Figura senza forma, ombra senza colore, Forza paralizzata, gesto privo di moto

Gli uomini vuoti, T.S. Eliot

Old missing pieces

Ciò che Paul Schrader realizza con The Canyons [id., 2013] sfugge in maniera evidente a una definizione di spettacolo che — scevra da formulazioni arbitrarie e particolari — si riferisca prima di tutto all’esperienza comunitaria avente luogo là dove una forma artistica o di intrattenimento incontra un pubblico. Le immagini che accompagnano i titoli di testa, serie di fotografie scattate all’esterno e all’interno di multisala dismessi, rendono allora esplicito il carattere programmatico dell’operazione: prendere atto della fine di un modello1 di cinema — quello strettamente connesso all’idea di sala cinematografica adibita a spazio esclusivo della fruizione — per continuare a fare film ampliando e perpetuando lo statuto del cinema; rivolgere preliminarmente lo sguardo a un’alterità topografica oggi desemantizzata assecondando l’urgenza di interrogare le possibilità di riattivazione per una pratica spettatoriale propriamente transitiva.

The Canyons Paul Schrader Lo Specchio Scuro Analisi Recensione Sebastiano Lombardo

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L’istanza di riflessione dichiarata dall’incipit è la medesima cui sembrano appellarsi molte personalità coinvolte nel dibattito sull’attuale condizione della settima arte, vista migrare dalla sala verso più duttili sorgenti dell’audiovisivo, ossia nell’orizzonte di quei dispositivi mediali pensati per convocare a un approccio multiforme e deliberato a seconda delle esigenze del singolo user. Per mezzo di un riconoscimento, di fronte alle immagini intermediali — immagini digitali invischiate nel mare della rete, dalla matrice aleatoria e passibile di costante verifica — «ci misuriamo con qualcosa per così dire di incompleto; proviamo letteralmente a ricostruirlo»2 , compiendo un esercizio di discernimento differenziale attraverso il quale ripristinare «una configurazione che nonostante tutto continua a essere cinematografica»3. Questo lo sforzo richiesto anche da The Canyons, del quale si intuisce immediatamente la forte carica provocatoria. Il progetto — lanciato ricorrendo ad autofinanziamenti e a una campagna di crowfunding su Kickstarter —, oltre a definirsi lungo una filiera produttiva ormai invalsa per la riuscita economica di propositi qualsiasi (non soltanto artistici), si dirama nel web eludendo ogni tipo di identificazione con una forma chiusa, lasciando così prefigurare un prodotto sfaccettato e caleidoscopico (la cui natura trova adeguata rappresentazione grazie all’effetto orgiastico di luci al laser inscenato nella sequenza assurta a emblema del film).

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Nella scena di foursome in cui sia Christian che Tara subiscono l’uno l’oggettivazione dell’altra, le dinamiche attraverso le quali il soggetto insiste nella reificazione del proprio partner sessuale rinviano implicitamente alla partecipazione richiesta dallo spettatore contemporaneo all’oggetto del film, volendo intrattenere con esso un rapporto sempre più all’insegna della manipolazione.

In questa direzione cooperano evidentemente: la scelta di un cast borderline — messo insieme attingendo alla vetrina del porno e alla discarica dei rifiuti di Hollywood — per i due protagonisti interpretati da James Deen e da Lindsay Lohan, celebrità note più per le disavventure fuori dal set di cui si dà notizia che per il rango attoriale effettivamente riconosciuto loro; l’intervento di personalizzazione estetica compiuto con la lavorazione di trailer alternativi dalla diffusione “virale”, rispondente al gusto vintage e grindhouse del primo collaboratore al montaggio del film Dan Shulman-Means (per il settantiano Thriller Teaser) o a quello stucchevole e pop del rapper/producer/stilista Kanye West (per il glitterato DONDA Remix); infine la distribuzione affidata a canali che denunciano un’antinomia di fondo: The Canyons esce al cinema e on demand per il web, sfruttando due modalità di fruizione, quella tradizionale legata alla programmazione in sala e quella dello streaming-download a pagamento, profondamente differenziate in termini non solo spaziali e temporali quanto più propriamente esperienziali.

