«Le cose semplici sono le migliori. […] Ciò che valorizza l’arte è l’assoluta semplicità. Hemingway lo sapeva. […] La vita dei suoi personaggi si svolge dolcemente, i fatti si succedono ordinatamente, non ci sono mai quegli stupidi sottotesti che servono soltanto a complicarci inutilmente il lavoro. Stendhal l’aveva capito. Flaubert, Tolstoj, Melville. La semplicità li ha fatti grandi.»
Per bocca di John Wilson, alter ego di John Huston da Easwtood interpretato in Cacciatore bianco, cuore nero [White Hunter Black Heart, 1990], il regista di Mystic River [id., 2004] formula una rivendicazione di poetica che più limpida non si potrebbe. Abituato a prese di posizione perentorie (le sue simpatie repubblicane non sono un mistero, così come non lo è la sua simpatia – «non un endorsement» – per Donald Trump, che «dice cose stupide»1ma «è un tipo tosto» se paragonato alla «pussy generation»2 di stampo democratico), non ha quasi mai abdicato – l’eccezione significativa è Bird [id., 1988]3 – ad un’idea di cinema caratterizzata dalla chiarezza espositiva, dalla nitidezza della prassi e dello sguardo, dalla pratica concretezza della messa in scena, dove ogni inquadratura riveste un ruolo e un significato precisi.
È grazie a questa trasparenza del come (la forma) che resiste il mito della classicità di Eastwood, ma – come sostiene Christian Autier – un’attenta analisi del discorso mette in luce una complessità inedita: «è capace del più puro classicismo come dello sconvolgimento delle convenzioni. Questa capacità di sovversione viene spesso ignorata, certamente perché il suo cinema resta, sul piano formale, molto classico. […] È nel suo discorso che manifesta le proprie audacie.»4
Dai grandi autori della classicità, soprattuto da Howard Hawks (semplificando si può dire che se Space Cowboys [id., 2000] è il suo El Dorado [id., 1967], Sully [id., 2016], per la capacità di sintetizzare il proprio universo autoriale in un microcosmo ideale, è invece il suo Un dollaro d’onore [Rio Bravo, 1959]), Eastwood prende a prestito le coordinate di un progetto che ritorna continuamente sui vecchi concetti, temi, idee, sul proprio universo mitopoietico. Sulla propria mitologia. Un progetto che batte continuamente lo stesso terreno per captarne le mutazioni, sottoporlo alla prova del tempo, per correggere il tiro laddove necessario (che distanza separa Gunny [Heartbreak Ridge, 1986] dal dittico dedicato dedicato alla battaglia da Iwo Jima5, e quest’ultimo da American Sniper [id., 2014]?), per verificare sul campo il proprio percorso autoriale6.
Space Cowboys
«Si potrebbe forse affermare che non c’è nessuno più americano di lui»7, scrisse Norman Mailer nel 1983 dopo un’intervista rilasciatagli dal regista in occasione dell’uscita di Honkytonk Man [id., 1982].
Il viaggio del cinema di Clint Eastwood compone una sorta di «cosmogonia» della civitas americana e dei suoi miti fondativi (la violenza, la famiglia, la frontiera, l’etica individuale della responsabilità, la problematica convivenza tra giustizia e legge: sono presenti quasi tutti gli architravi del pensiero statunitense) continuamente indagati e problematizzati. È forse un caso che, in due dei suoi film più importanti – i western Lo straniero senza nome [High Plains Drifter, 1973] e Il cavaliere pallido [Pale Rider, 1985] – ad assicurare una corretta applicazione della giustizia (umana e divina) siano due fantasmi (nelle specifico, due revenants)?
Alla Storia, Eastwood applica il medesimo processo di continua riscrittura che caratterizza il proprio rapporto con la classicità e il proprio approccio alla materia cinematografica, a partire dalla continua revisione dei canoni e delle possibilità di genere (nel suo capodopoera Gli spietati [Unforgiven, 1992], il côté metafisico lascia spazio ad un canto funebre laico e agnostico in tutto e per tutto «terragno»).
