cercarne, con l’occhio filmico, tutte le sue parti (figura intera, mezzo busto, volto): la scomposizione del corpo di Jesse è assai simile al taglio da macello, sì come una macelleria sembrano gli ambienti bianchi ove si svolge la scelta della prossima icona da consacrare.

Seguendo questo territorio d’indagine, l’occhio della macchina da presa indaga il perimetro dello spazio come fosse una gabbia animale, un teatro della lotta per la sopravvivenza. Quando Jesse si reca in bagno durante un provino, la modella-rivale Sarah (Abbey Lee), cercando di privarsi della vista di se stessa (ennesima rappresentazione di un filtro tra lo sguardo e il mondo presente nel film), ha rotto uno specchio con il quale la stessa Jesse si ferirà poi accidentalmente il palmo della mano. Un pezzo di vetro le penetrerà infatti nella carne. Questa sequenza, in cui un frammento di specchio (ecco un altro filtro dello sguardo) la trapassa fin nelle viscere, marca metaforicamente la diversità dello sguardo di Jesse. Proprio qui, l’aspirante modella diventa spettatrice lei stessa, assistendo alla performance di Sarah, “cannibalisticamente” assetata del suo sangue.

the neon demon - postmoderno - 2 the neon demon - postmoderno - 3La certezza d’aver frantumato il filtro frapposto tra sé e il reale, si traduce, invece, per Sarah, nella fame di giovinezza, la possibilità di sentirsi nuovamente “il sole nel mezzo dell’inverno”: provando ad appropriarsi del sangue, la leonessa più vecchia cerca adesso di mutare il proprio corpo, superando la mera contemplazione di sé e quindi quel principio di vanità che cristallizzava la bellezza solo nello sguardo.

3. The sun in the middle of the winter

Osservare, nel cinema di Refn, significa apporre un filtro allo sguardo, privato di un contatto diretto con la realtà.
Nel suo cinema, la narrazione non ha mai il sopravvento sul discorso per immagini. Significativamente, in The Neon Demon le luci riflesse scompaiono progressivamente dal quadro5. Abbassando pertanto l’intensità dell’illuminazione, Refn costruisce una sequenza che ben esplicita la riflessione sulla necessità di un filtro.

the neon demone - colllage

the neon demon - altroIn un luogo dove spazio e tempo si sospendono, dove si discute del Bello come prodotto di volta in volta naturale e artificiale, è l’osservazione stessa, il punto di vista, a filtrare i legami tra i personaggi, a dettare i tempi delle loro performance. Ogni personaggio, dunque, s’impadronisce della propria fetta di spazio come fosse un monologhista su di un palco, rispondendo alle necessità dello sguardo prima che della narrazione.

Jesse e Dean, invitati a cena da Serno, si rendono protagonisti del più importante dialogo dell’intero corpus operis refniano.
Filtrare, nel cinema di Refn, significa mettere in scena e sedersi ad osservare, anche contemplativamente, la complessità dell’opera filmica.
Filtrare, nel cinema di Refn, è sintetizzare la forma.

NOTE

1. Importante il gioco di parole con “to look”, sia guardare che sembrare (o somigliare).
2. La stesse Jesse ha 16 anni, ma è costretta a mentire dicendone di averne 19: i criteri cronologici rimangono un fuoricampo impotente, una misura già stressata, “fantasmatica”.
3. Il cinema stesso è filtro delle sue esperienze, e i “generi” ne filtrano l’estetica guardandone le architravi, piuttosto che i concetti. Si potrebbe affermare che il superamento dei canoni classici in Refn debba ricercarsi nella sua stessa astrazione ontologica, lasciando all’altro-dall’-immagine il ruolo di vicario dei concetti stessi.
4. La bestialità è solitamente associata alla bellezza nella sua forma contemplativa, e alla maniera di uno zoo, le bestie di Refn si scrutano, si studiano, si scoprono negli istinti più animaleschi.
5. La quale cosa si palesava già dal principio del film: l’unico momento in cui vediamo una luce riflettere direttamente, è quello in cui Dean sta fotografando Jesse, preparandole un book. E Dean, che esce di scena bramando il fuori campo, astraendosi dal contesto che percepisce ora come astruso, è il personaggio che meglio si riflette, propriamente, nel contro-campo estetico dell’intero immaginario refniano (allo stesso modo, in risposta alle parole di Sarno, lo stesso Dean s’era detto contrario, più propenso a guardare “quel che sta dentro”).