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Inoltre, nonostante le competenze precipue di due autori screenwriters come Schrader (Taxi Driver [id., 1976], American Gigolo [id, 1980]) e Breat Eston Ellis (prestato dalla letteratura al cinema a partire dalla trasposizione del celebre romanzo American Psycho per la regia di Mary Harron [id., 2000]), la presentazione dell’intreccio alla maniera di un thriller a sfondo erotico non tramuta in garanzia per una solida impalcatura narrativa, lasciando del tutto insoddisfatta l’adesione a una storia che, oltrepassato il limite della de-drammatizzazione, sconfina nell’insostenibile abulia di un mondo rappresentato fatto di cinismo, ricatti e ripetuti inganni per le aspiranti celebrità hollywoodiane. Tara, fallito ogni tentativo di affermazione sociale auspicato dalla relazione con il proprio ex Ryan (Nolan Gerard Funk), vede in Christian — suo nuovo compagno — l’opportunità per realizzare il sogno di una vita pienamente materialista, benché assicurata da un patrimonio al quale il giovane produttore losangelino si aggrappa non senza inquietudini (queste ultime causate da un tormentato legame col padre, motivo ricorrente nella filmografia dell’autore4). Christian — esageratamente perverso e possessivo — indagando sul trascorso sentimentale fra il novello attore e la propria fidanzata, non impiega molto a scoprire che i due, in segreto, si frequentano ancora, e trova nella violenza (fisica e psicologica) una soluzione all’offesa del tradimento di cui si riconosce vittima (nonostante la condotta infedele dimostrata a sua volta nei confronti di Tara). Rinviando al paragrafo successivo la disamina del tratto — in parte congiungibile al disegno della poetica schraderiana — con cui il regista caratterizza, anche se poco perspicuamente, i suoi personaggi, una giustificazione all’insulsaggine del plot la suggerisce l’atteggiamento tenuto dallo stesso lungo questi anni duemila. Tornato a collaborare insieme a Martin Scorsese nel 1999 (per il quale firma la sceneggiatura di Al di là della vita [Bringing Out the Dead]), con l’avvento del nuovo millennio Schrader sembra accantonare deliberatamente l’attività di sceneggiatore (ripresa soltanto nel 2007 con The Walker [id.]), non tanto per dedicarsi full time a quella di regista (portata avanti in questo periodo con i quattro titoli Auto Focus [id, 2002], Dominion: Prequel to the Exorcist [id., 2005], appunto The Walker e Adam Resurrected [id., 2008]) quanto per riflettere — non senza un certo anticipo — sulle nuove condizioni imposte alle pratiche di scrittura dal cambiamento tecnologico portatore della cosiddetta «proliferazione di media»5. In un articolo comparso sulla rivista The Guardian nel giugno del 2009, partendo dalla constatazione di un rinnovato e frastagliato universo mediale, l’autore porta a considerare come, a fronte di una saturazione delle possibilità narrative messa in atto dall’affastellata6 congerie di contenuti che invadono il nostro campo di visione, si riscontri l’emergere di un tipo di «intrattenimento “anti-narrativo”7»rappresentato in particolare: dalla reality tv; dalle trasposizioni di storie realmente accadute; dalle trame aperte costruite dai videogiochi; dalle forme brevi di narrazione «create per i telefoni cellulari e per Youtube»8; dai documentari; e in generale da quei «formati basati sulla prevedibilità e sulla ripetizione ([…] serie crime procedurali, cartoni con i supereroi), e sul riutilizzo di vecchie trame»9. Questa la ridda di prodotti dell’audiovisivo — molti concepiti come veicolo di demistificazione nei confronti di realtà in cui tuttavia è necessario intravedere un calcolato allestimento — cui oggi è in qualche modo richiesto di surrogare un cinema che, a detta del regista statunitense, avrebbe quasi completamente esaurito le risorse del racconto10. A distanza di qualche anno da questo intervento, è con The Canyons che Schrader arriva a sviluppare l’assunto teorico della sua riflessione, riscontrando nel testo filmico una sede critica d’elezione. Affiancato e rapidamente incalzato dagli altri media nella produzione di storie, il cinema non cessa infatti di esercitare una funzione esplicativa in relazione ai principali fenomeni antropologici e socio-culturali del nostro presente, cambiando in un certo senso fisionomia ma non identità. Nel film, lo sviluppo della diegesi non genera alcuna attesa o suspense, ma la scabrosità della trama, con l’aiuto di ambientazione e personaggi fortemente autoreferenziali, restituisce un quadro impietoso dell’immaginario contemporaneo costruito attraverso strumenti e manifestazioni tipiche di quell’intrattenimento che ha rimpiazzato la visione in sala: oltre alle immagini — giocate sul contrappunto — del già citato e sepolcrale incipit, quelle dei filmati pornografici in cui Christian e Tara riprendono le proprie prestazioni sessuali, quelle dei profili sui social network (di Facebook per la precisione), o ancora quelle — trasferibili su qualsiasi display — della messaggistica istantanea diventano non solo materiale filmico, ma anche e soprattutto materiale cinematografico.