Fantasmi nella Storia: Lo straniero senza nome e Il cavaliere pallido.
Quello di Eastwood, in definitiva, è un percorso cinematografico che si trasforma (muta) di pari passo con il suo autore (sia più disilluso o arrabbiato, pessimista o patriottardo, indulgente o appassionato) e l’America che racconta. È da questa dialettica, questo continuo scambio tra le parti, che nasce una visione del mondo più complessa di quanto a prima vista si sia disposti a credere. Ne è un esempio, su tutti, il caso-Gunny. Mentre la stampa stigmatizza il film, accusandolo (assurdamente) di aver fatto propaganda all’invasione di Granada, il Dipartimento della Difesa chiede alla Warner Brothers di omettere ogni riferimento al supporto ricevuto dal Pentagono durante la realizzazione. «Non mostra la realtà.»8
Sully testimonia quindi una nuova fase di questo itinerario. Basato sul libro autobiografico del comandante Chesley «Sully» Sullenberger (e del co-autore Jeffrey Zaslow), il film ricostruisce l’amaraggio del volo 1549 della US Airways, atterrato miracolosamente sul fiume Hudson («Miracle on the Hudson», è stato infatti pomposamente ribattezzato dallo stampa) dopo aver perso a bassa quota entrambi i motori in seguito ad un bird-strike9, senza registrare nessuna perdita tra i membri dell’equipaggio e i passeggeri.
Come in uno dei film che più intensamente hanno indagato le aporie dell’identità nazionale statunitense, L’uomo che uccise Liberty Valance [The Man Who Shot Libery Valance, 1962] di John Ford, anche Sully vive di una doppia dimensione temporale in cui l’evento topico è narrato in flashback. La cornice del film di Eastwood, dal canto suo, racconta di come l’indagine sull’ammaraggio condotta dal National Transportation Safety Board (NTSB) abbia cercato di dimostrare, avvalendosi di sofisticate simulazioni computerizzate, che l’aereo avrebbe potuto essere riportato senza danni all’aeroporto di La Guardia o di Teterboro.
Questo soggetto permette a Clint Eastwood di affrontare anzitutto due «tematiche» tipicamente hawksiane. Da una parte, la celebrazione dell’eroismo quotidiano che si concretizza nella fedeltà dell’individuo al proprio dovere e alle proprie scelte (come i personaggi dei film non comici di Hawks, anche quelli di Eastwood sono anzitutto dei «professionisti», seguono un’etica del lavoro che talvolta contrasta con il privato). Dall’altra, al pari del coevo Snowden [id., 2016] di Oliver Stone o del di poco antecedente Il ponte delle spie [Bridge of Spies, 2015] di Steven Spielberg, il nodo della responsabilità dell’individuo come membro di una collettività e del rapporto contrastato tra il singolo e le Istituzioni, tra l’individuo e un un sistema di potere deumanizzato e deumanizzante (un ambito di riflessione caro anche a Frank Capra, con la differenza che al proverbiale ottimismo di quest’ultimo Eastwood sostituisce un pessimismo più ambiguo e tormentato). È qui che emerge, ancora una volta perentoria, la presa di posizione dell’autore. Nel suo cinema profondamente antropocentrico, l’identità personale (e il suo corredo valoriale) non coincide con l’identità nazionale (e la Ragion di Stato). È qui che emerge, ancora una volta trasparente, l’individualismo come misura di un universo mitopoietico (portato, talvolta, in passato, ad esiti reazionari: il Nick Pulovski di La recluta [The Rookie, 1990] p.e. non si fa problemi a sparare in fronte al villain disarmato, preferendo assicurarlo alla propria idea di giustizia).
La recluta
Rispetto al passato (Sully non si inserisce forse nello stesso solco tracciato da quella sezione ideale della filmografia eastwoodiana che comprende Un mondo perfetto [A Perfect World, 1993], Potere assoluto [Absolute Power, 1997], Fino a prova contraria [True Crime, 1999], Changeling [id., 2008] e American Sniper e volendo anche Assassinio sull’Eiger [The Eiger Sanction, 1975] e il «reaganiano» Firefox – Volpe di fuoco [Firefox, 1982]?10), il regista deve però ancora una volta rivedere i propri paradigmi di fronte ad un mutato scenario socio/culturale/antropologico. Per la prima volta, Eastwood fa i conti con il nuovo universo post-mediale della simulazione e degli ipertesti multimediali interattivi, come sostiene Eugeni11. Un mondo complesso e sfuggente, sempre più indecifrabile, dove la tecnologia digitale crea un nuovo strato di realtà da sovrapporre a quello analogico (non è forse esattamente questo il ruolo delle simulazioni dell’atterraggio?). Un mondo di simulacri, la cui percezione stessa è talvolta priva dei referenti reali (è il motivo per cui la commissione del NTSB dimentica il «fattore umano» e accorda assoluta fedeltà alle simulazioni di volo). Un mondo in cui ogni evento viene smembrato, anatomizzato, scomponibile com’è in infiniti sottoinsiemi, leggibile attraverso una quantità potenzialmente illimitata di parametri. Un mondo in cui il dato, nudo e crudo, è più importante della sua contestualizzazione (la commissione sciorina complessi parametri ingegneristici ma dimentica di inserirli nel giusto contesto). Un mondo dominato da processi di gamification, «meccanismi, comportamenti e atteggiamenti propri del gioco e in modo specifico del videogioco vengono spostati in contesti e situazioni non di gioco»12 (il co-pilota interpretato da Aaron Eckhart rimprovera così la commissione: «Non era un videogame.»)
È una questione di punti di vista. Il sensibile aumento delle prospettive di lettura restituisce l’oggetto solo per frammenti ma non nella sua interezza. Il nuovo universo dei segni lascia tracce di un disegno sovente incompleto. Per questo, in Eastwood come in un altro cineasta umanista come Michael Mann (si veda il recente Blackhat [id., 2015]) , è ancora una volta il singolo – il soggetto («the human factor») – il deputato a restituire una visione d’insieme, aprendo il proprio sguardo (quante volte nel film Sully/Tom Hanks apre e chiude gli occhi? Soprattutto in apertura e chiusura dei flashback?) sul mondo.
La prima immagine di Sully tornato a terra dopo lo scampato pericolo è quella di una visita… oculistica
In modi diversi dall’Iñárritu di Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza) [Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance), 2014], sia Mann che Eastwood hanno compreso che questa partita non può non giocarsi su un terreno strettamente cinematografico, essendo il cinema media «simulacrale» per eccellenza, un «tramite» grazie al quale la realtà viene ri-presa e ri-presentata. E se Mann frammenta il dettato visivo, ricorre all’out of focus e alla macchina a mano, moltiplica le sorgenti di ripresa e di sguardo, fa del mondo un universo visibile in cui tutto è re-immaginato (non a caso, il film si conclude sulle immagini prodotte da un dispositivo di sorveglianza) e i suoi abitanti appaiono giocoforza come fantasmi (paradossalmente proprio perché coscienti della propria iper-visibilità), Eastwood – il «classico» Eastwood – allestisce una specie di «set nel set» (e l’ossessione per il set come specchio di una realtà inconoscibile è propria anche degli altri due grandi film americani dell’anno: 10 Cloverfield Lane [id., Dan Trachtenberg, 2016] e – per alcuni versi – Ave, Cesare! [Hail, Caesar!, Joel e Ethan Coen, 2016]13) e riprende le sedute del NTSB come fossero uno spettacolo teatrale, un palcoscenico in cui ciascuno è chiamato ad esporre il proprio punto di vista (va detto inoltre che Sergio Arecco – proprio parlando de L’uomo che uccise Liberty Valance – ha evidenziato come, nel processo dialettico dell’evoluzione della civiltà americana, «”il mestiere delle armi” [sia stato] soppiantato dal “mestiere della dialettica”.»14)
Una volta impiantata questa cornice profilmica, Eastwood – grazie anche alla sceneggiatura di Todd Komarnicki – lascia che il proprio sguardo coincida con quello del suo protagonista (ed Hanks, vista anche la recente interpretazione ne Il ponte delle spie, è sempre più corpo ideale di un cinema che rilegge la classicità per trovare nuove chiavi di lettura per l’oggi), aprendo il film alla rievocazione in flashback degli eventi: la partenza, l’impatto con lo stormo di uccelli che mette fuori uso entrambi i motori, le serrate comunicazioni con la torre di controllo, il miracoloso ammaraggio sull’Hudson, la prontezza dei soccorsi (altro esempio di «professionisti», men at work che per il regista sono carne e sangue del sistema).