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Se dunque il risultato, rintracciabile prima di tutto nella costruzione di un ipertesto, da un lato finisce per innescare un vero e proprio processo di gemmazione dei «materiali audiovisivi»11 (i paratesti di cui si è scritto sopra) — alla luce di uno spostamento sistematico dell’attenzione del pubblico dal film a qualcosa di diverso (ma pur sempre identificabile con il cinema) —, dall’altro esso continua a offrire i mezzi indispensabili perché venga percorso quel tragitto che dall’intercettazione frammentaria del film arriva alla compiuta fruizione dell’opera cinematografica. In un tempo in cui «tutto è diventato punto, minuzia, dettaglio, resto», in cui «ogni cosa sopravvive ormai, soltanto, con un lembo, con una sfumatura di se stessa»12 , si può pensare che il  cinema — molto più del suo luogo fisico — permanga allora assumendo l’aspetto delle rovine, le quali «al pari dei “frammenti”, non possono prescindere dall’evocazione della forma intera ormai scomparsa da cui derivano. Esse vi alludono e vi rimandano di continuo e per costituzione. Per quanto minuto, amorfo e anonimo sia diventato, il “pezzo staccato” spinge per concatenarsi agli altri e ricomporre il mosaico completo, indipendentemente dalla sua effettiva realizzazione»13.

«Just being transparent, baby»

Film-saggio che riflette sulla transizione da un’idea di dispositivo come «apparato» a una di cinema come «assemblage»14, The Canyons concreta inoltre i presupposti per un aggiornamento dell’estetica messa a punto dal regista con il filone di film riuniti dallo stesso sotto l’etichetta “sexual chic”. Il look estremamente ricercato e glamorous inaugurato nel 1980 da American Gigolo come «stile […] fatto di pure superfici, specchi, riflessi che consiste nel trasferire la sensualità dei corpi agli oggetti»15, rilanciato grazie alle altre prove degli anni novanta che propongono«personaggi, vestiti, situazioni e un’illuminazione affascinanti»16 (Cortesie per gli ospiti [The Comfort of Strangers, 1990] e Le due verità – Forever Mine [Forever Mine, 1999]), fornisce di volta in volta un particolare assetto scenico atto a connotare quelli che si rivelano in ogni caso ambienti in cui mostrarsi, luoghi dell’apparire, spazi — come suggerisce l’analisi di Alberto Libera sulla filmografia dell’autore — «entro cui far muovere […] nuovi corpi fantasmizzati». Los Angeles, Venezia e Miami sono infatti le città dove ciascun protagonista-fasmide si confonde mimeticamente e reitera la propria immagine attraverso la superficie della corporeità17, almeno sino al sopraggiungere di un’agnizione (quella di Robert in Cortesie per gli ospiti), di un’epifania (quella di Ella che sorprende Alan sulla spiaggia in Le due verità) o — secondo la teoria schraderiana dello stile trascendentale18 — di un «evento decisivo» (compimento della «scissione» fra il personaggio e il suo contesto) che ne orienti la condotta verso la redenzione (quella di Julian nel finale di American Gigolo)19.

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American Gigolo, Cortesie per gli ospiti e Le due verità – Forever Mine 

Nuovi titoli ascrivibili alla medesima categoria sono poi The Walker e appunto The Canyons. Ma se a Carl — il protagonista del film del 2007 — viene ancora concessa una possibilità per evadere dalla prigione dorata dei riti e delle cerimonie che scandiscono le sue giornate in compagnia di signore in vista di Washington, D.C., Ryan, Christian e Tara, diversamente, lottano contro una disperazione di segno opposto: assetati di gloria, potere e ricchezza, questi desiderano uscire dall’anonimato e ottenere il successo richiesto ad Hollywood; si adoperano pervicacemente — e con qualsiasi mezzo — perché una credibilità venga loro riconosciuta nel mondo e dall’altro. Di qui la messa in vendita del proprio corpo come immagine da parte di tutti e tre i personaggi principali del film: Ryan posa seminudo per un servizio fotografico (realizzato da professionisti che ignorano persino il suo nome) e accetta, senza il minimo scrupolo, di offrire una prestazione sessuale a uno dei produttori del film in cui spera di prendere parte come attore; Tara preferisce continuare a soddisfare le fantasie pornografiche di Christian (quest’ultimo parente ideale dell’autocentrato protagonista di Auto Focus [id., 2002] Bob Crane20), figurando nelle scene di sesso allestite dalla coppia in casa propria, piuttosto che sapersi di nuovo in una precaria condizione economica con l’ex; Christian, infine, necessita anche lui di una particolare immagine di se stesso, ovvero di una parte d’attore21 da recitare al Dr. Campbell (Gus Van Sant) — suo psicanalista — con la quale assicurarsi i finanziamenti del padre.

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Proprio nella sequenza che mostra l’ambiguo produttore di b-movies incontrare il Dr. Campbell per una seduta nel suo studio è possibile rilevare la principale fonte letteraria di cui si serve Schrader per leggere lo smarrimento dell’individuo moderno in una condizione di catatonia provocata dall’asservimento dell’io a un corpo — ancora secondo la riflessione di Alberto Libera — ridotto a «pura energia da diffondere nello spazio». Come fa notare il regista in un’intervista pubblicata dalla rivista Film Comment nell’estate del 2013, «La scena termina con la messa a fuoco del dipinto di questo signore che guarda in basso verso Christian. Ed è T.S. Eliot. The original Hollow Man».22


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Il riferimento a The Hollow Men (Gli uomini vuoti)23, poesia composta nel 1925 dallo scrittore  originario di Saint Louis (Missouri), permette allora di cogliere una volta di più la qualità impalpabile dei corpi e la consistenza evanescente delle azioni che contraddistinguono i rapporti umani in The Canyons.
Fin dal 1968 — anno del suo trasferimento in California — il calvinista Schrader, provenendo da un clima permeato di osservanza religiosa (tutt’altro che torrido), non fa che dimostrarsi avulso dal tessuto urbano di un ambiente che tuttavia gli fornisce materia di rappresentazione icastica per film come Hardcore (id, 1979) e American Gigolo. In queste pellicole, come nell’ultimo lavoro del 2013, Los Angeles è e resta la città della perdizione alla quale attribuire una dimensione infernale, scenario di depravazione e squallore che, nel tempo, semplicemente si sono fatti sfondo per qualcun altro. Ryan, non a caso, proprio come lo studente di UCLA alla fine degli anni sessanta, arriva dal Michigan — si può ipotizzare da Grand Rapids, se è vero che l’autobiografismo costituisce da sempre una prerogativa della poetica schraderiana — con l’aspirazione di lavorare nell’industria cinematografica. A Hollywood egli si scontra con una realtà radicalmente estranea alla sua forma mentis («I’m just a more conventional guy», proferisce nella prima scena di dialogo del film contrapponendo il suo atteggiamento a quello disinibito di Christian) e perciò, privo del talento di chi — proponendosi come sceneggiatore — lo ha preceduto in questo tipo di esperienza, accetta di vuotare il proprio corpo, di estrarne un’immagine trasparente, «vero spettro», «vero catalizzatore della perversione»24 da prestare al cinema.

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NOTE

1. «Se c’è una cosa chiara è che siamo alla fine di un modello che ha dominato a lungo, quello per cui uno spettatore assisteva a un film. Assistere significa porsi di fronte a qualcosa che non dipende necessariamente da noi, ma di cui ci troviamo a essere testimoni. Si tratta dunque di essere presenti a un evento […]. Oggi questo modello non sembra più tenere: la visione di un film comporta sempre più spesso una serie di atti preparatori, di azioni di sostegno, di scelte tra differenti alternative, di mosse parallele. Lo spettatore si trova a poter intervenire — e talvolta a dover intervenire — sia sull’oggetto della sua visione, sia sull’ambiente circostante, sia infine su se stesso, quasi toccasse a lui gestire la situazione», F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Saggi Bompiani, Milano, 2015, p. 286.