Il discorso, però, si fa qui più complesso, perché a Eastwood non interessa una rievocazione «oggettiva» (ovvero riferita al p.o.v. dell’istanza narrante) dei fatti – piuttosto, genialmente, è la ricostruzione a voler essere «oggettiva», perfettamente simulativa, tanto da riuscire quasi a «doppiare» il corrispettivo «reale» – né un’esposizione lineare e cronachistica. Battendo lo stesso terreno in cui si gioca lo scontro tra Sullenberger e la commissione del NTSB, quello dell’immagine digitale (post-video e post-elettronica), Eastwood restituisce la molteplicità dei punti di vista (i due piloti in cabina, i passeggeri e le assistenti di volo nella fusoliera, gli speaker che monitorano i radar alla torre di controllo, persino normali cittadini newyorchesi che d’improvviso assistono alla comparsa in cielo della sagoma dell’aereo) e testimonia così la parzialità delle singole prospettive di sguardo. Sebbene il montaggio interno ad ogni singola scena (un punto di vista sempre soggettivo) rispetti perfettamente i nessi spazio/temporali tra le inquadrature (pressoché ogni gesto dura lo spazio di un take secondo un principio di «ecologia dello sguardo» profondamente eastwoodiano), è il fuoricampo a risultare decisivo in qualità di «assenza strutturante». Un’assenza tanto più angosciante15 quanto più la macchina da presa cerca di abbracciare la totalità dell’orizzonte visibile agli attori in campo.
La ricostruzione dell’amaraggio (ripreso da telecamere di sorveglianza nel video qui sopra) è una replica fedele dell’originale, un doppio schermico del «reale», una decalcomania. Eastwood sfrutta una quantità eterogenea di materiale (interviste ai sopravvissuti, testimonianze dei soccorritori, fotografie, video e altre forme di documentazione dell’evento) per ridare letteralmente vita ai fatti del 15 gennaio 2009. È il cinema che sfida la simulazione sul suo stesso campo.
Punti di vista
È forse anche per questo che le simulazioni dell’atterraggio possiedono in sé una qualità «fantasmatica». Non solo per l’incorporeità (la non-materialità) della riproduzione. La fredda logica meccanica dei piloti del cockpit è perfettamente adatta ad un contesto che sostituisce il mondo «reale».
Lo human factor invocato da Sully/Eastwood non implica, perciò, solamente un ritorno ad un’ideale in qualche modo extra-razionale, ma ribadisce uno spostamento proprio sul piano delle connessioni logiche:«la simulazione è usata quale punto di vista per torchiare la ragione sociale a favore della logica umana»6. È uno slittamento inevitabilmente retorico. La sommatoria di dati reciprocamente estranei in un nuovo sistema chiuso (l’algoritmo che produce la simulazione) è destinata inevitabilmente al fallimento se non tiene conto del principale fattore decisionale bio-logico: la possibilità dell’errore.
Dopo un capolavoro spartiacque come Gran Torino [id., 2008], il cinema di Eastwood si è fatto sempre più introflesso. La presenza della morte è diventata un’ombra vieppiù minacciosa (cfr. Hereafter [id., 2010]), la figura dell’eroe nomade – come ha notato anche Autier, una delle tipologie-chiave dell’eroe eastwoodiano – si è fatta vieppiù stanziale, la spaccatura tra l’individuo e il mondo vieppiù evidente. Profondamente sottoposto ad una rete di stimoli di segno uguale e contrario, di protesi tecnologiche, d’infinite strategie di narrazione, Sullenberger, nel film, assiste impotente allo stravolgimento e all’alterazione delle proprie modalità percettive. Realtà e sogno, presente e memoria si fondono in un’unica dimensione. È solo guardando la propria immagine allo specchio (l’immagine di sé resa altro-da-sé – quasi un fantasma di se stesso – dal monitor televisivo) che Sully può finalmente mettere ordine ad un universo eterogeneo e contraddittorio, riconquistare il proprio presente («timing» è l’esclamazione che accompagna l’agnizione decisiva) e – proprio come l’Eastwood regista – aprire il proprio sguardo per formare una propria visione del mondo. Partendo, non può essere altrimenti, dall’accettazione dell’inevitabile fallibilità (incompletezza) dell’essere umano.
Il manifesto di Gran Torino in Sully.
La «superfetazione» di strategie di racconto.
Percezione.
NOTE
1. http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/04/clint-eastwood-trump-dice-molte-cose-stupide-ma-lo-voto-perche-e-sincero-in-unepoca-di-buonisti-e-leccaculo/2955195/
2. http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2016/08/04/news/clint_eastwood_sto_con_trump_-145342841/
3. Film su un grande jazzista raccontato come una jam session, Bird rimane uno dei più importanti testi di riferimento per dimostrare come il gesto autoriale di Eastwood non si limiti ad una banale archeologia di modelli classici.
4. C. Autier, Clint Eastwood, Fitway Publishing, 2005, p. 62
5. Riferimento ai due film che rievocano la battaglia di Iwo Jima dalla prospettiva americana (Flags of Our Fathers [id., 2006] e giapponese (Lettere da Iwo Jima [Letters from Iwo Jima, 2006])
6. cfr. P.M. Bocchi, Cineforum http://www.cineforum.it/recensione/Sully
7. cit. contenuta in C. Autier, op. cit., p. 64
8. cfr. P. Smith. Clint Eastwood. A Cultural Production, University of Minnesota (Minneapolis), 1993, pp. 204-205
9. Impatto con uno stormo di uccelli.
10. Il caso J. Edgar [id., 2011] appare più complesso e sfumato. Per la prima volta (con la parziale eccezione di Potere assoluto), Eastwood si confronta con una lettura dell’Istituzione «dall’alto», quasi creando un controcampo ideale alla propria filmografia.
11. cfr. R. Eugeni, La condizione postmediale, La Scuola, Milano, 2015, p. 24
12. R. Eugeni, op. cit., p. 30
13. Il set fotografico assolve invece ad una funzione per certi versi simile in The Neon Demon [id., Nicolas Winding Refn, 2016], film di co-produzione franco-danese ma girato a Los Angeles con attori americani. Il ruolo del set in tutti e tre i film citati è però più complesso e articolato di quanto si possa sviluppare in questa sede.
14. S. Arecco, Anche il tempo sogna. Quando il cinema racconta la storia, Edizioni di Cineforum, Bergamo, 2004, p. 172
15. Giustamente, Alessandro Cappabianca – sui social – ha allargato il discorso, scrivendo:«In altre parole l’evento ripetuto, previsto e riprodotto più volte al computer, provato e riprovato dai piloti-controfigura sullo sfondo d’un cielo falso, purificato d’ogni emozione, non è più un evento, non irrompe più dall’esterno come minaccia dell’orrore estremo, non appartiene più al registro del Reale. […] i secondi scorrono senza produrre angoscia. Lo stormo di uccelli (hitchcockiani?) ha già distrutto i motori. L’aereo può precipitare, ma nessuno si farà male. Il volo numero 1549 diventa allora metafora d’un cinema che non fa più male.»