2. Ivi, p. 69 

3. Ivi, p. 66 

4. «I personaggi di Schrader vivono sempre nel cono d’ombra del padre nonostante covino nel cuore l’utopia dell’apostasia», A. Canadè, Paul Schrader. Tecniche di sceneggiatura e pratiche di regia nella New Hollywood, Le Mani, Recco, 2004, p. 189. 

5. P. Schrader, Beyond the Silver Screen, «The Guardian», 19 June 2009. http://paulschrader.org/articles/2009-6-19-guardian-silverscreen.html 

6.«Film, show televisivi, cartoni animati, video in streaming, clip di Youtube. Trame lunghe e brevi: teen comedies, soap operas, storie d’amore, crime shows, drammi storici, stravaganze con effetti-speciali, horror, porno […]», Ibidem. [Traduzione del redattore] 

7. Ibidem. [Traduzione del redattore] 

8. Ibidem. [Traduzione del redattore] 

9Ibidem. [Traduzione del redattore] 

10. «Il “collasso delle narrazioni” non ha conosciuto uno sviluppo autonomo. Rientra in un quadro di crisi che affligge il cinema contemporaneo. I film erano forme d’arte nel ventesimo secolo. Il concetto tradizionale di film, di immagini proiettate in uno spazio buio per alcuni spettatori, è sempre più superato. Non so quale sarà il futuro dell’intrattenimento audiovisivo, ma non credo sarà ciò che chiamavamo cinema. Le narrazioni cambieranno e resisteranno. Tuttavia l’intrattenimento audiovisivo sta cambiando e le narrazioni cambieranno con esso», Ibidem. [Traduzione del redattore] 

11.«Ne deriva la crescente convinzione che in realtà il cinema sia costituito — e lo sia sempre stato — da una serie di elementi eterogenei, spesso provenienti da altri campi, e talvolta permutabili, che si aggregano in base alle circostanze. Il cinema è qualcosa che si configura di volta in volta, sulla spinta della situazione, di un bisogno, di un ricordo. […] Il dispositivo non appare più come una struttura precostituita, chiusa e vincolante, ma come un complesso aperto e flessibile — non è più un apparato, ma piuttosto un assemblage. E non è più la “macchina” a determinare l’esperienza, ma è l’esperienza a trovare la sua “macchina”», F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, op. cit., p. 112 

12. P. Barone, Un groviglio di serpenti vivi, in Georges Didi-Huberman: un’etica delle immagini, «Aut-aut: rivista di filosofia e cultura» n. 348, Il Saggiatore, Milano, 2010, p. 208. 

13. Ibidem

14. Cfr. F. Casetti, op. cit., pp. 122 e ss. 

15. A. Canadè, op. cit., p. 157. 

16. Dichiarazione del regista riportata nel press-book del film, citato in A. Canadè, op. cit., p. 180. 

17. Nel caso di American Gigolo, per esempio, avendo per protagonista un «personaggio superficiale» anche «il film doveva parlare di superfici, bisognava creare una nuova immagine di Los Angeles in grado di riflettere questo nuovo tipo di personaggio», K. Jackson (a cura di), Schrader on Schrader & Other Writings, citato in A. Canadé, op. cit., p.  157. 

18. P. Schrader, Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer, a cura di Gabriele Pedullà, Donzelli Editore, Roma, p. 210 

19. «American Gigolo è, come molti altri film schraderiani, il racconto del cammino di un’anima. Quello di Julian è infatti un “viaggio” che, attraverso una serie di tappe (incontri), lo conduce alla redenzione», A. Canadè, op. cit., p. 158. 

20. «Bob adora lui stesso prima di chiunque altro, l’immagine di sé proveniente dallo schermo. Il titolo del film rimanda proprio all’involuzione del protagonista, al suo narcisismo. Bob è capace di mettere a fuoco solo se stesso. Auto Focus quindi nel senso di Self (“se stesso, da sé”) Focus», A. Canadè, op. cit., p. 208. 

21.«Lo stile di vita americano […] ha spontaneamente questo carattere di finzione perché è il superamento  dell’immaginario nella realtà», J. Baudrillard, America, SE, Milano, 2000, p. 107. 

22. Larry Gross, The Noise Factor, «Film Comment», July/August 2013. http://www.filmcomment.com/article/the-noise-factor [Traduzione del redattore] 

23. T.S. Eliot, Poesie, Bompiani, Milano, 2000. 

24. A. Canadè, op. cit., p. 209.